Le
Monde diplomatique - il manifesto ottobre 2004
Le
organizzazioni umanitarie e i pericoli della dipendenza
di ARUNDHATI ROY
LA GLOBALIZZAZIONE economica ha accresciuto la
distanza tra chi prende le decisioni e chi ne subisce gli effetti (1).
Sono gli incontri quali il Forum sociale mondiale a consentire ai movimenti
di resistenza locali di ridurre questo divario e di fare causa comune
con i loro omologhi dei paesi ricchi.Ad esempio, all’epoca della
costruzione della prima diga privata a Maheshawar, l’impegno congiunto
del Narmada Bachao Andolan (Nba),dell’organizzazione tedesca Urgewald,
della Dichiarazione di Berna (Svizzera) e della Rete internazionale dei
fiumi di Berkeley ha indotto varie banche e imprese internazionali a dissociarsi
dal progetto. Questo risultato non sarebbe mai stato raggiunto senza una
tenace resistenza locale; ma altrettanto indispensabile è stato
il sostegno a questo movimento sulla scena mondiale, che ne ha amplificato
la voce mettendo in imbarazzo gli investitori e costringendoli a ritirarsi.
(...)
Uno dei rischi per i movimenti di massa è quello dell’«ong-izzazione»
della resistenza. Non vorrei essere fraintesa: non si tratta certo di
mettere sotto accusa in blocco le organizzazioni non governative (Ong),
molte quali svolgono un lavoro di indubbia validità. Ma altre sono
fittizie, e in quelle acque torbide c’è chi cerca di mettere
le mani sui fondi degli aiuti o di frodare il fisco.Vale comunque la pena
di esaminare questo fenomeno in un contestopolitico più ampio.
In India ad esempio, il boom delle Ong sovvenzionate,esploso alla fine
degli anni 1980 per protrarsi nel decennio successivo, ha coinciso con
l’apertura dei mercati indiani al neoliberismo.Per conformarsi alle
esigenze dell’aggiustamento strutturale lo stato tagliò i
finanziamenti che sostenevano lo sviluppo rurale, l’agricoltura,
i settori dell’energia e dei trasporti e la salute pubblica. Fu
in seguito a questo ritiro dello stato dal suo ruolo tradizionale che
le Ong incominciarono a intervenire in questi ambiti. La differenza era
ovviamente che i fondi a loro disposizione corrispondevano a una minuscola
frazione dei tagli inflitti alla spesa pubblica. La maggior parte delle
Ong sono
finanziate e patrocinate dagli organismi di aiuto allo sviluppo, le quali
a loro volta ricevono i fondi dai governi
occidentali, dalla Banca mondiale, dalle Nazioni unite e da alcune multinazionali.Anche
se non si può fare di ogni erba un fascio, tutti questi organismi
fanno indubbiamente parte di uno stesso contesto politico, dai contorni
indefiniti, che presiede al progetto neoliberista e impone per prima cosa
drastici tagli alla spesa pubblica.
Cos’è che induce questi organismi a finanziare le Ong? È
possibile che siano mossi solo da zelo missionario vecchia maniera? O
magari da sensi di colpa? Qualche altro motivo indubbiamente c’è.
Le Ong danno l’impressione di colmare il vuoto lasciato da uno stato
in via di smantellamento; e in qualche misura lo fanno, ma non certo in
modo
coerente. In realtà servono a disinnescare la protesta politica,
distribuendo col contagocce, sotto forma di aiuti o di azioni di volontariato,
ciò che normalmente dovrebbe spettare per diritto ai cittadini.In
questo modo le Ong influiscono sulla popolazione a livello psicologico,
creando una condizione di vittimismo e di dipendenza e smussando gli angoli
della resistenza politica: in altri termini, fanno da ammortizzatore tra
il sarkar (stato) e la popolazione.O tra l’Impero e i suoi sudditi.
Svolgono un ruolo di arbitri, o anche di interpreti e di intermediari.
I
missionari laici del mondo moderno
ALUNGO TERMINE, le Ong devono rispondere ai donatori, non alla popolazione
per la quale lavorano. Sono ciò che i botanici definiscono una
«specie spia»: si direbbe che la loro crescita sia direttamente
proporzionale alle devastazioni causate dal neoliberismo. Questo fenomeno
emerge in maniera particolarmente drammatica nelle situazioni di guerra:
ad esempio, gli Stati uniti che si preparano a invadere un paese, e sfornano
simultaneamente
le Ong che accorrono sul posto per ripulirlo dalle macerie. Preoccupate
di garantire la continuità dei loro finanziamenti e di evitare
contrasti con i governi dei paesi nei quali operano, le Ong devono presentare
un basso profilo, più o meno neutro rispetto al contesto politico
e storico. Soprattutto quando è scomodo. Le descrizioni apolitiche
(e in quanto tali più chemai di parte) delle aree più povere
e delle zone di guerra finiscono per presentare gli abitanti (neri) di
quei paesi come vittime patologiche.Ancora indiani denutriti, ancora etiopi
affamati, ancora campi profughi, ancora sudanesi mutilati... e tutti bisognosi
dell’aiuto dell’uomo bianco. Così, involontariamente,
le Ong contribuiscono rafforzare gli stereotipi razzisti, riaffermando
le conquiste, i vantaggi e la bontà (severa ma compassionevole)
della civiltà occidentale.Sono i missionari laici del mondo moderno.In
definitiva – su scala minore, ma più insidiosamente
– il capitale con cui vengono finanziate le Ong gioca nelle politiche
alternative un ruolo molto simile a quello dei capitali speculativi che
entrano ed escono dalle economie dei paesi più poveri.Per prima
cosa, questi finanziamenti dettano l’ordine del giorno.Trasformano
il confronto in trattativa, depoliticizzano la resistenza, interferiscono
con i movimenti popolari locali, tradizionalmente indipendenti.Grazie
ai fondi di cui dispongono, le Ong possono ingaggiare collaboratori locali:
persone che altrimenti avrebbero preso parte attiva ai movimenti di resistenza,
mentre così pensano di poter fare del bene in maniera immediata
e creativa (guadagnandosi oltre tutto da vivere). La vera resistenza politica
non offre scorciatoie del genere.
– (1) Estratto da una conferenza tenuta a S. Francisco, California,
il 16 agosto 2004 (tradotto dall’inglese).
(Traduzione di E. H.)
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