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il manifesto - 27 Luglio 2005
Le cose come sono secondo Virginia
F«Il canto del
mondo reale. Virginia Woolf. La vita nella scrittura» di Liliana
Rampello per Il Saggiatore. Un saggio che ne rilegge l'intera opera, dai
romanzi alle opere politiche ai testi autobiografici, nella chiave dell'amore
per la vita che la grande autrice scopre con la scrittura
LUISA MURARO
Farò
le lodi di un libro appena uscito, le lodi e qualche critica, per fare
l'elogio di Virginia Woolf e dell'Italia: con Italia intendo, metonimicamente,
il femminismo italiano che non ha smesso di leggere, amare e commentare
colei che, in Inghilterra, chiamavano la darling, dangerous woman, la
bella, cara e pericolosa Virginia. Il canto del mondo reale s'intitola
l'ultimo libro a lei dedicato, autrice Liliana Rampello, sottotitolo:
Virginia Woolf. La vita nella scrittura (Il Saggiatore, pp. 221, €
16,50). È il libro di una lettrice di Virginia Woolf, ben più
che quello di una letterata (ed è la mia prima lode), pur essendo
questa la formazione professionale di Rampello e pur essendo il suo un
libro informato del molto che è stato scritto sulla Woolf. Non
ho niente contro i letterati, intendiamoci, voglio solo dire che c'è
una differenza. Qual è? Che lei, la lettrice Liliana, conosce la
sua autrice dall'interno, e l'interno è l'esperienza di lettura,
un'esperienza tutta speciale dove realmente chi legge s'incontra con chi
scrive. E da lì ritorna a noi con la voglia di raccontare quello
che le è capitato. Nasce da in simile incontro l'idea che dà
incremento all'intero libro della Rampello, quella di un amore della vita
che diventa scrittura vera e «canto del mondo reale», idea
che l'autrice comincia ad esporre come chi racconta un'avventura: «Nell'immagine
di lei che mi è venuta incontro, il nucleo inaggirabile è
il suo amore per la vita ed è questo il filo che ho scelto di seguire
e srotolare...».
In contrasto con questa visione, il pensiero corre ovviamente
alla morte di Virginia, morta suicida nel 1941, all'età di cinquantanove
anni, ma l'autrice scarta la troppo facile obiezione con gesto lieve che
convince. Sempre per fedeltà all'immagine di una Virginia amante
della vita, non esita a scostarsi dalla pur ammirata Nadia Fusini, grande
traduttrice di romanzi woolfiani, quando questa rintraccia nella Woolf
una moderna «scienza del lutto». Questo secondo contrasto
mi sembra più problematico. Si tratta di due esperienze di lettura
tra loro differenti e incomparabili, certo. Ma potevano essere meno distanti,
io penso, movendo a Liliana la mia critica principale o unica. Penso,
precisamente, al suo giustamente lungo commento di una magnifica pagina
della Signora Dalloway, quando, nel bel mezzo di una festa s'insinua la
notizia del suicidio di Septimus. Non è un personaggio qualsiasi,
Septimus, ma il protagonista del controcanto che accompagna la giornata
della protagonista, tutta dedita, quest'ultima, alla preparazione della
festa che avrà luogo la sera. L'uomo, reduce della prima guerra
mondiale e malato di mente, si è buttato dalla finestra del suo
appartamento per sfuggire al manicomio cui lo destinavano la sua povertà
e il verdetto di un illustre clinico, amico della famiglia Dalloway. La
morte che viene per rovinare la festa ma non ci riesce, nella lettura
di Liliana sarebbe la morte «accolta come una diversa forma che
la vita prende nella nostra mente e che si tinge ancora dell'amore stesso
che abbiamo per la vita». Lei dà questo credito al personaggio
della signora Dalloway, io no, a me pare cioè che la Woolf, in
quel punto del romanzo, si distacchi dalla sua eroina e la guardi in silenzio,
sguardo silenzioso che ce la rende meno esemplare e più vera. E
che arriva fino a noi. C'è anche quest'aspetto nella attualità
di Virginia Woolf, io ritengo simpatizzando qui con la posizione di Nadia
Fusini, consapevole tuttavia che la discussione dovrebbe approfondirsi
e non so con quale esito.
Dobbiamo riconoscere, comunque, il coraggio di Liliana
Rampello che, per restituirci Virginia Woolf, intona - oggi - il canto
dell'amore della vita, riconoscerlo insieme all'intento che la anima.
Quello che lei vuole, esattamente come tutte e tutti quelli che escono
da una grande esperienza di lettura, è restituirci l'interezza
dell'opera di Virginia Woolf, i romanzi insieme ai saggi politici e alla
vasta scrittura autobiografica, restituircela non attraverso una esposizione
più o meno dettagliata ma facendo rivivere l'ispirazione profonda
di tanta opera. Sappiamo quanto i «letterati» di ogni tempo
abbiano in sospetto una simile pretesa e come si diano da fare per farla
sembrare mera presunzione, ma sappiamo anche (io lo so grazie al lavoro
erudito dei «letterati»... paradosso istruttivo) che senza
questa presunzione, chiamiamola pure così, non c'è cultura
che possa vivere e rinnovarsi. E viceversa, nel senso che c'è una
cultura, quella del movimento politico delle donne, che autorizza libri
come questo, l'autrice non ne fa mistero, libri affettuosi e amorosi messi
al mondo direttamente in un campo di battaglia.
L'ispirazione profonda della scrittura woolfiana, come
viene fuori dalle pagine di questo libro, è nel circolo virtuoso
fra amare la vita e dire «le cose come sono», che lei, Virginia,
crea o scopre con la scrittura. Lo conferma lei stessa, del resto, commentando
quelli che chiama i suoi «momenti di essere», e parla di una
sua filosofia o idea (idea di un ordine simbolico?) che ha sempre avuto,
ossia che dietro l'opacità della vita quotidiana ci sia un disegno
affiorante a sprazzi con il lavoro della scrittura, e che il mondo intero
sia un'opera d'arte di cui noi siamo parte, alla stregua di segni viventi.
Il passaggio cruciale è costituito dai due saggi
politici della Woolf, Un stanza tutta per sé e Tre ghinee, riuniti
in questo libro sotto un unico, significativo titolo, «Dire la verità».
In che cosa consiste la capacità che hanno questi due testi, a
suo tempo accolti con imbarazzo dagli ammiratori della Woolf romanziera,
specialmente il secondo, oggi stampati e ristampati per un pubblico fedelissimo
e quasi esclusivamente femminile, di inanellare fra loro vita e scrittura?
Per rispondere con una parola piuttosto rustica, diciamo che la loro capacità
è nella loro esplicitezza. Esplicitare è una mossa sempre
variamente rischiosa, rischiosissima nel caso della Woolf, il quid da
esplicitare essendo le emozioni «abbiette» (per citare Judith
Butler) di una esperienza femminile tacitata non da qualche autorità
poliziesca ma dall'implacabile legge del ridicolo. Virginia Woolf ha saputo
sfidarla con arte magistrale, non inferiore a quella dei suoi migliori
romanzi, e con risultati geniali per la politica e per la filosofia. Questo
è il mio elogio, annunciato all'inizio, ed è anche la ragione
della riconoscenza senza fine («la ringrazierò per sempre»)
con cui Liliana Rampello conclude il suo libro.
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