COLF
E PADRONA DI CASA: LÌ C'È MOLTA POLITICA
di
Marina Terragni
Spiace per
Barbara Ehrenreich, ma l'idea che le donne occidentali si emancipino sulla
pelle delle straniere che vengono qui a farsi carico della nostra quota
di lavoro di cura, sensazionalismo sociologico-giornalistico che ha fatto
il successo del suo libro ( Donne globali. Tate, colf e badanti ,
a cura di Barbara Ehrenreich e Arlie Russell Hochschild, Feltrinelli 2004),
non è per niente nuova.
Assisi, 1979,
Congresso nazionale delle Acli Colf, intervento della segretaria nazionale
Clorinda Turri: “...la giusta istanza di liberazione della donna va suscitando
una nuova contraddizione perché il lavoro domestico, ulteriormente
imponente e dequalificato, viene scaricato su altre donne che si trovano
relegate così al ruolo di casalinghe di riserva”. Intuizione feconda,
allora, perché apriva la contraddizione e produceva pensiero. Ma
reiterata oggi come fa Ehrenreich, e mutatis mutandis (viste la capillarizzazione
del ricorso all'aiuto domestico e la massiccia “stranierizzazione” del
fenomeno), la ipostatizza e la chiude, offrendo come unica prospettiva
la sterilità di un cronico sentimento di colpa. Ho preso parte
alla puntata del Primo maggio dell'Infedele, che con molto buon senso
giornalistico e politico Gad Lerner ha voluto dedicare alle lavoratrici
domestiche. La trasmissione è stata oggetto di discussione, anche
in Libreria, con alcune acquisizioni che sento importanti, in particolare
sulla centralità della relazione nello scambio economico tra la
datrice di lavoro e la colf, e sull'immediata politicità di questa
relazione. Relazione di cui ho parlato in trasmissione e che temo sia
stata romanticamente intesa, data anche la contrazione dei tempi e del
linguaggio televisivo, come “trattar bene”, “buon cuore”, “solidarietà”,
svuotati di ogni senso politico. O, peggio, vista da un punto di sindacale-sindacale,
lì rappresentato da Susanna Camusso, relazione come peloso surrogato
di diritti, equità, giusta retribuzione, contributi, bollini e
quant'altro.
In ogni discorso
sul lavoro, c'è sempre questa preoccupazione di far fuori la relazione,
di fare questo fondamentale distinguo. Quando si dice responsabilmente
“è lavoro”, si vuol dire non è piacere, non è passione,
non è amore, non è legame, è un esserci condizionato,
messo alla briglia dei doveri e dei diritti. In questo rapporto di lavoro,
invece, tra “datrice” e colf, il distinguo non riesce. Proprio perché
amore, legame, cura sono la materia viva di cui si tratta e su cui si
scambia, e la forma simbolica del denaro - che c'è e ci deve essere
con tutto il corollario dei diritti - non basta a raffigurare e a contenere
la magmatica materia della vita con cui si ha a che fare, che straborda
e chiede di essere detta e rappresentata nella parola “relazione”, intesa
come un rilegarsi continuo l'una all'altra, che non esclude affatto il
conflitto, nella negoziazione quotidiana su cose vive. Sulla necessità
di amare i vecchi e i bambini, ma anche gli adulti che vanno nutriti,
puliti e accuditi come si deve, e la casa che deve essere accogliente
e trasudare amore. Quindi questo rapporto di lavoro è interessantissimo
e paradigmatico perché “stressa” un argomento decisivo nella politica
delle donne, e cioè la centralità della relazione nel lavoro,
e in tutti i lavori. Quello che succede qui è importante per tutti
i lavori.
La negoziazione
di cui dicevo prima fa anche saltare l'idea della contrapposizione tra
l'emancipata pura, da un lato, che si libera di tutte le incombenze di
cura per infilarsi un paio di stivaletti e andare ai cocktail party, e
l'oppressa pura dall'altra, che resta a casa a cambiare pannolini. Non
ci sono assoluti, c'è una gradualità e talora perfino un
contendersi certe incombenze ritenute particolarmente gratificanti. Nessuna
“si libera” mai del tutto della sua quota di lavoro di cura, ammesso e
non concesso che il problema sia quello di liberarsene, perché
invece vediamo qui da noi un reale attaccamento delle donne alla cura,
una difficoltà a staccarsene del tutto. Penso alla mia collaboratrice
domestica, una giovane ecuadoriana molto solare, che mi vede scrivere
e scrivere e leggere e qualche volta mi dice, con molta compassione: “Vieni
qui a fare una torta”, ed è molto protettiva nei miei confronti
quando i rapporti con i numerosi maschi di casa si fanno difficili. Secondo
la pedagogista Claudia Alemani, “il rapporto tra le donne e la propria
casa chiama comunque in causa il fantasma materno. Lo evoca il desiderio
di essere accudite, di trovare nella persona che entra in casa attenzione
e disponibilità per sé”. Qualcuna, al dibattito in Libreria,
ha nominato la miseria di noialtre, che nella visione di Ehrenreich è
magicamente tolta e attribuita in toto alla nostra “controfigura” del
Terzo mondo. E invece, se miseria c'è, se ricchezza c'è,
c'è in noi e in loro, che sono povere e anche ricche del denaro
che noi gli diamo e dell'occasione di emancipazione che noi rappresentiamo,
offrendo loro i nostri modelli di libertà spesso in cambio dei
loro, che pure esistono - quante volte ci siamo dette che la libertà
femminile esiste prima di ogni emancipazione? - e si mostrano nella convivenza
quotidiana. Sono “donne partite a far le serve per non essere più
serve”. Nella trasmissione di Lerner si è particolarmente e forse
un po' retoricamente insistito sulla sofferenza, quando poi guardandosi
intorno non si vedevano che visi sorridenti, e le storie che venivano
raccontate non parlavano di sofferenza ma di un andare avanti e di un
darsi una mano le une con le altre. In particolare si è sottolineata
la dolorosità del distacco dai figli, che restano affidati ad altre
donne nei paesi d'origine. Bisogna pur nominare, con tutte le difficoltà
che ci fa dirlo, che talora il guadagno di libertà per queste donne,
l'inaudita possibilità di amare se stesse che incontrano lasciando
le loro case e venendo sole qui da noi, possono essere superiori al dolore
di quel distacco e temperano molto il rimpianto. È col fantasma
del nostro possibile disamore materno che non sappiamo più fare
i conti, un tempo li abbiamo pur fatti e bisogna non dimenticarsene, non
è strano che queste donne ci facciano i conti oggi. Trovo in un
bel numero di Polis (Il Mulino) dedicato al lavoro domestico,
le parole di Alma, cameriera italiana negli anni Sessanta: “A me essere
andata a servizio è servito tantissimo, ho imparato un sacco di
cose che forse a casa mia non avrei imparato”. E Silvana: “Il fatto di
lavorare a servizio ti aiutava a emanciparti... quasi una cultura, un'autonomia”.
Tornando
alla non distinguibilità tra lavoro e relazione all'interno del
lavoro domestico, la cosa è resa più vera dal fatto che
oggi anche i ceti medi ricorrono all'aiuto domestico, e questa è
una novità assoluta. Le case dei ricchi disponevano di stanze per
la servitù, o almeno di uno stanzino con una branda accanto alla
cucina, luogo della materia. Gli spazi erano ben divisi, i rigidi codici
di comportamento reciproco segnalavano con molta chiarezza la necessità
di difendersi dalla confusione, soprattutto confusione di corpi, dalla
promiscuità, dalla relazione. Non c'erano rapporti, per esempio,
tra il padrone di casa e la servitù, se non mediati dalla moglie,
a segnalare la distanza gerarchica dalla materia (salvo sporadici avvicinamenti
alla materia sessualmente appetibile di una giovane serva). Le case di
chi oggi ricorre a una colf consentono a malapena la privacy. Il “tu”
è la regola. Le datrici di lavoro confessano la loro difficoltà
a pensare la relazione in termini “capitalistici” e di mercato. Sempre
da Polis : “Non si può avere come collaboratrice una persona
che ti viva come controparte”. “Io non riesco ad avere questi rapporti
così manageriali, come una ditta. Una ditta ha delle regole. In
casa è un'altra cosa. Ci sono pregi e difetti. Il pregio è
la relazione. Il difetto è che bisogna accontentarsi”. Tanto che
molte chiudono un occhio di fronte al fatto che le cose non siano fatte
a puntino, se la relazione è soddisfacente. E il licenziamento
o l'abbandono sono spesso vissuti e descritti come la fine di un rapporto
d'amore.
Una ditta
ha delle regole. In casa è un'altra cosa. E non è, quest'altra
cosa, esattamente ciò che noi speriamo di poter portare nelle “ditte”?
Non c'è qui un modello formidabile per sperimentare questa connessione
relazione-lavoro?
La relazione
è resa meno problematica anche dal fatto - e qui è l'altro
grande cambiamento - che molte di queste donne che ci aiutano in casa
hanno una scolarità medio-alta, il divario culturale si è
ridotto, cosa che rende lo scambio più agevole e paritario. Ma
la nuova dialettica “serva-padrona” può essere modello per ben
altro, e qui viene più chiara l'immediata politicità di
questa relazione. All'interno di questo crogiolo, di questi milioni di
crogioli, nella paziente e microfisica pratica di mediazione quotidiana,
si configura una straordinaria soluzione politica per la questione dell'integrazione
dei popoli migranti nel nostro paese, e questa soluzione è in mano
a noi donne, a noi e a loro. È qui e non altrove, nell'astrattezza
di leggi ideologiche che perfino i giudici si rifiutano di applicare,
nell'illusione di un governo dei flussi che qualsiasi carretta del mare
manda gambe all'aria, che le soluzioni si trovano e anzi immediatamente
si praticano, e sono spesso soluzioni abbastanza felici.
Per noi donne
in questa relazione c'è anche un'altra politicità davvero
stimolante, che sta nella sorpresa di vedere come nel percorso di queste
donne che vengono dai paesi poveri emancipazione e pratica della cura
si intreccino strettamente, mentre per noi è stato il contrario,
emanciparci è stato liberarci quanto più possibile dalle
incombenze domestiche e di cura, e anche con sofferenza, come tante volte
abbiamo detto, perché per tante è stato uno strappo quasi
obbligato, che non è venuto dal cuore. Ecco, qui può esserci
un'ipotesi di soluzione anche per questo, può venirne qualcosa
di buono anche per noi, ci può indurre a riflettere su che cos'è
questo attaccamento alla cura che continua a definirci, e come tenerlo
insieme ai nostri progetti di libertà. A questa relazione tra datrici
di lavoro e colf e a come evolverà nel tempo bisogna attentamente
guardare, perché lì si sperimenta molto. Lì c'è
molta politica.
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