il
manifesto - 08 Marzo 2008 SI
puo avere di piu Oltre i limiti della 194 Storia
di una legge e dei suoi compromessi: esperienza, sapere, legami che restano fuori
dal perimetro della norma. Trent’anni dopo, iscrivere nel diritto il rispetto
del desiderio materno comincia dalla nostra vita, dalla nostra immaginazione,
dalla nostra testimonianza
Silvia
Niccolai
Nel
nostro come in altri ordinamenti,la legalizzazione dell’aborto si basa sulla
convinzione che alla legge spetti proteggere la potenzialità di vita del
concepito, considerata indipendente dal desiderio materno. Questa convinzione
produce parecchio disordine. Ricordo il caso,arrivato davanti alla Corte europea
dei diritti dell’uomo, di una immigrata cinese in Francia alla quale,al sesto
mese di gravidanza, un ginecologo del servizio pubblico provocò l’aborto
(l’aveva scambiata per un’altra e pensava di doverle togliere la spirale).
La donna chiese che il medico fosse condannato per omicidio colposo. I giudici
rifletterono:se la legge consente l’aborto, per quanto non al sesto mese
di gravidanza, e posto che la scienza non è ancora in grado di garantire
vita autonoma a un feto di seimesi, come può l’importanza di questo
feto di bambina essere paragonata a quella di persona vivente, soltanto perché
sua madre l’aveva accettata e desiderata? Il medico non venne neppure sospeso
dalla sua professione. Conclusioni di questo genere sono inevitabili quando
si scinde la potenzialità di vita del concepito dall’accettazione
della madre, e dimostrano che, nonostante ogni contraria proclamazione, non c’è
tutela né valore per la vita nascente, se non c’è simpatia
e riconoscimento verso il desiderio materno,e alleanza con esso. Dicono che l’interesse
di chi deve ancora nascere preme quando si rivolge contro una donna, ma conta
ben poco quando a farne le spese sarebbe qualcun altro. E dicono anche un altro
paio di cose, ben chiare: visto che avete voluto l’autorizzazione ad abortire,
donne, ora non potete pretendere che se qualcuno vi fa un aborto per sbaglio la
cosa sia poi tanto grave; al massimo, pigliatevi due lire di risarcimento per
lo stress e in ogni caso ricordatevi, che dire il valore di ciò che una
porta in grembo spetta alla legge o alla scienza. Se la coscienza europea del
secondo millennio non vede la differenza tra desiderare o non desiderare un figlio
e venir fatte abortire per distrazione, allora dobbiamo dirci che legalizzare
l’interruzione della gravidanza non è servito che per continuare a
pensare la gravidanza e l’aborto come qualcosa che le donne devono subire.
Che sarebbe andata così lo sapevano quelle che da noi, negli anni ’70,
non vollero lottare per una legge sull’aborto, per un «diritto» d’aborto,
perché avevano inmente qualcosa di ben più ambizioso (Non vogliamo
più abortire, fu il titolo di un documento del 1975). Quelle donne pensavano
all’aborto attraverso la vita: «La trasmissione della vita, il rispetto
della vita, il senso della vita sono esperienza intensa della donna e valori
che lei rivendica », scrisse Carla Lonzi nel Manifesto di Rivolta Femminista. Queste
donne cui era ben chiaro che sempre, per quanto vietato fosse, le donne hanno
abortito, e spesso sono state costrette ad abortire, vedevano che un divieto
di aborto è un simbolo, che «rientra nel veto globale che viene
fatto all’autonomia della donna», e che da questo punto di vista
una legge che autorizza e disciplina l’aborto e una che lo vieta sono
la stessa cosa. Avevano a cuore la libertà delle donne, e perciò
la trovarono e la mostrarono, dove stava, a disposizione di tutte: non in autorizzazioni
di legge, ma nella voglia di chiedersi: «Per il piacere di chi sono rimasta
incinta? Per il piacere di chi sto abortendo?». Domande che spostano,chemettono
in moto pensieri e azioni nuove, che cambiano ognuna di noi, e cambiano tutto.
Domande che liberano. Non è con l’amore di questo genere di
domande che è stata scritta la legge 194; né essa ha creato per
loro un ambiente favorevole. La legge fa risuonare una grande narrazione: negli
anni Settanta, siccome vigeva ancora una disposizione d’epoca fascista,
che puniva l’aborto come reato, le donne abortivano di nascosto e in condizioni insicure;
la Repubblica, legalizzando l’interruzione di gravidanza in ospedale,
le salvò dalle mammane. La «piaga degli aborti» fu peraltro
enfatizzata dai radicali, che, alleandosi con un femminismo più interessato
a sottolineare l’oppressione delle donne che a mostrare le lor proprie
risorse di libertà, organizzarono un servizio «clandestino »
di interruzione della gravidanza, e tanto meglio se la cosa finiva davanti
al giudice e sui giornali. Serviva a denunciare le conseguenze sociali del
divieto penale e la situazione di illegalità diffusa che esso determinava
(la proletaria si dissangua sul bancone di cucina mentre la borghese abortisce
comodamente all’estero o nella clinica compiacente); a svergognare il
regime democristiano clerico-fascista, e a sfidare il Pci, il quale, essendo improbabile
che volesse prendere in mano il tema dell’aborto, di notevole imbarazzo
nel dialogo con la Dc e la Chiesa, appariva avviato a una di quelle brutte
figure che tanto facevano godere i suoi antagonisti. Ciò che si ottenne
fu, da una parte, di siglare una equivalenza tra «privatezza» dell’aborto
e «clandestinità», che gettò lo stigma collettivo sulla
prima e svalorizzò le relazioni femminili che da sempre accompagnano l’aborto,
così come il parto, e che sono state attraverso i secoli capaci di proteggere
le donne nell’una come nell’altre esperienza.Dall’altra,
di certificare che l’unica alternativa al divieto penale di aborto era una
nuova legge, che introducesse l’aborto «sicuro». Di questo quadro,
che dell’aborto faceva essenzialmente un problema igienico, la Corte
costituzionale seppe leggere le opportunità che esso offriva ai partiti
maggiori per uscire dalle peste, e le illustrò con una sentenza che, nel
1975, dichiarò l’illegittimità costituzionale parziale del
reato d’aborto e gettò le premesse per la contrapposizione tra
diritti della madre e diritti del feto. Posto che l’interesse alla vita del
nascituro è protetto come supremo valore dalla Costituzione, la Corte ammise
che considerare in ogni caso l’aborto un reato era irragionevole, perché
non consentiva alle donne nemmeno di interrompere una gravidanza pericolosa per
la salute, e le spingeva così nelle mani delle «fattucchiere».
Fece risaltare a chiare lettere che il solo bene e l’unico interesse
che la donna porta nella procreazione, che abbia rilievo costituzionale e
sia protetto dall’ordinamento, bilanciando in qualche caso l’interesse
alla vita del nascituro, è la salute: non la libertà procreativa,
tanto meno il desiderio d’esser madre o non; che con la vita di un nascituro,
si sa, non hanno niente a che vedere. Dc e Pci si trovarono così la soluzione
pronta: si poteva legalizzare l’aborto, rimediare alla «piaga sociale
» e tacitare le piazze, senza bisogno di alludere a nessun tipo di libertà
delle donne. L’aborto a catena nell’indifferenza degli ospedali fu votato
come la risposta solidale e emancipatrice della Repubblica ai problemi di noi
poveracce, che dobbiamo esser messe al riparo dall’imperizia praticona
delle altre, le quali sono loro i nostri veri nemici, non una sessualità
bloccata sugli schemi del dominio e della subalternità,non chi strumentalizza le
donne per poi contare i voti. Perché risultasse chiaro che le donne sono:
vittime, incapaci di scegliere, pericolose e nemiche della vita nascente, doveva
rimanere e rimase un delitto la possibilità che una abortisca a casa
sua, con l’aiuto di una ostetrica amica, il sostegno delle persone care,
e per i motivi che sa lei. Dove allora si abbracciarono Dc e Pci, oggi si stringono
Veltroni e Binetti. Non vi è dubbio che, per i partiti, la legge 194
abbia avuto e conservi un’importanza cardinale; o che, nell’Italia di
allora, essa avesse un significato emancipativo. Ma fuori da quel suo contesto,
la 194, costruita sulla negazione del rapporto tra la vita del nascituro e
il desiderio materno, sulla criminalizzazione dell’intimità, sull’abbandono
del corpo femminile al governo della medicina, e sulla dimenticanza che in ogni
aborto sono in gioco legami, rischia di generare un immaginario troppo povero
per nutrire i legami del vivere comune. Questo è il prezzo di una legge
che, piuttosto che nel desiderio della donna, preferisce vedere nella mancanza
di mezzi una giustificazione dell’aborto, e nella disabilità un’altra,
allorché considera le accertate malformazioni del nascituro, al pari del
«disagio economicosociale », un pericolo per la salute psicofisica
della madre, tale da legittimare l’aborto. Così si confonde la
scelta di una donna sulla propria maternità con una aggressione alla dignità
di chi è malato. Si genera una retorica che vorrebbe far pagare a ogni
donna col suo corpo e la sua vita, gli arbitri e l’irresponsabilità
di una scienza orgogliosa di saperti preannunciare dolori davanti ai quali
ti lascerà sola, o bramosa di riuscire a dare qualche ora di inimmaginabili
sofferenze a un prematuro di trenta settimane. Si smarrisce il buon senso che
non confonde e non mette l’una contro l’altro una donna che abortisce
il feto malformato e un essere umano sofferente e diverso.Una ipocrisia che
ti chiede ragioni per abortire,ma poi non ti dà neanche il tempo di parlare,
se per caso ne avessi bisogno, in quei due secondi in cui ti viene firmata l’autorizzazione,
costa la dignità, libertà e autonomia di scegliere tra abortire
in ospedale e disporre di questa come una possibilità tra altre. Né
si capisce perché gli uomini debbano vedere la loro sessualità pietrificata
da una legge che non ha vergogna di sancire che con l’aborto si rimedia alla
violenza e all’incesto. Possiamo e dobbiamo permetterci, oggi, di andare
oltre la legge 194, oltre le regole e i principi generali che, non potendo allora
legittimare l’aborto che a titolo di procedura burocratico-sanitaria, rischiano
di riuscire più che altro a snaturare e impoverire la concretezza e la
singolarità dell’esperienza. Possiamo volerci più ricche e
più ricchi, mirare a iscrivere nel diritto il rispetto per il desiderio
di una donna di diventare o non diventare madre, e restituirlo all’intimità
vivente e abitata di ciascuna. Il diritto non appartiene ai partiti. E’
capace di pensare per possibilità, è poroso e restituisce le idee
e le immagini che ci mettiamo dentro. Iscrivere nel diritto il rispetto del desiderio
materno comincia dalla nostra vita, dalla nostra immaginazione e dalla nostra
testimonianza. Costituzionalista,Univ..Cagliari
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