Lia Cigarini
Per rispondere alla domanda che in questo numero pone la redazione di “Via Dogana” – vale a dire se è pensabile e praticabile un senso libero della differenza femminile senza passare per l’emancipazione – mi piace partire dal pensiero e dallo sviluppo linguistico dell’arte di Shirin Neshat.
Shirin Neshat è una grande artista iraniana, già presentata con sapienza alla lettrici di “Via Dogana” , n. 49/2000 da Valentina Berardinone.
Ed è una pensatrice della differenza. Si può dire che attraverso le fotografie i video e i films ha narrato essenzialmente la relazione tra donne e uomini nella sua terra, l’Iran islamico.
La colloco là dove sta Virginia Woolf che con le parole ha saputo creare sia romanzi che saggi di riflessione sulla differenza femminile e di critica del simbolico maschile.
E’ sicuramente il linguaggio artistico che permette a Shirin, che pure negli stati Uniti ha studiato e vissuto l’emancipazione, di far parlare le sue origini spirituali e formali (l’Iran e l’Islam), il corpo femminile nella sua separatezza da quello maschile, la parola scritta delle poete iraniane e quella cantata dalle musiciste. Infatti come sottolinea Valentina Berardinone nella serie fotografica, Woman of Allah, Shirin ritrae se stessa con il chador e le parti del corpo che restano visibili ricoperte da una scrittura di versi delle poete persiane; e nel video e nei films uomini e donne cantano in modo differente, fanno cose differenti e si collocano in spazi fisici e simbolici differenti.
Tuttavia, quando ad un incontro alla Triennale di Milano e in un’intervista (“Flash Art” febbraio 2000) Shirin Neshat ha concettualizzato i significati della sua arte ha preso una netta posizione politica in merito alla differenza femminile all’Iran islamico, ho pensato subito che chi parla va conosceva la contraddizione tra libertà e emancipazione. La proposta di “Via Dogana” è dunque attuale e urgente per rinnovare una riflessione sul rapporto tra libertà e liberazione (delle donne) che all’origine del femminismo era stata dirompente da farci dire che la politica dell’emancipazione era un ostacolo alla libertà femminile.
Riporto qui per intero la risposta che Shirin dà a una domanda sulla libertà negata delle donne in Iran, perché chiarissima e utile per la discussione: “Le donne islamiche sono un mistero per l’Occidente. Non sono per nulla rispondenti all’immagine proiettata all’esterno che le vuole immobili passive; le donne dell’Islam hanno un’incredibile capacità di resistenza. Ma è profondamente sbagliato cercare di giudicare il rapporto uomo-donna nell’Islam con i criteri occidentali: le donne mussulmane non vogliono competere con gli uomini, anche se vogliono avere una loro voce nella società. Questa mancanza di competizione tra i sessi in Occidente viene percepita come ignoranza o stupidità, e questo è un giudizio che mi fa infuriare. In Iran il 63% degli studenti universitari è donna. In un mondo che le opprime e che nega loro molti beni materiali le donne iraniane hanno trovato sollievo nella cultura nel pensiero e hanno sviluppato idee. Ora che c’è un cambio di poteri le donne iraniane stanno occupando uno spazio consistente nel mondo artistico, in letteratura e nel cinema e il loro ruolo politico è fondamentale. Un film proiettato in un minuscolo villaggio delle montagne può aprire gli occhi molto più di un comizio. Credo che le donne creino una rete, un movimento (da “Flash Art”)
Mi è subito tornato in mente la mia esperienza personale e quella di altre donne, donne secolarizzate che avevano una prospettiva professionale, non convinte però che la strada dell’emancipazione fosse da percorrere fino in fondo. Pensavamo che le conquiste di parità con gli uomini, da imitare e raggiungere, tendessero a cancellare la differenza femminile. Da qui è venuta la presa di coscienza femminista, che ha interessato le nostre vite ed è stata significata in vari modi. Alcune per anni non hanno fatto mostre, altre hanno lasciato la propria professione, alcune filosofe sono rimaste deliberatamente ai primi gradini della carriera universitaria e altre si sono impegnate al minimo nella professione.
Tutto ciò non per coerenza ma perché la passione e il desiderio erano spostati dove c’era più libertà e agio; grazie alla presa di distanza dalla competizione con gli uomini. Insomma, esserci per sé e non per confermare gli uomini della loro universalità.
Nel corso degli anni questa rottura con la lotta politica dell’emancipazione è stata criticata e misconosciuta dalla maggioranza delle donne politiche, impegnate nei partiti, nei gruppi e nei sindacati e da molte intellettuali. Queste donne politiche apparentemente assennate proponevano una sorta di gradualismo ( anche le più rivoluzionarie pensano che per le donne, poverette, vada bene di tutto) nella lotta delle donne: prima l’emancipazione e il potere per tutte, poi, semmai agiamo la differenza.
Non si sono mai convinte che la politica che proponevano sbriciolava letteralmente il senso libero della differenza. Ed era una vera e propria dichiarazione di non libertà, di sottomissione all’ordine simbolico del padre.
Tuttavia l’emancipazione è nella nostra esperienza di vita, di studio e di lavoro e ci muoviamo in un contesto dove non c’è discriminazione giuridica, a differenza dell’Iran di Shirin. Per cui in noi c’è una tensione tra libertà ed emancipazione (la famosa e spinosa questione della indipendenza economica comunque da acquisire). Io so di aver guadagnato qualcosa che è molto più prezioso dell’indipendenza economica che mio padre voleva per me insieme alla mia realizzazione nella vita e nell apolitica dei comunisti che a lui stava a cuore.
L’ho assecondato negli anni della giovinezza ricacciando indietro l’ansia e il disagio.
Chiamo genealogia femminile il guadagno di un senso libero della differenza femminile. Però so anche che il senso comune ancora legge questo guadagno di libertà come qualcosa di ottenuto in virtù dell’emancipazione concessa alle donne nei paesi più sviluppati dell’occidente.
Mi chiedo tuttavia se a livello inconscio questa parte del padre continui ad agire.
Sarei arrivata alla conclusione che è ineliminabile dalla mia esperienza : il problema è non scinderla da me al fine di rendere pura l’idea di libertà femminile, ma elaborarla a livello più profondo.
La tensione conflittuale tra libertà e emancipazione dunque permane nell’esperienza delle donne occidentali.
Le donne si muovono nella società (nel mondo) con un forte senso di sé che si esprime come voglia d’indipendenza economica e di autorealizzazione in quello che fanno. Tuttavia in questo forte senso di sé io non riconosco la volontà di ingaggiare una competizione con gli uomini. (La competizione sarebbe la leva determinante della lotta di parità perché è il cuore del modo di relazionarsi tra uomini in questa civiltà).
Le donne, infatti, quando vengono interrogate (inchieste, interviste o scambi verbali),non parlano più di obbiettivi emancipatori: tendono a descrivere la loro vita così come è cambiata. Sembra a me l’inizio di una autocoscienza, dove la voglia di competizione con gli uomini non appare affatto nei loro desideri. Nell’arte e soprattutto nella letteratura, poi, il tema è completamente assente. Si preferisce stare in bilico tra il non detto e l’inizio di una messa in parola di qualcosa che non può essere denominato come emancipazione. D’altra parte le donne “assennate” e “realistiche” di cui parlavo prima, non hanno ottenuto alcun potere e appaiono sempre meno visibili. Ciò significa che fra il comune delle donne non c’era alcuna spinta reale ad occupare la metà dei posti di potere maschile, ma soprattutto che c’è il rifiuto ad essere rappresentate come quelle che vogliono contendere agli uomini i posti di comando. Che cosa, infatti, significherebbe questo se non la falsa, distorta e improbabile fine dell’esperienza e della vicenda millenaria delle donne e dell’altrettanto millenario conflitto tra i sessi. Ci sono desideri singoli di alcune di concorrere per il potere. Ma questa è un’altra storia. Io sento l’urgenza di nominare o rinominare la realtà che cambia a partire dal punto proposto alla discussione da Shirin Neshat: la non competizione con gli uomini come discriminante per l’affermarsi di un senso libero della differenza sessuale.
Alcune, ed io sono fra queste, tentano di percorrere la strada della relazione di differenza con gli uomini, che è fatta di scambio, conflitto, circolazione di sapere tra i sessi. Non abbiamo ancora un’impostazione precisa perché la discussione è all’inizio e ci sono delle resistenze ad affrontarla.
Tuttavia, se quello che ho detto del desiderio femminile è vero (attendo però le obiezioni delle sostenitrici della inevitabilità della competizione), cioè che non si vuole ripetere un modo di relazionarsi pensato per una società di soli uomini, e che si vuole, piuttosto, mettere in gioco un altro modo di relazionarsi dove possono circolare piacere emozioni sapere, quale altra strada è possibile per il cambio di civiltà di cui “Via Dogana” parla?