Daniela Riboli
Cosa fosse uno stereogramma sino a qualche giorno fa non lo sapevo e non lo avrei capito neanche con la definizione del vocabolario: coppia di fotogrammi di una stessa zona, usata per ottenere l’effetto stereoscopico, cioè di rilievo, mediante la visione binoculare. Invitata a farne esperienza, invece, ne sono stata catturata: per veder emergere nitido l’oggetto presente nel disegno astratto, bisogna adottare un certo tipo di sguardo capace di vedere vicino mentre guarda oltre. Può essere utile avvicinare e allontanare la tavola colorata ma non basta, bisogna che lo sguardo vi entri dentro e allora capita, ma non sempre, che da esso balzi fuori improvvisa ed evidente la figura precisa che vi è contenuta.
Dunque, trasformare il modo di vedere è possibile: questa certezza mi ha fatto guardare e vedere qualcosa di nuovo. L’ho visto mettendo il n. 95 di Via Dogana, Milano città aperta, in coppia con un’importante assemblea sindacale dell’Azienda Ospedaliera alla quale ho recentemente partecipato. È venuta fuori la figura di un arco che si tende tra situazioni che non hanno nome di politica ma autenticamente lo sono e situazioni che hanno nome di politica ma sono invase da logiche di potere.
Sulle pagine della rivista l’arco si tende tra due distinti estremi. Di qua, l’articolo di Terragni che cerca di fare breccia nella mobilitazione per una scadenza elettorale e viene rilanciato dallo scambio tra Rampello e Buttarelli circa l’urgenza di non sprecare l’occasione che si presenta (la questione spinosa è se e quale ruolo potrebbe avere la Libreria delle donne). Di là, l’articolo di Cosentino che racconta l’agire delle maestre di via Rubattino a Milano: gesti di donne libere che vogliono garantire ai loro alunni Rom di frequentare la scuola cui sono iscritti e perciò li vanno a cercare nei tanti non luoghi in cui finiscono dopo ogni sgombero subito e che si ingegnano a far sentire la loro voce interloquendo con l’autorità costituita e con la cittadinanza.
Nella assemblea dei dipendenti dell’ospedale cui ho partecipato, l’analogo arco è tutto teso all’interno dello stesso contesto, con entrambi i suoi estremi già tra loro in feconda tensione. La convocazione dei lavoratori e delle lavoratrici è ufficialmente avvenuta per questioni di rivendicazioni economiche (certamente dovute e comunque sempre troppo misere). Ma accade che l’assemblea stessa si sbilanci dal suo interno verso una lotta per la qualità del proprio lavoro al cui centro c’è la disponibilità di tempo e possibilità di relazioni (con colleghi e con i pazienti). Ero lì ma un po’ distaccata, quando improvvisamente mi sento chiamata a significare quello che di altro lì avviene: un di più da iscrivere nel discorso dei sindacalisti e delle sindacaliste più autentici che vengono sollecitati a uscire dagli schemi per un protagonismo in prima persona che abbia a cuore un bene comune più elevato. La scoperta, per molti, è nella possibilità feconda di pensare in contesto e in relazione con altri: qualcosa che il lavoro con i pazienti richiede a ciascuno/a nella relazione terapeutica e che la politica delle donne richiede a ciascuna (meglio se in relazione con altri/e) nelle situazioni sociali che si formano più o meno spontaneamente. Un tirar fuori ciò che già c’è, significarlo, secondo la nota arte della levatrice (in assemblea ci sono delle ostetriche e conto anche sulla loro sensibilità). Il passaggio è stretto e non indolore ma porta alla gioia: di questo sentimento parlano alcune lavoratrici e lavoratori nel raccontare la giornata di sciopero trascorsa insieme sotto il palazzo della Regione (edificio nuovo e sfrontatamente opulento in questo tempo di crisi).