La
provinciale con il demone della poesia
Renzo
S. Crivelli
Che cosa abita nei sobborghi di un segreto? Un segreto così
profondo che è possibile soltanto lambirne i confini,
giacché talvolta tra il testo poetico e la vita quotidiana
dell’artista c’è «un abisso che non
può avere biografi»? Ecco il punto più
controverso di una tra la maggiori scrittrici dell’Ottocento,
Emily Dickinson, la cui esistenza fievole e impercettibile,
tra il 1830 e il 1886, è stata caratterizzata quasi
totalmente da un volontario isolamento nella casa paterna
di Amherst, nel Massachusetts.
Raramente,
nel riscontro tra arte e vita, è emerso un simile divario
(un «abisso», come lei stessa lo chiama in una
lettera) in cui coesistono violentemente una perfetta e concentrica
armonia minimalista (con il ricorso a una rete di riferimenti
ai piccoli luoghi della quotidianità provinciale: il
salotto, il giardino, gli oggetti più umili, le care
amicizie, la dimensione epistolare con la sua riservatezza
da boudoir avviluppata di reticenze, di sottintesi, di impervietà)
e la poderosa forza travolgente della poesia, capace di tramutarsi
nella metafora dell’universo con una forza liberatoria
che fa quasi esplodere di significati le cose più innocue:
dalla crinolina di un divano al ricamo di un piccolo grembiule
accostato alla porta della cucina. Ecco i due poli che ci
affascinano in Emily Dickinson (e il loro fascino è
talvolta accecante): la presenza o l’assenza (solo inscenata)
del demone della poesia. Da un lato la semplicità quasi
ingenua d’una ragazza di provincia di stampo vittoriano
cresciuta, almeno apparentemente, tra piccoli sogni e modeste
aspirazioni, che in vita non volle pubblicare quasi nulla
(e il cui oblio si spezza prepotentemente soltanto a cominciare
dalle grandi biografie del 1938 e del 1974, cui fecero seguito
decine e decine di studi specie nell’area femminista);
dall’altro lato la «sfrontatezza» d’una
grande artista consapevole di esserlo, in grado di controllare
perfettamente la forza dirompente dell’arte, capace quindi
di guardare al mondo, al «futuro della comunicazione»
come a un antagonista da sconcertare, forse addirittura beffare
in un gioco di occultamenti e di disvelamenti di cui lei,
Emily, la fragile «insulsa» Emily, è la
più abile regista.
È
questo il tipo di approccio, dopo tante biografie dickinsoniane
(molte anche in Italia) in cui forse a prevalere era una fascinazione
senza riserve, che Marisa Bulgheroni — cui si deve, tra
l’altro l’impeccabile cura del Meridiano di Mondadori
dedicato alla grande poetessa americana — ha voluto dare
a Nei sobborghi di un segreto. L’assunto principale di
questa sua bella ricostruzione della vita di Emily Dickinson
sta, infatti, nell’ipotesi che sia una sorta di regista
della propria immagine, sempre consapevole, anche nelle azioni
più banali o secondarie, di quel che sta lasciandosi
alle spalle perché sia letto, comunicato, capito, decifrato.
È dunque Emily che dirige il biografo, a volte giocando
con lui, a volte fornendogli con insolita generosità
gli strumenti adatti a capirne i travestimenti senza mai attenuare
la forza degli indizi, indizi che, ovviamente, vanno inseriti
nel contesto vittoriano e nella mentalità de lla Amherst
di metà Ottocento.
La
funzione del biografo, quindi, in questo libro che ha angoli
di rara delicatezza, consiste proprio nell’avvicinarsi
il più possibile a quel «segreto» (in cui
sono racchiusi con commistione bizzarra la devastazione poetica
e il disarmante chiacchiericcio della quotidianità)
sino a darne, se non certo la cifra assoluta, i contorni,
le sfumature collaterali, le similitudini più rivelatrici.
E per raggiungere questo obiettivo, come suggerisce l’autrice,
occorre riaccostarsi con umiltà, ma anche disincanto,
alle lettere, ai documenti, alle piccole testimonianze, alle
immagini e alle descrizioni ambientali dickinsoniane, specie
a quelle dell’infanzia e dell’adolescenza (non tralasciando
neppure l’epistolario tra i genitori della poetessa,
cui si aggiunge un minuzioso approfondimento del rapporto
paterno). E in quest’ultimo caso basterà ricordare
l’insistenza sugli anni trascorsi al Mount Holyhoke Seminary
(si pensi solo al trepidante arrivo di Emily al Collegio,
in cui sembra trasparire una delle sue tante «regie»:
quella del passaggio dall’infanzia all’adolescenza).
I
rapporti col fratello Austin, con la moglie di lui Susan,
con la sorella Lavinia e con l’ambigua Kate Scott, con
gli amici letterari come Higginson riemergono nei Sobborghi
di un segreto come tasselli emotivi in grado di dare ampio
contorno alla poetessa, così come i personaggi-chiave,
da Emmons a Otis Lord, che interferirono concretamente con
la sua sfera emotiva. E dunque il risultato appare raggiunto
per ampi flash rievocativi cui Marisa Bulgheroni non manca
di consegnare forti valenze simboliche che gettano luce anche
sull’opera della «reclusa di Amherst». Un
esempio per tutti: le motivazioni della scelta di «vestire
di bianco» dopo il 1866 («Solenne cosa —
io dissi / essere donna in bianco / e indossare — se
Dio me ne fa degna — / il suo immacolato mistero»),
in cui l’autrice adombra la presenza di una nuova «regia»
dickinsoniana, consapevole qui di confrontarsi con l’incommensurabile
enigma del bianco melvilliano.
Marisa
Bulgheroni, «Nei sobborghi di un segreto: vita di Emily
Dickinson», Mondadori, Milano 2001, pagg. 352, L. 42.000.
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