Il
sostenibile peso della verità SUSAN
SONTAG (traduzione di Paolo Dilonardo)
A
un'americana, e newyorkese, come me, triste e sgomenta, l'America
non è mai apparsa così lontana dal riconoscere
la realtà come quando si è trovata di fronte
alla mostruosa dose di realtà di martedì scorso.
La sconnessione tra quel che è successo e i possibili
modi di comprenderlo, da un lato, e le sciocchezze ipocrite,
le falsità belle e buone che, dall'altro, vengono spacciate
in America da quasi tutti i politici e i commentatori televisivi
è allarmante, deprimente. Sembra che le voci autorizzate
a seguire un evento di tale portata si siano coalizzate in
una campagna mirata a infantilizzare il pubblico.
Dov'è
chi riconosce che non si è trattato di un «vile»
attacco alla «civiltà», o alla «libertà»,
o all'»umanità», o al «mondo libero»,
ma di un attacco all'autoproclamata superpotenza del mondo,
sferrato in conseguenza di specifiche azioni e alleanze americane?
Quanti americani sanno che l'America continua ancora a bombardare
l'Iraq? E se la parola «vile» va proprio usata,
forse sarebbe più pertinente riferirla a chi uccide
dall'alto del cielo, al di fuori del raggio di possibili reazioni,
piuttosto che a chi è pronto a morire per uccidere
gli altri. Quanto al coraggio (una virtù moralmente
neutra): qualunque cosa si possa dire di coloro che hanno
perpetrato la carneficina di martedì, non erano vili.
I leader americani sono decisi a convincerci che tutto è
ok. L'America non ha paura. Il nostro morale è intatto.
«Loro» saranno stanati e puniti (chiunque siano
questi «loro»). Abbiamo un presidente robot, pronto
ad assicurarci che l'America resta ancora a testa alta. E,
a quanto pare, le varie e numerose personalità pubbliche
che si sono opposte con forza alle politiche estere adottate
da questa amministrazione si sentono libere soltanto di dirsi
unite nel sostenere il presidente Bush. Ci è stato
detto che tutto è, o sarà, ok, anche se si è
trattato di un giorno la cui infamia resterà viva e
adesso l'America è in guerra. Non è vero che
tutto è ok. E non si è trattato di una Pearl
Harbor. E' necessario riflettere a fondo, e forse lo si sta
facendo a Washington e altrove, sulla colossale inefficienza
del sistema di intelligence e controintelligence americano,
sulle opzioni possibili alla politica estera americana, soprattutto
in Medio Oriente, e su ciò che costituisce un efficace
programma di difesa militare. Ma chi ricopre cariche pubbliche,
chi vi aspira, chi le ha già ricoperte - con la spontanea
complicità dei principali mezzi di comunicazione -
ha stabilito che non si può chiedere al pubblico di
sopportare troppo il peso della realtà. Le ovvietà
autocelebratorie e unanimemente applaudite dei congressi di
partito sovietici ci sembravano spregevoli. L'unanimità
dell'untuosa retorica di cancellazione della realtà
che quasi tutti i politici e i commentatori americani hanno
profuso in questi ultimi giorni sembra, be', indegna di una
democrazia matura. I leader e gli aspiranti leader americani
ci hanno fatto capire che considerano il proprio compito pubblico
un compito di manipolazione: di costruzione della fiducia
e gestione del dolore. La politica, la politica di una democrazia
- che comporta il disaccordo, che promuove la sincerità
- è stata sostituita dalla psicoterapia. Certo, piangiamo
tutti insieme. Ma cerchiamo di non essere stupidi tutti insieme.
Qualche brandello di consapevolezza storica potrebbe aiutarci
a capire cosa è appena successo, e cosa può
ancora succedere. «Il nostro paese è forte»,
ci viene ripetuto continuamente. Io, per parte mia, non la
trovo un'affermazione del tutto consolatoria. Chi dubita del
fatto che l'America è forte? Ma l'America ha il dovere
di non essere soltanto questo.
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