Da
Via Dogana n. 30 - marzo 1997
La
femminilizzazione del lavoro
di
Maria Marangelli
Faccio sindacato
da anni e verifico intorno a me una povertà di analisi e di pratiche.
A giudizio mio e di tanti altri queste pratiche e queste analisi non sanno
star dietro alla realtà che cambia. Infatti, nel sindacato, e per
di più in ritardo, del cambiamento si coglie solo quello originato
dalle riorganizzazioni delle imprese e dalla competizione capitalistica
a livello mondiale. Non si colgono i mutamenti nel rapporto con il lavoro,
vale a dire la ricerca di senso delle donne e degli uomini nel lavoro.
Di questo secondo mutamento si parla come di una realtà soggettiva,
ma è giusto? Allora noi proponiamo che tutto il lavoro -sia considerato
soggettivo o come causa o come effetto del cambiamento.
Se non si considera quest'aspetto dei senso del lavoro, cioè la
realtà umana implicata nel lavoro, se non la si considera con la
necessaria attenzione, il lavoro diventa un'entità astratta.
Questo vizio della politica del lavoro l'ho visto e l'ho misurato quando
ho incominciato una pratica politica capace di tenere conto della soggettività,
che è la pratica della differenza femminile. Intorno al desiderio
di ripensare il lavoro, alla luce di questa pratica, si sono aggregate
donne che fanno sindacato e che non lo fanno, che hanno un lavoro dipendente
oppure autonomo, impegnate in lavori tradizionali oppure nuovi. Noi non
vediamo la separazione e tanto meno la contrapposizione tra lavoro autonomo
e lavoro dipendente. Più che misurare il prevalere del lavoro autonomo
sul lavoro dipendente, ci interessa conoscere e far parlare l'esperienza
di lavoro nelle diverse situazioni.
Per questa strada noi vogliamo far venir fuori il significato del lavoro
per chi lavora e far venir fuori da qui che cos'è il lavoro, prima
che si sovrappongano le definizioni di economisti, giuristi, sindacalisti
ecc., la cui intelligenza teorica e pratica è preziosa se viene
seconda rispetto alla ricerca di significato che noi proponiamo.
Negli ultimi anni a Milano e in Lombardia, più donne che uomini
entrano nel mercato del lavoro, sia in quello del lavoro dipendente che
in quello autonomo. Per questo parliamo di femminilizzazione del lavoro
e la consideriamo una delle più grandi trasformazioni di questi
tempi.
Non si ha una idea giusta della femminilizzazione del lavoro se non si
considera il fatto che c'è un desiderio femminile di studiare e
lavorare non solo per necessità economica né per essere
come gli uomini, ma per un autonomo desiderio femminile di una presa sul
mondo.
La femminilizzazione del lavoro, a nostro parere, non è prodotta
dal mercato ma viene da un'autonoma volontà femminile che ha saputo
sfruttare le modificazioni del lavoro in corso. Insomma, non può
essere letta solo come un fenomeno di ingresso di una grande quantità
di donne nel mercato. Di fatto è una modificazione qualitativa
perché le donne portano nel lavoro attese e investimenti differenti
da quelli maschili.
Una mancanza grave della nostra cultura politica, economica, giuridica
è che non si ascolta la differenza femminile e che, di conseguenza,
neanche si capisce tutto quello che hanno di particolare maschile le teorie
politiche, economiche, giuridiche. Se non c'è un ascolto preciso
in proposito, sia chiaro, questa difficoltà si pone anche a una
donna.
Allora, la nostra esperienza ci dice che le donne non si consegnano interamente
alla misura del denaro, né a quella della carriera ma portano al
mercato tutto, cioè anche la qualità delle relazioni sul
posto di lavoro, la risposta degli altri e delle altre alla propria presenza,
i risultati qualitativi del proprio lavoro. E la compatibilità
dell'impegno di lavoro con le esigenze affettive e familiari. (Non a caso
il movimento delle donne si è data la pratica politica del partire
da sé e della relazione.) Appare evidente, quindi, che la misura
quantitativa tempo-salario è insufficiente così come ogni
obiettivo unificante, come ad esempio quello della riduzione generalizzata
dell'orario di lavoro che mette in ombra le differenze qualitative.
Oltre la nostra esperienza abbiamo raccolto notizie e dati dal mondo del
lavoro, dove risulta in particolare che le donne si collocano di preferenza
in luoghi di ricerca, progettazione (anche per la più alta scolarizzazione
femminile) piuttosto che di organizzazione e vendite, sebbene i primi
siano meno retribuiti dei secondi e meno aperti a ulteriori sviluppi di
carriere. Si apre una nuova divisione sessuata del lavoro (che a noi non
dispiace), per cui le donne si trovano nei luoghi di maggior sapere e
di minor potere.
Da questi comportamenti femminili e da questi atteggiamenti così
frequenti nelle donne deriva una superiore capacità di vivere e
di concepire il lavoro, più semplice, più relazionale, più
rivolto all'essenziale, meno gerarchico.
Se tutto questo resta una caratteristica diffusa ma inespressa, se non
diventa base per la teoria del lavoro, capita lo "scippo" del
di più femminile da parte del capitale. Oggi si parla infatti,
da parte di analisti ed esperti di organizzazione, della necessità
di sviluppare "le competenze relazionali, la qualità del lavoro
e del rapporto con l'altro (il cliente e il fornitore), la comunicazione,
i processi integrati ecc.". Su questo terreno, essendo no decise
a contrastare l'operazione del capitale, che è fonte di sofferenza
e laceranti contraddizioni per le donne, ci troviamo anche in conflitto
frontale con quegli e quelle interpreti del lavoro femminile che leggono
la differenza portata dalle donne in termini deteriori come arrendevolezza,
servilismo eccesso di flessibilità. In realtà, queste persone
hanno uno schema mentale, e di conseguenza un agire politico ricalcati
su modelli maschili. Non s tratta di sostituire il modo femminile al modello
maschile, bensì di mettere fine a questa parzialità maschile
che è causa di errori teorici e politici L'accusa che certi sindacalisti
fanno alle donne di essere poco conflittuali sul lavoro, in realtà
è una accusa fatta alle donne stesse di non volersi spogliare della
loro differenza per piegarsi ai tradizionali schemi di lotta e di organizzazione,
pensati da uomini per gli uomini.
Non c'è infatti solo il conflitto capitale/lavoro, c'è anche
il conflitto fra i sessi. Questo conflitto è presente, come ho
detto prima, non solo nel modo di concepire il lavoro, ma anche nel modo
di confliggere e lottare: le tradizionali organizzazioni sindacali e politiche
che i lavoratori si sono date, non attirano le donne. Infatti, il grande
aumento delle lavoratrici non ha avuto come conseguenza un proporzionale
aumento delle iscrizioni sindacali. Sempre colpa delle donne? Questo non
è un ragionare politico.
Alcuni, infine, dicono che volendo tener conto della qualità femminile
si sconta il problema che di questa qualità non c'è misura,
per cui sarebbe una cosa inafferrabile. Noi diciamo che se questo di più
femminile viene preso come misura per il lavoro di donne e uomini (c'è
una miseria simbolica nel conflitto capitale/lavoro che umilia anche molti
lavoratori maschi, soprattutto giovani), se dunque la differenza femminile
diventa misura, la posizione del lavoro precede le offensive del capitale
diventando una proposta allettante, significativa, valorizzante per chi
lavora. (Teniamo conto che il contesto della classe operaia e del partito,
è andato perduto.)
Propongo, a chi si occupa di queste cose, di lavorare con la pratica del
partire da sé, cioè a partire dall'esperienza personale
di ciascuno e ciascuna e di privilegiare le contraddizioni vissute in
prima persona, gli scacchi e le esperienze più difficili perché
è in questi vissuti che di solito si nascondono i nodi problematici
più vivi e interessanti. Partire da sé, quindi, per non
proiettare sugli altri paure e convenienze di ragionamento che non si
osa mettere in campo. Chiedo inoltre di rinunciare, per quanto possibile,
al gergo specialistico e di nominare le cose sapendo che vi sono esperienze
di lavoro, come quello delle donne, che non sono mai state nominate e
che nei vecchi nomi vengono deformate o cancellate.
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