Il demone della quantità ha portato la scrittrice americana a produrre dodici romanzi solo in questo secolo: sul set dell’ultimo tradotto da Mondadori, «La madre che mi manca», una famiglia convenzionale turbata dall’omicidio di un balordo
Caterina Ricciardi
«Controllo imposto sulla passione»: così Joyce Carol Oates descrive il suo metodo di scrittura. Una prima stesura di getto e poi la revisione, fino a raggiungere il risultato immaginato. Di solito l’opera, così completata, resterà chiusa in un cassetto per diversi mesi, persino un anno, in attesa che lieviti per l’ultimo ritocco prima della pubblicazione. Molto prolifica – dal 1963 ha al suo attivo un centinaio di titoli fra romanzi, racconti, saggi – Oates lavora dunque contemporaneamente su più fronti (inclusi l’insegnamento a Princeton, e le consulenze sul pugilato, sport del quale è esperta e a cui ha dedicato un libro), muovendosi su un territorio ormai familiare ai suoi lettori.
L’ambientazione è in genere perimetrata – e di recente in modo più sistematico – nella zona settentrionale dello Stato di New York, fra Rochester, Buffalo e Niagara Falls, sulle rive del Lago Ontario, al confine col Canada, luoghi che conosce dalla nascita (a Lockport nel 1938, da famiglia modesta di origini irlandesi), densi di memorie di storia coloniale, su cui va sovrapponendo una sua saga ossessiva intesa a scavare, spesso impietosamente, negli ultimi quattro decenni del secolo scorso.
Momenti e situazioni ordinari o cruciali di quella che allora si mostrava come una ormai non più perfetta famiglia-società americana prendono corpo nelle sue pagine offrendo un panorama sofferto, poco edificante nell’esposizione delle fenomenologie grottesche che l’America sembra avere coltivato inconsapevolmente nel profondo delle proprie viscere.
Alla narrativa di Joyce Carol Oates non è estraneo un elemento «gotico», rielaborato da una tradizione che viene dal sud degli Stati Uniti e ha come suoi rappresentanti principali Poe, Faulkner, Flannery O’Connor; ma la scrittrice la situa in un’area del paese e in un tempo molto diversi. E diversa è anche l’elaborazione della materia che il mondo offre all’artista: la crisi dell’individuo di fronte alle complessità della fine del secolo, la dialettica fra una sorta di nuovo determinismo, riconosciuto ai livelli più elementari dell’esistenza, e gli spazi della libertà e della volontà umana, secondo temi propri all’etica calvinista. Si apre così, alla Oates, il sipario appropriato per una lettura tragica della vita americana in un’era che, a partire dagli anni ’50, scivola via via nelle maglie di allucinati scompensi. Sono elementi, questi, ricercati nelle variegate mediocrità della provincia, nei conflitti di razza e di religione, nel proletariato urbano (come nel celebre Them, sulla Detroit del 1968), nei clan del potere e della politica, (descritti in Acqua nera, dove si parla del pantano in cui nel 1969 finì Ted Kennedy), o del cinema (come in Blonde), nel mondo accademico, nei residui di una cultura rurale, nei paradisi artificiali dei ricchi, nello sconquasso doloso del sistema ecologico. In questi contesti prende a dominare una precisa metafisica di attrazione-repulsione verso la violenza, sia privata – quella che si consuma all’interno delle famiglie – sia del corpo sociale e istituzionale.
L’importante, per Joyce Carol Oates è obbedire all’impulso, a quella sorta di chiamata che impone di scrivere, descrivere, rappresentare la realtà così come le circola con prepotenza nelle vene, nella testa, nei sogni, fino a che quel vissuto pubblico pretende di tornare alla luce ricomposto nelle pagine di un libro o di una rivista (si contano circa settecento suoi racconti, alcuni memorabili). Così, una operazione di scrematura si rende indispensabile: lo ammette persino la stessa scrittrice che, però, pur correndo per il Nobel, guarda serenamente al busillis quantità-qualità. In Italia la Oates è una scoperta relativamente recente per il mercato editoriale, forse anche sulla spinta di Blonde, quel romanzo-documento fiume su Marilyn Monroe, pubblicato da Bompiani nel 2000. Negli anni ’90 e/o (con Un’educazione sentimentale, Marya, Notturno) e Tropea (Zombie, Perché sono uomini) avevano cominciato a pescare in un canone già trentennale, mentre ora è la Mondadori e essersi impegnata nel tenere il passo con gli appuntamenti orditi dalla mano esperta e veloce della scrittrice americana. Ecco dunque apparire con ritmo più serrato: Bruttona e la lingua lunga (2002), L’età di mezzo (2003), Mike Tyson (2003), Un giorno ti porterò laggiù (2004), Tu non mi conosci (2006, racconti), il piccolo capolavoro Bestie (2002), e quello che possiede lo slancio per essere un libro ben più grande, Le cascate (2006). Mentre negli Stati Uniti esce il dodicesimo romanzo che la Oates ha scritto in questo secolo, The Gravedigger’s Daughter, in Italia si pubblica l’ottavo, La madre che mi manca (traduzione di Annamaria Biavasco e Valentina Guani, Mondadori, pp. 454, euro 19,00), romanzo non privo di cedimenti e dedicato a Caroline Oates. Ambientato nel 2004 a Mt. Ephraim, già sfondo del più solido Una famiglia americana (Tropea 2003), il libro mette in scena il ritratto di una famiglia qualsiasi, nella quale si rispecchia quella facciata tranquilla e pulita del tessuto culturale americano che pare appena ritoccata – nell’era di Bush – sul ricordo dell’immagine che quella facciata mostrava nei lontani anni di metà secolo. Assieme a un contorno di figure stereotipe, qui entrano in scena una figlia un po’ punk e ribelle, un’altra, la maggiore, più posata e borghesemente integrata nei resti del benessere della «Grande Società», un padre introverso, difficile, destinato a morire, e una madre – il cuore del racconto – cresciuta nei caldi anni ’60 senza stranamente percepirne gli smottamenti. È su questo contesto che si proietta il gesto abnorme di un’altra America: il ruolo della vittima è giocato da Gwen, la madre che poi mancherà, oggetto di un omicidio barbaramente perpetrato da un balordo, un senza casa, in un paese in cui il terrore sembra endogeno e non viene solo dagli aerei kamikaze in cielo. È forse questo che Joyce Carol Oates voleva lasciare intendere?
Abile nell’abbandonare subito l’andamento da romanzo giallo (un genere che peraltro pratica sotto gli pseudonimi di Rosamond Smith e Lauren Kelly), Oates piega la narrazione verso due direzioni distinte: quella del romance, la più debole, e quella della ricerca da parte di Nikki, la figlia punk, del vero volto di Gwen, una ricerca che va a compensare il senso della grave perdita subìta. Anche Nikki, alla quale viene cancellato il vacuo trucco del gusto proprio del nuovo secolo, conquista in questa ricerca una precisazione della sua identità, per quanto convenzionale.
Che Oates voglia consegnarci così anche il volto di una America un po’ retró? Quella, per esempio, delle case a schiera, del buon pane fatto in casa, della luna di miele in Florida, della «country music» e della collezione di libri di sacra storia patria in casa? In verità, questa America, così come compare nella Madre che mi manca, è un po’ vecchia, e anche i giovani vi appaiono datati: è una America che non sembra sapere più come ricorrere alla sua grande, eterna risorsa: rinnovare stagionalmente la sua pelle di serpente, come sosteneva D. H. Lawrence negli anni ’20 del ‘900. Ed è forse questa, allora, la «madre» che viene a mancare. A meno che Joyce Carol Oates, come talora accade, trascinata dalla «passione», o dalla nostalgia autobiografica, questa volta non si smarrisca nella sua stessa topografia.