Lea Melandri
In un articolo pubblicato sul Corriere della sera (3.2.2013), Dario Di Vico, parlando di candidature femminili, così descriveva in sintesi l’anomalia italiana: “Nei Paesi scandinavi grazie a un welfare inclusivo molte donne sono state elette in Parlamento. In Italia finirà che seguiremo il percorso inverso: circa 285 donne saranno elette in Parlamento il prossimo 25 febbraio e dalla loro spinta forse potrà nascere un welfare più inclusivo”. A ciò va aggiunto il fatto che all’aumento delle parlamentari non corrisponderebbe, stando ai sondaggi, “uno slittamento dell’opinione pubblica delle donne”, convinte in maggioranza che le loro simili possano portare più trasparenza, senso etico e concretezza alla politica, ma non disposte per questo a votarle. Come dire che, peggio degli uomini, non possono fare.
Le cause indicate da Di Vico – il familismo persistente nella società italiana, la difficoltà delle donne ad aggregarsi e premere – dicono, in sostanza, che nel nostro Paese non c’è stato un movimento di emancipazione come nel resto d’Europa, e che la tendenza inclusiva di oggi, più che dalle battaglie delle donne, viene da un sistema politico ed economico in crisi di credibilità e sostenibilità, da un governo impresentabile nel suo arroccamento monosessuato, e dal bisogno di “risorse” nuove – i giovani e le donne -, meno compromesse ma pur sempre “scelte” e dipendenti da una leadership maschile a cui essere grate.
Quello che non si dice è che in Italia il femminismo si è mosso fin dagli anni ’70 su intuizioni e pratiche politiche radicali, modalità di presa di parola e di ascolto di cui si è avuta conferma nell’incontro di Paestum del 5-6-7 ottobre 2012, nonostante fossero passati trentasei anni dall’ultimo convegno nazionale nella stessa località. Il rifiuto di una integrazione che non metteva in discussione l’ordine esistente e il ruolo domestico della donna, per cui avrebbe oscillato tra politiche di parità e tutela della differenza femminile, era già nei documenti del gruppo Demau nel 1967. In seguito, sarebbe stata la politica stessa, le sue istituzioni, i suoi linguaggi, le sue regole, a dover affrontare la sfida di una autonomia di pensiero cresciuta attraverso la messa al centro della soggettività, delle problematiche del corpo, delle relazioni tra donne e tra donne e uomini. Paestum ha segnato, per generazioni diverse ma “contemporanee” nel desiderio di confrontare saperi e consapevolezze “storiche” con gli interrogativi del presente, la possibilità di riprendere e aprire a nuove soluzioni l’intreccio che c’è sempre stato nelle donne tra “voglia di contare” ed “estraneità”. La campagna elettorale in atto e la novità costituita dal numero rilevante di candidature femminili e femministe ha fatto sì che, tra i temi affrontati a Paestum, sia emersa con particolare urgenza la questione della “rappresentanza”, sia pure vista in modo più ampio come “libertà di accedere a tutte le chance esistenziali, culturali e politiche, possibilità di incidere a livello decisionale nei destini della civiltà che abitiamo” (Campari).
Alla domanda “Sempre più donne candidate. Cosa cambia?” cercherà di rispondere l’incontro che si tiene a Bologna il 9 febbraio. Si possono considerare condivisi, quanto meno dalle donne che verranno, il fatto che non si votano “rappresentanti” – di genere o del femminismo -, dato che non siamo né un gruppo sociale né un partito, e così come la consapevolezza di quanto sia “forte il tornaconto maschile a includere le donne, a cooptarle, non per favorire la relazione e il confronto”, e quanto la rappresentanza, sia pure consistente numericamente, induca alla “neutralizzazione” (Dominijanni). Resta invece aperta, e richiede approfondimento, la domanda che si legge nella lettera-invito delle donne di Bologna, riguardante il “nesso tra forme di vita e forme di politica oggi, tra il ‘primum vivere’ e la scelta di tante di misurarsi con l’esperienza della rappresentanza”.
La lunga elaborazione di autonomia, conseguita con la pratica dell’autocoscienza, ha permesso di ripensare l’idea di soggetto politico omogeneo (classe, genere, ecc.), ha sostituito “rappresentanza” con “auto rappresentazione”: “per orientarsi una persona ha bisogno di una immagine di sé, di quello che desidera, che le capita”, ha bisogno dello scambio con altre/i. Sono queste le condizioni oggi per parlare di democrazia. Ma se la bontà della pratica originaria del femminismo ha dimostrato a Paestum la sua vitalità, più difficile è vedere dove si incontrano le posizioni di chi ritiene “irrilevante” l’impegno nelle istituzioni, o poco credibile la possibilità di portare cambiamenti strutturali nei luoghi di potere, dove si è sottoposti a un’infinità di mediazioni, e di chi pensa che siano oggi l’autocoscienza e la relazioni tra donne a rendere “operanti i propri desideri là dove si decide di impegnarsi”. Nessuna si illude che basti una presenza di donne maggiore che in passato per aprire conflitti nelle istituzioni, ma ci si aspetta che quanto meno le elette ci provino, che usino il loro coraggio, individuale e collettivo per azioni efficaci di rottura e di cambiamento. Negli anni ’70 la pratica del “partire da sé” entrò nelle fabbriche, nelle scuole, nei giornali, negli ambiti professionali. Perché non potrebbe entrare nelle aule consiliari e parlamentari? E perché, sul versante opposto, non continuare a battersi perché venga riconosciuta la politicità dell’azione sociale delle donne (centri antiviolenza, associazioni culturali, nuova economia, ecc.), che sta modificando silenziosamente la vita quotidiana?