Graziella Pulce
Mai come di fronte a La vista da Castte Rock (trad. di Susauna Basso, Einaudi “Supercoral-li”, pp. 311, € 18,50) viene naturale ricordarsi che Alice Munro è anche il nome di uno dei personaggi più celebri della letteratura americana. Nell’ Ultimo dei Mohicani di Cooper, Cora e Alice sono le fìglie del capitano Munro, il comandante delle truppe inglesi nella guerra anglo-francese per la conquista del Canada. E, diversamente da quanto appare nella trasposizione cinematografica di Michael Mann del ’92, è la bionda Alice che sopravvive alla bruna Cora, al padre, all’ufficiale Duncan e al mohicano Unkas.
Presentata nel 2006 come libro che chiude la carriera della scrittrice canadese, la raccolta di racconti è montata secondo un criterio sostanzialmente diverso rispetto ai precedenti. Nella prima parte si leggono storie che hanno per protagonisti gli avi della stessa Munro, nata Laidlaw, mentre nella seconda l’autrice rievoca alcuni momenti della propria biografìa.
Più o meno al tempo della battaglia di Waterloo, ]ames Laidlaw concepisce il progetto di trasferirsi in America insieme con la famiglia. Partiti nel giugno del 1818 dalla nativa valle di Ettrick, a sud di Edimburgo, essi raggiungono le acque di Terranova e dunque la Nuova Scozia, il nuovo mondo, dopo settimane di un viaggio che – come è facile immaginare – costituisce già dì per sé un’avventura, se non una prova in fac simile dì quel che avrebbe atteso gli intraprendenti europei. Dunque all’inizio e alla fine di tutta la vicenda c’è la terra, quella lasciata alle spalle da cui non si spera più nulla e quella lontana, oltre l’oceano, sognata, intravista e perduta per giorni e giorni, e infine conquistata e resa produttiva. Ma i Laidlaw non sono esattamente una famiglia come tutte le altre e se la loro illustre discendente ha potuto ricostruire i profili dei suoi trisavoli e dei lori nipoti e seguirli negli spostamenti e nella lotta quotidiana per la vita, ciò è avvenuto perché in ogni generazione di questa famiglia c’è stato qualcuno che ha lasciato dietro di sé ampie lettere e cronache dettagliate. Qualcuno in cui era rimasto ben vivo lo spirito di ]ohn Knox, fondatore della chiesa presbiteriana e fautore dell’alfabetizzazione del popolo cristiano. In questo caso è Walter, figlio di James, che annota con diligenza le fasi del viaggio descrivendone gli episodi più rilevanti. Mentre la maggioranza dei passeggeri è impegnata a vomitare sottocoperta, il giovane Laidlaw se ne sta nascosto con carta e penna in cerca della giusta concentrazione: nulla di quello che vive e di quello che vede deve andare perduto. Come se non si sopportasse un’altra perdita dopo quella della terra d’origine. O come se la memoria del proprio vissuto fosse qualcosa di necessario e non di complementare rispetto alle rudimentali masserizie che gli emigranti riescono a portare con sé in quella che sarebbe diventata la loro seconda vita. La padronanza della scrittura consente di mantenere dunque un contatto con i familiari rimasti nel vecchio continente ed è questo il principale motivo che induce chi parte a imparare a scrivere. Ma scrivere lettere permette a quell’atomo d’Europa scagliato in una terra ruvida e dura anche di mantenersi agganciati con se stessi, con la propria lingua e con quella alla memoria dì un passato che se di fatto resta incancellabile dovrà presto o tardi essere rimosso e sepolto degnamente. Eseguire un tale cerimoniale evita il pericolo della dispersione, della frantumazione del proprio io nell’impatto con il nuovo continente, una frantumazione di identità che non potrebbe non avere ricadute devastanti sui protagonisti del viaggio e forse ancora maggiori sui loro discendenti.
È questo che lettere e cronache hanno scongiurato. Lo sgrammaticato racconto del viaggio contiene già una serie di situazioni-chiave: la dignita con cui i passeggeri affrontano le avversità inevitabili in un tratto tanto lungo, compiuto nell’epoca della navigazione a vapore; curiosità infantile verso tutto ciò che è nuovo (e su quelle navi, per i contadini scozzesi e non, tutto ovviamente era radicalmente nuovo); lì c’è soprattutto la pacatezza nel confrontarsi con forze tanto più
grandi del singolo: l’oceano, le nuove terre, la povertà, la malattia, la morte. La stessa forza d’animo che il lettore riconosce nei Laidlaw futuri e che viene fuori ogni qualvolta essi si trovino a doversi misurare con le asprezze dell’Ontano.
Alice Munro riesce a far arrivare nitide le immagini dei suoi predecessori alle prese con la terra, il ghiaccio e il legno della contea di Huron. Il Canada è un’immensa foresta nella quale questi ex scozzesi si inoltrano con calma, ben intenzionati a farsi strada. Qui tutto sembra avere la consistenza della roccia e tutto va affrontato con l’acciaio: quello delle accette e delle vanghe, e quello dei muscoli. Anche la neve assume la consistenza impenetrabile del solido più tenace e spalarla o non spalarla può fare la differenza tra la vita e la morte.
Dalle vicende di questi personaggi, tanto quelli maschili che quelli femminili, si sprigiona un’idea di
forza e dignità che deriva da un senso religioso del lavoro. Ma anche un senso di gioia puramente terrena. Il Canada sembra non conoscere le astrattezze, ma solo oggetti concreti e ben delimitati nello spazio. Lo steccato, la stalla, la fonderia, il tetto, ogni elemento ha il suo nome preciso e viene descritto con l’attenzione che merita un oggetto unico. Non esiste ancora la serialità della produzione di massa. Anche il vocabolario si infittisce di termini poco usuali. Sono nomi di alberi, di fiori, di strumenti di lavoro (clematide, phlox, speronella, trillium, sommacco, e poi siviere, alzaie). Non ci sono ‘animali’, ma visoni, topi muschiati, volpi argentate. Nella giovinezza di Alice compaiono persone che oggi sarebbero classificate e curate come depresse o violente, ma che allora erano accettate per quello che erano senza discussioni. Insomma l’asse privilegiato non è quello storico, ma quello geografico: sono i luoghi a raccontare le storie nelle quali gli esseri umani mantengono un ruolo piuttosto defilato.
Qui pare svelarsi più chiaramente il segreto del raccontare. E il lettore lo intrawede nei momenti in cui fa più fatica a star dietro a tutti i nomi dei personaggi che si susseguono senza che mai uno si arroghi il diritto di primeggiare sugli altri. Nemmeno quando questo personaggio è la stessa autrice ritratta da giovane. Nemmeno quando la seguiamo nelle strade del paese diretta verso la scuola, quando si apparta furtiva con un ragazzetto maldestro, o quando percorre in bicicletta strade secondarie senza incontrare anima viva. Sempre un’orchestra di elementi a fare la musica, mai qualcosa che abbia a che fare con un one man show. Così che a libro chiuso restano nella mente stole di volpi argentate vendute da una donna intraprendente ai turisti americani, pavimenti strofinati con cura da mani arrossate, una ragazzina che legge le Sette storie gotiche della Blixen e si prepara a fare la scrittrice lavorando come cameriera, file di aceri e lecci annosi, casalinghe che leggono Locke, Hume e Carlyle.
Dietro Alice Munro e prima di lei si delinea un mondo impervio e ricco di risorse, l’Ontario, dove si lavora per vivere e -per inaudito che oggi possa sembrare – non per accumulare denaro. Il lavoro, come la virtù, premio per se stesso. Sarà per questo che i debiti qui non fanno paura, visto che si trova comunque il modo di ripianarli. Da questo deriva quell’orgoglio che intride i vari personaggi e da alle loro esistenze l’invidiabile fermezza che mette in condizione di superare il freddo e la povertà, e di guardare senza rassegnazione alle traversie. A dispetto della bassa densità che ha sempre caratterizzato la demografia di questo paese, in Canada nessuno sembra essere più solo di quanto sia necessario per stare bene con se stessi. Sarà forse anche per questo se qui non ci si scompone nemmeno di fronte ai fantasmi e alle lamie che di tanto in tanto si affacciano nei racconti. Hanno tratti decisamente familiari e in definitiva non fanno tanta paura.