Ravensbrück. Significa “ponte dei corvi”. Città concentrazionaria nazista per sole donne e bambini, ospitò il maggior numero di deportate politiche italiane. 132.000 deportate – 92.000 morte. Situata nel Mecklenburg, ottanta chilometri a nord-est di Berlino, in una zona fredda e paludosa, circondata da foreste di conifere e di betulle vicino al lago di Fürstenberg, viene ufficialmente aperta il 18 maggio 1939. Oggi Ravensbrück è un campo di rose.
Lidia Beccaria originaria di Mondovì è staffetta partigiana della XV Brigata Garibaldi “Saluzzo” sui monti del cuneese. Nel marzo del ’44 viene trasportata con altre detenute nel lager femminile di Ravensbrück, nato come campo di rieducazione per l’isolamento delle “diverse”: politiche, asociali, zingare, ladre, assassine, religiose.
Matricola 44 140, lavora con altre 7-8.000 deportate alla Siemens, una filiale per la produzione di apparecchi da bombardamento, fatta costruire a poche centinaia di metri dal campo.
Sopravvissuta, ha testimoniato in tante scuole e in molteplici occasioni pubbliche la specificità della resistenza femminile nel Lager. Attraverso i racconti anche di altre donne, rimaste per molto tempo avvolte da un ambiguo silenzio, dimostra come le prerogative femminili prevalgano su quelle eroiche, maschili.
«Quando tu tentavi di raccontare la tua avventura tiravano sempre fuori l’atto eroico: … però noi… le armi le abbiamo usate noi… voi non avete combattuto.» Orgoglio militare, enfasi sulla morte, primato del combattente in armi. Lidia Beccaria critica l’equazione resistenza uguale lotta armata, perché oscura ogni altra forma di opposizione al regime, a cominciare da quelle forme di resistenza attuate dalle donne nel Lager. Resistenza contro il degrado umano, che inizia con l’essere obbligate alla mancanza del pudore. Le donne nutrite da quell’educazione ricevuta per la quale il corpo non va scoperto in pubblico, si ritrovano madri e figlie vecchie e giovani costrette a vedersi nella loro completa nudità. “Allora cominciamo a guardarci soltanto in volto”.
La bellezza come forma di resistenza
Il corpo. Il rispetto per il corpo. Lidia Beccaria nel suo bel libro-testimonianza “Le donne di Ravensbrück” (Einaudi, 2003) racconta che sono state le deportate francesi a obbligarla a riprendere a lavarsi, a curare quel corpo-larva ricoperto di pidocchi. Così facendo le francesi l’hanno anche costretta a pensare, offrendole la riscoperta bellezza della conoscenza.
Il biancospino fiorito in quei campi di morte è un augurio… “ torneremo a vivere”. Passarsi la mano unta di margarina sul contorno degli occhi – margarina come crema antirughe – è gesto frivolo di forza. Appena i capelli ricrescono, li si aggiusta con bigodini di fil di ferro. Gesti di speranza.
Nel luogo di ritrovo di tutte, il Wascheraum, una grande stanza nel campo della Siemens, si vince la disumanizzazione con l’energia vitale delle danze delle ragazze russe, i canti delle polacche, le melodie delle slave. E tutto il campo si riempie di vita.
La maternità fa la differenza
Gravidanze. Partorire al buio aiutate solo dalle altre deportate che, a rischio della vita, in quel mondo di morte, vogliono essere ancora donne, non numeri, non pezzi da rottamare. Anche l’affronto alla femminilità per la scomparsa delle mestruazioni indotta da denutrizione, si tramuta in un ballo collettivo quando qualcuna annunciava di aver visto sangue. Tuttavia alle nascite fanno da contrasto gli esperimenti di sterilizzazione con radiazioni, soprattutto su bambine zingare, la specializzazione di Ravensbrück e, su donne sane, esperimenti scientifici di fecondazione artificiale per generare gemelli.
Aborti, nascite, morti. Il neonato non è previsto nell’economia concentrazionaria, è un accidente. I neonati di Ravensbrück, piccole vite senza nome.
Più di 800 i bambini nati e quasi tutti morti a Ravensbrück. Circa 550 le nascite registrate.
Durante le due, tre settimane di sopravvivenza vengono accuditi dalle prigioniere svelte a rubare panni e stracci per poter cambiare i bambini, asciugare i pannolini sui propri corpi, ottenere barattoli con latte in polvere e bottigliette. Come tettarelle usano le dieci dita del paio di guanti di caucciù, sottratti al capo medico. Donne che hanno ancora del latte dopo la morte del loro bambino, possono allattare altri neonati ancora per qualche tempo. Quando le madri muoiono, le infermiere adottano i loro bambini.
La solidarietà: peculiarità del femminile
Scegliere per te la zappa più leggera. Dividere in tre una carota intera. La zuppa del mezzogiorno occasione per ricordare odori e sapori della cucina di casa con scambio di ricette: “Quando tu verrai a Parigi… quando voi verrete a Genova…”. È attesa, fiducia di uscire da lì. Anche le intellettuali partecipano all’apertura culinaria e intanto riaffiorano nelle loro menti lontane filastrocche d’infanzia.
Violare le leggi con la complicità collettiva. Si inizia con l’appello. All’appello è proibito parlare, invece sottovoce corrono le notizie su quello che succede all’esterno e all’interno del campo. L’appello è il giornale clandestino parlato del mattino. All’appello è proibito muoversi, ma appena è possibile si sfregano la schiena una contro l’altra. Si coprono il petto di carta rubata in fabbrica. Per i bambini più grandicelli, deportati con le madri, le donne confezionano bambole con pezze rubate. Nell’ultimo Natale, le cuciniere cercano di preparare per i piccoli un pasto più nutriente.
Intanto, Mara in fabbrica sabota i condensatori della ditta. Pina inceppa la sua macchina. Lidia trova il modo di saldare bobine difettose che si rompono subito.
La macchina della morte non ha tenuto conto della capacità di ripresa, di recupero propri dell’essere umano.
Il dramma dopo la Liberazione
Il dramma delle sopravvissute prosegue anche dopo la liberazione. Nessuno era disposto ad ascoltare la storia delle donne deportate. Ognuno aveva vissuto la propria guerra: «…perché, soprattutto le donne, sono un peso in più. A Milano, cerchiamo di prendere un vagone di terza classe e i civili ci sbattono giù per paura dei pidocchi».
Lidia Beccaria confessa di essere stata accolta con diffidenza anche dai suoi compagni di partigianato. Vergogna, al ritorno dal Lager, nel raccontare quando si avvertiva nella gente una sorta di insinuazione ambigua che rimandava all’idea della violenza sessuale subita. «Ma noi le SS non le incontravamo quasi mai. Noi dipendevamo dalle Kapo, scelte tra le prigioniere polacche o tedesche. Difficile far credere che per il sesso si trovavano senza fatica parecchie volontarie tra le prostitute, anche loro deportate perché “diverse”.»
E oggi? Dalle testimoni ci giunge un alto monito: stare vigili e identificare le modalità di spersonalizzazione più raffinate ed efficaci. Riconoscere quella parte oscura di violenza con la quale dobbiamo fare i conti. Il pregiudizio razzista, la cultura sessista dello stupro, dello schiacciare il più debole, il “diverso”, perché il “diverso” viene fatto coincidere con “inferiore”.
Ancora oggi le donne subiscono efferate violenze e i notiziari quotidiani sono un bollettino di guerra. Ancora oggi si assiste ad una sorta di “ginocidio”.
Conoscere la realtà, riconoscere il male. Giusto. Ma la memoria e la conoscenza non bastano. Bisogna scegliere. Scegliere di opporsi al male.