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Il manifesto,
12 dicembre 2006
Il
passato che non vuole passare, il futuro che non vuole aspettare
Il
multiculturalismo di ascendenza liberale tratta le identità come
stati sovrani. E questo accade quando la globalizzazione erode la sovranità
Trasmissione culturale, eredità globale, interlocuzione, parzialità,
ibridazione. La «politica della morte» nell'era del terrore
e dell'errore. Toccare il trauma fra orgoglio e vergogna. La prospettiva
di Homi Bhabha sul presente in transizione
Ida Dominijanni e Brett Neilson
«Non
c'è alcun documento della civiltà che non sia al contempo
un documento della barbarie». Ritornando su questo giudizio di Walter
Benjamin, Homi Bhabha, ospite d'onore al convegno sul meticciato organizzato
giovedì scorso al Centro di studi americani di Roma, ha parlato
del rapporto fra ambivalenza della trasmissione culturale, ambivalenza
strutturale dell'esistenza personale e politica nel mondo globale, costruzione
di una società ibridata alternativa al multiculturalismo identitario
di marca liberal-pluralista. La tensione fra trasmissione di civiltà
e «trasmissione barbarica» che i monumenti comunicano evoca
la tensione fra «appropriazione carica di orgoglio e alienazione
carica di vergogna» che sentiamo nei confronti delle narrative storiche
da cui proveniamo: l'elaborazione di questa tensione è un passo
necessario per fare spazio a un'eredità globale che le decostruisca
e le superi. Homi Bhabha sviluppa il suo ragionamento a partire da una
sua recente visita allo Zeppelinfeld di Norimberga. Ma poiché siamo
a Roma, tanto vale ripercorrerlo a partire dall'Ara Pacis di Augusto,
da poco riaperta al pubblico nel nuovo padiglione di Richard Maier, molto
discusso dal punto di vista architettonico, meno dal punto di vista del
messaggio memoriale.
La Pax Augustea sigla il passaggio dalla Repubblica all'Impero romano,
dopo una lunga era di guerre. Guardando l'Ara Pacis con gli occhi di oggi
viene da chiedersi: ci sarà mai un monumento che segni la fine
della «endless war», come tu stesso l'hai chiamata, nell'Impero
globale di oggi? E come te lo immagineresti?
E' proprio dei monumenti siglare la fine delle guerre. Ma nel portarne
la memoria, essi ne perdono l'essenziale: trascendono in una idealizzazione
eroica il vissuto della violenza e della sofferenza. C'è un narcisismo
dei monumenti, che risponde al bisogno di autocelebrazione dei sopravvissuti.
Un memoriale della endless war in cui siamo precipitati con l'11 settembre,
ammesso che essa avrà mai appunto una fine, dovrebbe restituirne
le caratteristiche specifiche. Una guerra che da ambo le parti assume
la forma di una guerriglia, e che da ambo le parti ha come obiettivo principale
i civili: i cittadini comuni, che continuano a vivere «normalmente»
sotto l'ingiunzione di lavorare, produrre e consumare, e che rischiano
di esplodere mentre tutto viene deciso in nome della loro sicurezza. Degli
orrori e dei dolori di questa guerra abbiamo già molti documenti:
le foto di Abu Ghraib, delle atrocità di Saddam Hussein, degli
ostaggi sgozzati, dei danni collaterali dei willing, dei musei saccheggiati,
di Donald Rumsfeld che liquida tutto col suo «stuff happens».
Un monumento dovrebbe restituire questa particolare condizione dei civili,
di una vita quotidiana «normale» che è diventata obiettivo
e posta in gioco.
Nella tua conferenza hai parlato del rapporto fra «trasmissione
barbarica» e costruzione di una «eredità globale».
Tema cruciale, perché invita a ripensare la globalizzzaione come
un processo che non riguarda solo il presente e il futuro, ma anche il
passato, o il passato anteriore.
Il tempo globale è un tempo complesso e disgiunto, che tento di
rappresentare con questa formula: un passato che rifiuta di passare, un
futuro che rifiuta di aspettare. Sia il passato sia il futuro esercitano
dunque una pressione sul presente e sulla nostra posizione etica nel presente.
Agire eticamente richiede per un verso di scrivere la storia mai scritta
del mondo globale, per l'altro di collocarsi nel futuro chiedendosi «come
avrei dovuto agire oggi sapendo ciò che saprò domani».
Credo che questo rapporto fra passato e futuro restituisca la temporalità
della globalizzazione più di quella che David Harvey chiama «compressione
spaziotemporale». Dobbiamo vedere lo spazio globale come uno spazio
in transizione, intendendo la transizione come una prospettiva sul presente.
Guardiamo appunto al nostro presente. Oggi, tu dici, sono in atto due
forme di «trasmissione barbarica»: l'islamizzazione tramite
terrorismo e la democratizzazione tramite guerra. Che sono anche due forme
di quella che tu definisci «politica della morte». Aldilà
dell'evidenza, cosa intendi precisamente per «politica della morte»?
Una politica che è la negazione della politica. Io penso, con Hannah
Arendt , che la politica sia costruzione della polis, llegame, interlocuzione,
in-between, scommessa sulla nascita. Se la morte diventa moneta corrente
della politica, che a batterla sia lo stato o una rete terrorista, si
ribaltano le basi e il senso della politica. Se al tavolo della politica
lo stato o attori non statali giocano al rialzo con le fish della morte,
si entra nell'età del terrore e dell'errore, in cui il potere per
un verso produce e alimenta il senso del pericolo, per l'altro rischia
continuamente la fallacia nell'uso delle informazioni. Una situazione
storicamente e moralmente molto compromessa, in cui collassano trasparenza
e responsabilità.
D'accordo, ma la politica della morte è da sempre l'altra faccia
della politica della vita: tanatopolitica e biopolitica vanno assieme,
diceva Derrida...
...e anche, e diversamente, Foucault: il passaggio dal potere di dare
la morte e lasciar vivere al potere di far vivere e lasciare morire, che
segna l'era biopolitica, lascia intatto un nocciolo di morte, una killing
zone fatta di razzismo e esclusione. E' bene però individuare il
salto e la specificità di ciò che accade oggi, sotto questo
cosiddetto «scontro di civiltà» che rende molto cheap
il valore della vita. Nell'Ottocento, la domanda del mondo ricco ai paesi
poveri era: siete in grado di intraprendere la strada del progresso? Durante
la guerra fredda la domanda delle democrazie occidentali al resto del
mondo era: siete in grado di mettere l'individuo al di sopra della comunità?
Oggi la domanda che governa il conflitto globale è se la cultura
dell'altro gioca con la politica della morte, se la tollera, se la vuole:
«la tua cultura vuole uccidermi?». E' quello che chiamo complesso
securitario.
C'è la politica della morte, e c'è la morte della politica.
Mentre vige questa politica della morte che tu descrivi, in molto dibattito
filosofico-politico si parla sempre più insistentemente di «fine
della politica». C'è un rapporto secondo te fra queste due
rappresentazioni, «politica della morte» e «fine della
politica», e quale?
Per me, come dicevo poco fa, la politica della morte è la morte
della politica. Ma con «fine della politica» - un tema che
mi pare tipico del contesto italiano, un po' come la «fine del romanzo»
- credo che si faccia riferimento a un grappolo più ampio di questioni:
fine della partecipazione, manipolazione della rappresentanza, perdita
della trasparenza democratica, illegalità, corruzione, fine dello
stato. Tutti processi realmente in atto. Tuttavia, prima di decretare
la fine della politica bisogna uscire dalla rappresentazione classica
del teatro della politica come dinamica stato-antistato. Negli ultimi
decenni, soggetti non statali e transnazionali, dal femminismo ai movimenti
sull'Aids e la politica sanitaria, hanno modificato quel teatro portando
nella sfera pubblica questioni prima confinate nella sfera privata. Nella
fine della politica, c'è dunque anche una politica che comincia,
incentrata su domande etiche.
Questo ricorso supplementare all'etica però è a sua volta
tipico del dibattito anglosassone, e talvolta suona come un modo per evitare
i problemi della politica...in che rapporto stanno scelta etica e decisione
politica?
Etica e politica vanno assieme, sono, più che intrecciate, incastrate.
L'etica non è un'aggiunta della politica, come i comitati etici
nominati dai parlamenti in crisi: l'atto politico presuppone la scelta
etica, e la scelta etica fa parte del teatro della politica. E la nostra
posizione nel presente, fra il passato che non passa e il futuro che non
aspetta, la intendo come posizione etica e politica.
Questa posizione tuttavia, nel tuo discorso, è strutturalmente
caratterizzata dall'ambivalenza, termine che tu prendi dichiaratamente
dalla psicoanalisi. Nella tua lezione al festival di filosofia di Roma
dello scorso maggio, hai detto che il lessico della politica è
troppo stretto e va arricchito e modificato con categorie esterne. L'ambivalenza
è una di queste?
Sì. L'ambivalenza modifica il lessico politico in un luogo centrale,
tradizionalmente occupato dalla categoria di contraddizione, che nello
schema hegelo-marxiano si risolve sempre in una sintesi. Nell'ambivalenza
invece non c'è sintesi, c'è solo il lavoro continuo dell'elaborazione
e dell'interpretazione, in senso psicoanalitico. Questa svolta concettuale
ha molto a che fare con il modo di pensare l'identità, la parzialità,
le differenze, il multiculturalismo.
Perché?
Perché nell'accezione liberale prevalente il multiculturalismo
si risolve in un pluralismo delle identità, che riproduce e alimenta
senza alcuna consapevolezza filosofica la fissazione identitaria, e riproduce
la logica uno-molti propria di tutta la tradizione occidentale. In sostanza,
il multiculturalismo tratta le culture come fossero tanti stati sovrani.
Il fatto è che invece la globalizzazione frantuma la logica dell'identità
e quella, connessa, della sovranità. E nella globalizzazione non
ci sono culture che si muovono compattamente l'una contro l'altra: ci
sono legami e alleanze che si stringono trasversalmente su singole questioni,
economiche, o di giustizia, o di voice. Quello che è all'opera
nelle dinamiche globali non è un dispositivo di identità,
ma di parzialità e ambivalenza, che dispiega una complessità
che il multiculturalismo pluralista liberale non sa leggere.
La pratica centrale che tu indichi per entrare in questa complessità
è quella dell'interlocuzione. L'interlocuzione va intesa anche
come inter-locazione?
A febbraio presenterò What does a terrorist want?, un libro che
sostiene che con i terroristi bisogna interloquire, differentemente da
quanto fanno i governi occidentali e da quanto facevano Thatcher e Reagan
con Mandela quando lo bollavano come terrorista. L'interlocuzione non
è il dialogo habermasiano, che presuppone un orizzonte di riferimento
comune. Nell'interlocuzione non ci sono fondamenti condivisi, la situazione
è disgiuntiva, inuguale, non del tutto traducibile; l'interlocuzione
non si basa su una lingua comune, ma su un trauma della lingua che domanda
a tuttti e due gli interlocutori, il carnefice e la vittima, di cambiare
il proprio lessico.
Quali sono le sedi di questa pratica dell'interlocuzione? Quando accenni
a delle istituzioni cos'hai in mente? L'università, l'Onu, il Wef...?O
dobbiamo inventarne di nuove?
Non pensavo solo a nuove istituzioni, dobbiamo cominciare dai luoghi che
già frequentiamo...ad esempio, noi stiamo facendo questa intervista
per il manifesto, con un linguaggio diverso da quello canonico dei giornali.
C'è una proliferazioni di istituzioni, corti di giustizia, sedi
di eleborazione collettiva in cui si sperimentano forme di interlocuzione:
in Ruanda, gli hutu e i tutsi hanno respinto il dispositivo che gli era
stato proposto e hanno tirato fuori i loro tappeti per disegnare il territorio
della riconciliazione.
«We must love one another or die»: che cosa significa politicamente
il verso di Auden che hai citato nella tua conferenza? Una politica dell'amore
contro la politica della morte?
Parlo di amore sociale, alleanza, solidarietà: il ventaglio complesso
di identificazioni che l'amore suscita. Dal sisma della sovranità
possono nascere nuove forme di affiliazione, tenute assieme non dalla
razionalità del politico ma dall'intero lessico degli affetti che
impronta la nostra esistenza pubblica e privata, le sue ambivalenze, il
processo interminabile della loro elaborazione.
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