Anna Leoni
Il “caso Agnesi” ha riempito le pagine di quasi tutti i giornali estivi, suscitando scandalo, riprovazione, perplessità, accuse e ogni sorta di prese di posizione, non di rado ideologiche e poco informate sui fatti.
Forse allora conviene partire da questi, per tentare di formulare una riflessione a posteriori su quanto è successo, o meglio, su quanto non succederà.
Nell’ultimo Collegio dei Docenti dell’Istituto Maria Gaetana Agnesi, giugno 2004, viene presentato l’intervento di una docente del CISEM che proporrà un progetto da attuarsi nell’anno scolastico 2004-2005, promosso dall’Ufficio Scolastico di Milano (quello che veniva chiamato, pre-riforma, Provveditorato) e con il sostegno della Provincia di Milano.
La collega enuncia i seguenti dati:
– In Via Quaranta, a Milano, in un quartiere a fortissimo tasso di immigrazione, non lontano dalla sede delll’Agnesi, esiste una scuola islamica, non ufficiale e non riconosciuta, frequentata da oltre 400 bambini e ragazzi per i quali i genitori rifiutano l’iscrizione nelle scuole statali o altrimenti parificate, per motivi religiosi e ideologici.
– I bambini e ragazzi di questa scuola, avvalendosi della normativa sulla educazione parentale, hanno più volte cercato di sostenere gli esami di licenza elementare e media nelle scuole statali, con scarsissimi successi, a causa della enorme differenza di contenuti e metodi tra i due sistemi. I ragazzi parlano italiano, molti di loro sono nati in Italia e sono il teatro della contraddizione tra il bisogno di chiusura, di fedeltà alla tradizione e il desiderio di emancipazione culturale e sociale delle famiglie.
– L’Ufficio Scolastico di Milano, in collaborazione con il CISEM e la Provincia di Milano, ha attuato nello scorso anno un progetto di “avvicinamento” a questa realtà e ha ottenuto di poter preparare, attraverso lezioni e sostegno attuati da docenti italiani, un gruppo di ragazzi e ragazze all’esame di licenza media.
– Quegli stessi ragazzi e ragazze (circa 25) vorrebbero ora frequentare una scuola superiore e la relatrice propone all’Agnesi di accogliere questa classe.
– Le uniche richieste poste dalle famiglie sono che gli allievi restino tutti insieme, che maschi e femmine seguano separatamente le lezioni di Educazione Fisica e che non vengano impartiti insegnamenti offensivi del credo religioso. Accettano per contro tutte le altre normali condizioni di vita e attività di una scuola pubblica.
– In mancanza di una accoglienza il progetto cadrà e i ragazzi interromperanno gli studi: non è al momento possibile convincere le famiglie ad attuare una procedura normale di iscrizione alla nostra o altra scuola.
Il Collegio accoglie la richiesta con comprensibile sconcerto e il dibattito che segue è fitto di domande e perplessità: perché proprio noi? perché solo adesso, a scuola finita e con tempi di riflessione inesistenti? non si tratterebbe di una classe-ghetto? non sarebbe una risposta contraria alla tendenza alla integrazione? in che misura sarebbbe toccata la libertà di insegnamento del singolo docente? come reagirebbero gli altri allievi? e i genitori? le ragazze indossano il chador? e se avessimo dei problemi? ed è fattibile dal punto di vista legale e burocratico? Tanto per citarne alcune.
Le risposte appaiono oneste, convincenti pur con i limiti e i margini di incertezza di un esperimento assolutamente nuovo: noi perché siamo la scuola più vicina e perché abbiamo fama di apertura e disponibilità, di voglia di sperimentare, di équipe di lavoro affiatato che propone ed attua infiniti progetti, noi perché altri hanno detto di no; solo adesso, a fine giugno, perché è solo ora che si dà la possibilità concreta di un’aula disponibile. La nostra scuola è strapiena, non ha spazi e la possibilità di un’aula in più nasce dall’accorpamento, in giugno e per l’anno prossimo, di due classi divenute troppo piccole. No, non si vuole creare un ghetto, semmai si vogliono togliere questi ragazzi da un ghetto auto-imposto, il tempo dirà se potremo allargare ulteriormente le maglie. Sull’insegnamento non offensivo del credo religioso non si spendono parole. È ovvio che questo è garantito a tutte le fedi e non-fedi presenti a scuola, altro discorso è quello culturale. Sulla scelta degli argomenti della didattica (potrò mostrare i quadri di Rubens, o leggere una lirica d’amore, e come spiegare la storia, la “nostra” storia) viene fatto appello al nostro buon senso e al mestiere.
In una scuola – come in tutte le scuole – in cui la media degli anni di insegnamento si conta in lustri, il mestiere è forse l’unica risorsa di cui ci sentiamo di abbondare.
Ci viene garantita la presenza quotidiana di un mediatore culturale, almeno nei primi mesi e per i contatti con le famiglie, un possibile finanziamento per il riconoscimento del carico di lavoro aggiuntivo per i docenti coinvolti. Del chador non si parla affatto, le ragazze indossano un fazzoletto e probabilmente pare che questo possa convivere con creste arancioni e verdi, pettinature afro e rasta, code e treccine che girano per la scuola.
Anche la Costituzione e la Carta Internazionale dei Diritti del Fanciullo vengono citate solo per ricordare il diritto allo studio dei minori. E a quello noi pensiamo, è il nostro mestiere pensare prima di tutto ai ragazzi e confidiamo che, se l’iniziativa parte dall’“alto” e ci viene proposta attraverso canali ufficiali, sia dotata dei criteri di fattibilità: i burocrati sono loro.
Il fatto che le famiglie chiedano che i ragazzi siano tutti insieme è la vera difficoltà, quella che, presumiamo, potrebbe far nascere problemi. Il nostro regolamento di istituto prevede che studenti provenienti dalla stessa scuola o quartiere chiedano di essere inseriti nella stessa classe. Se non ci sono altre difficoltà accogliamo questa richiesta, per facilitare l’impatto e l’integrazione nella nuova realtà, ma certo non sono mai stati 25 tutti insieme. Qualcuno parla di ricatto, di uso strumentale delle strutture statali per propri fini non trasparenti, di rifiuto di integrazione. Può darsi, ma noi non ci sentiamo ricattati, il ricatto implica bisogno, perdita, frustrazione, non è il nostro caso, noi pensiamo ai ragazzi – è appunto il nostro mestiere – e a una scommessa difficile ma ricca di potenzialità.
Alla fine si vota, la proposta passa a maggioranza, con molti astenuti. Il passo successivo, due settimane dopo, è il Consiglio di Istituto, con i rappresentanti eletti di genitori, studenti e docenti.
Stessa proposta, stesse perplessità, stessi timori, stessa intenzione comunque di aprire una porta. Si vota e anche qui il progetto passa, a larga maggioranza.
Per quanto riguarda la scuola l’iter è concluso, si aspettano le iscrizioni per istituire la classe che mai viene definita “islamica” ma omogenea.
Qualche giorno dopo i giornali si impadroniscono della “notizia” e il resto è cronaca. Il “caso” assume dimensione nazionale, politici, intellettuali di ogni formazione si sentono in dovere di intervenire, a volte con scarsa conoscenza dei dati e posizioni aprioristiche.
Prevedibile l’atteggiamento delle aree leghiste e della destra, che hanno “strillato” titoli scandalistici, facendo appello a tutto l’armamentario ideologico del caso, sventolando una Costituzione che pare essere un paravento da usare se utile, da fare a pezzi quando serve.
E così la definizione di classe “islamica”, da noi mai usata per il banale motivo che la professione religiosa dei nostri allievi non rientra nella nostra definizione dei medesimi, la bugia sulla richiesta della eliminazione dalla scuola dei simboli religiosi, che per altro non ci sono (sarà che adesso ci verranno imposti?), l’accusa di tentativo di discriminazione. A un certo punto non era chiaro se ad essere discriminati sarebbero stati questi allievi stranieri o gli altri.
Più sostanziali e degne di riflessione invece altre obiezioni, per le quali non esistono risposte preconfezionate ma solo la necessità di riflettere, anche su eventuali errori.
Due aspetti collegati meritano secondo me un esame più attento. L’istituzione della classe omogenea e la relativa creazione del precedente.
Il modello attuato dalla scuola italiana (interpretando la Costituzione all’art. 3, e 8?) è quello della integrazione/mescolanza. Di sessi, di nazionalità, di abilità.
È un modello ampiamente condiviso, di cui chiunque lavori nella scuola conosce pregi e limiti. È per l’appunto un modello, che nasce in un contesto storico-culturale preciso, non eterno (io ricordo benissimo di aver frequentato classi della scuola elementare solo per bambine, con addirittura portoni di entrata separati per i maschietti), non universale (le scuole inglesi propongono classi suddivise per attitudini e prestazioni, negli USA si ridiscute l’opportunità di dividere maschi e femmine a scuola, il sistema tedesco prevede Sonderschulen per i diversamente abili e per ragazzi con problemi di apprendimento – nelle quali molto spesso finiscono i figli degli immigrati).
Un modello quindi – non le Tavole della Legge – che in diversi paesi assume connotati diversi, ma si presume con un unico intento, garantire cioè a tutti le migliori condizioni per lo sviluppo della personalità e delle capacità.
Una classe omogenea non rientra nel modello italiano, e appunto per questo ci è stata proposta come sperimentazione, esperimento, tentativo, compromesso se si vuole, per far fronte in modo particolare a una situazione particolare e del tutto nuova per la nostra realtà.
È vero, costituirebbe un precedente (all’orizzonte minacciose classi di buddisti e testimoni di Geova, di milanisti e vegetariani!!), una novità e un problema con cui non ci siamo mai confrontati e a cui evidentemente non siamo preparati.
È questo che fa paura e alza le barricate? Cosa ha mosso l’indignazione generale, i poveri bambini egiziani ghettizzati, i poveri bambini italiani minacciati dal ghetto, il ricatto alle istituzioni, la semplice paura dell’“invasione”?
In un paese in cui i cittadini stranieri non possono votare per realtà di cui fanno parte integrante, in cui sono varate e applicate leggi liberticide e quelle sì anticostituzionali, vere minacce alla dignità delle istituzioni, sorge il dubbio che la levata di scudi di mass-media e politici sia strumentale ad altri scopi.
Le eccezioni di incostituzionalità, per quanto è stato dato leggere, appaiono vaghe e poco circostanziate (quali articoli, quali interpretazioni?) e conviene lasciare la parola ai giuristi.
Noi come scuola abbiamo tentato di accettare una situazione di compromesso, non ideale, non desiderata, in nessun modo “perfetta”, una via di apertura, di dialogo anche con chi accetta di dialogare molto a malincuore. È stato considerato coram populo un errore, nella forma e nella sostanza. Può darsi.
La scelta dei politici e degli organi competenti, la promessa della istituzione della scuola islamica, va in senso esattamente opposto a questo tentativo ed è esattamente quello di cui non abbiamo bisogno. Sono una insegnante del Liceo Agnesi e assisto con un misto di sconforto e indignazione alla polemica che si è scatenata nelle pagine estive di quasi tutti i giornali sulla formazione della “classe islamica”, alle accuse di discriminazione e di tentativo di emarginazione, di incostituzionalità addirittura, che testimoniano un completo travisamento di quelle che sono le nostre motivazioni e convinzioni più profonde.
Ci siamo spiegati male.
Ho – abbiamo – votato sì al progetto presentato al Collegio Docenti, e al Consiglio di Istituto perché ho – abbiamo – pensato che la proposta, per quanto irta di pericoli, primo tra tutti quello di essere fraintesi e strumentalizzati, di difficoltà operative, di necessità di lavoro e impegno enormi per la scuola, fosse un dovere morale a cui non potevamo sottrarci e una sfida all’oscurantismo al quale nel nostro piccolissimo abbiamo sempre cercato di opporci.
Ho – abbiamo – votato sì prima di tutto perché abbiamo pensato a quelle ragazze, a quei ragazzi quattordicenni schiacciati tra due muri, vittime dell’integralismo e della incomprensione, di famiglie che oscillano tra il desiderio di integrazione e la paura dell’assimilazione, di una società che pare incapace di affrontare la realtà della presenza di “altri” di cui si ha insieme bisogno e paura.
Abbiamo pensato che quei quattordicenni avessero non solo diritto allo studio – sancito dalla Costituzione – ma anche il diritto di andare a scuola, in una classe omogenea è vero (inaccettabile la definizione di ghetto) ma con gli stessi programmi, attività e docenti di tutti gli altri, immersa in un istituto di oltre 1300 studenti, con spazi e momenti comuni in cui da anni convivono tranquillamente allievi di molti paesi diversi.
Abbiamo avuto fiducia che il tempo giocasse a favore, nella possibilità che tra giovani si aprissero canali di comunicazione, di integrazione impensati.
Ho – abbiamo – votato sì ad un compromesso. Ci sarebbe piaciuto accogliere tutte quelle ragazze e ragazzi nelle nostre classi come sempre. Ci è stato spiegato dagli stessi canali ufficiali che ci proponevano l’iniziativa, che questa eventualità non era data. L’alternativa per loro, che con fatica avevano sostenuto, dopo la scuola islamica, l’esame di licenza media grazie ad un progetto del Provveditorato e ad un lavoro di molti mesi con insegnanti italiani, sarebbe stata l’interruzione degli studi, peggio ancora la semi-clausura nella comunità o il ritorno ai paesi di origine da nonni e parenti spesso sconosciuti. Molti di questi ragazzi sono nati in Italia.
Ho – abbiamo – votato sì perché abbiamo interpretato questa disponibilità della comunità di Via Quaranta come un grosso passo avanti, probabilmente molto sofferto, che meritava un nostro passo indietro, in quello che potrebbe diventare una metà strada. Per aprire, uso le parole del nostro preside, una crepa sul muro.
Ho – abbiamo – votato sì sapendo che la nostra decisione non sarebbe passata inosservata, perché pensavamo di avere dei validi alleati, quegli stessi che avevano proposto e fortemente caldeggiato l’iniziativa e promesso di accompagnarci nelle inevitabili difficoltà, primi tra tutti il Provveditorato di Milano, nostro referente istituzionale più immediato, e la stessa Provincia di Milano.
Pensavamo di avere dalla nostra anche la Costituzione.
Sono ancora convinta di aver fatto la cosa giusta, di aver votato, e non certo a cuor leggero, una scommessa difficile a fronte di una realtà ancora più difficile e fino all’altro ieri disinvoltamente ignorata da tutti.
La classe-ghetto non si farà, la Costituzione sarà salva, gli animi placati.
Mi chiedo dove andranno a scuola Jasmina e Mohamed in attesa che sia fondata per loro la scuola islamica. Che certamente non sarà un ghetto.
Anna Leoni
Questa lettera è apparsa sulla pagina milanese del manifesto, 25 luglio 2004