Novembre 2010
Luce Irigaray, Il mistero
di Maria, Paoline, Milano 2010, pp. 58, € 11,50
recensione di Annarosa Buttarelli
In
un delizioso libriccino da tenere in tasca come quelli destinati alla
meditazione quotidiana, Luce Irigaray scrive una delle tappe più
significative della sua ricerca intorno al divino di segno femminile.
L'autrice si conferma come geniale filosofa della differenza sessuale,
attraversata dalle contraddizioni del presente e sempre più fedele
all'impegno di sperimentare e offrire compassionevolmente le chiavi
della liberazione per donne e uomini, senza cessare di dare priorità
a un cammino di libertà delle donne, che è in corso e
le è debitore, di passi decisivi e, crediamo, irreversibili.
Il testo, un'intensa riflessione su Maria di Nazaret e madre di Gesù,
scritto con la semplicità accurata di chi vuole arrivare al cuore
di molti e di molte, si muove per soccorrere un'umanità che ha
fatto a pezzi sé e il pianeta dove vive; che si è ridotta
a non avere quasi più la capacità di alimentare lo spirito
e di conservarsi caro l'accesso alla trascendenza, prima ancora di gettarsi
in qualche confessione religiosa. Da grande pensatrice qual è,
Irigaray sa che nel presente le trasformazioni non possono più
avvenire secondo argomentazioni e dimostrazioni logiche neo-illuministiche,
alle quali ci ha abituato un razionalismo estenuato, vista la sua impotenza
di fronte al bisogno di saper dare parole anche al sentire, all'immaginazione,
a tutto quel mondo dell'interiorità che María Zambrano
e Simone Weil indicano come bisogni radicali dell'anima. Irigaray va
al punto forse più dolente della crisi globale contemporanea:
l'ottusità della ripetizione di tutto ciò che non solo
non ma che anzi è distruttivo e la correlata mancanza di creatività
dovuta, in Occidente, anche all'abbandono di quella che si può
chiamare filosofia sapienziale.
Con Il mistero di Maria, la filosofa incoraggia l'accelerazione del
necessario processo di ri-spiritualizzazione dell'umano proponendo esplicitamente
un cambiamento generale della forma mentis occidentale in favore di
una nuova "cultura della saggezza". Si può provare
la tentazione di attribuire tutto il merito di questa mossa alle sue
personali ricerche in ambito buddista e induista, ma rimaniamo comunque
stupiti e stupite dalla finezza con cui queste ricerche vengono messe
al servizio della riapparizione e della collocazione di Maria di Nazaret
al centro della nostra vita politica e spirituale. Riprendendo il filo
tessuto nel suo fondamentale Sessi e genealogie, Luce Irigaray ci chiede
di mettere al cuore del cambio di civiltà in corso la Madonna
cristiana cattolica, in modo da riconoscerla e di avvalerci della sua
opera di "co-redentrice del mondo", insieme a suo figlio Gesù.
Se il senso profondo di questa proposta fosse già stato recepito,
potremmo già tirare un respiro di sollievo: significherebbe che
l'intelligenza generale ha registrato che ci troviamo in pieno post-patriarcato,
un tempo che non ha più punti di orientamento, che ha bisogno
di un nuovo ordine simbolico da condividere, per il quale occorre trovare
immagini, metafore vive, creatività, nuove dimensioni narrative,
e perfino mitologiche, così da scuotere e trasformare un immaginario
spento da una sciatteria a senso unico (leggi fallocrazia), che l'ha
tenuto in vita per un tempo incalcolabile. Luce Irigaray sa bene che
sarebbe tragicamente ridicolo affidare di nuovo ai soli uomini intellettuali
il compito di rimettere ordine ai legami sociali o a quel che ne resta,
dopo che ne hanno accelerato il disfacimento attraverso la doppia morale:
scrivere bene e, nella vita di relazione, razzolare male ma con più
efficienza. E' piuttosto necessario sapere come la mente abbia bisogno
di nuove immagini per riprendere a pensare veramente e a pensare tutte
e tutti.
Qui da noi, il cristianesimo popolare e femminile ha seguitato a coltivare
il culto di Maria come virgo potens e come figura storica che merita
e sostiene tutte le meravigliose attribuzioni contenute nelle Litanie
lauretane. La dottrina istituzionale della Chiesa invece, scrive Irigaray,
ha scelto di coltivarne la memoria e la posizione come archetipo di
maternità esemplare al servizio di Dio-padre e del suo progetto.
Il suo essere "Porta del Cielo" è stato scambiato come
semplice essere corpo che si offre per l'attraversamento di un corpo
celeste, mezzo tra padre-dio e figlio-dio. La cosa non è rimasta
senza conseguenze, né per la nostra cultura, né per la
politica, né per la ricezione della differenza femminile, quando
vada intesa, ad esempio, come autorità filosofica, sapienziale
e politica. Tanto è vero che, in pieno cristianesimo realizzato
(?) e sbandierato, di "Maria non sappiamo quasi nulla", scrive
Irigaray, facendo di questa costatazione la cifra di una grave ignoranza
della cultura generale e delle pratiche relazionali. L'incipit di Irigaray
è infatti da leggersi anche come un reiterato "delle donne
non sappiamo e non vogliamo sapere quasi nulla".
Sono le donne stesse e il culto popolare che hanno traghettato e difeso
una presenza e un'esperienza che ora vengono buone per soccorrere i
nostri tempi. La pretesa di Irigaray è alta, è il tentativo
di mostrare l'evidenza di una correzione teologica improcrastinabile:
ciò che le donne sono riuscite a sapere di sé e di Maria
di Nazaret si rivela necessario per riposizionare le carte in tavola
del simbolico, per calarne altre, per ascoltare davvero il bisogno di
trascendenza dell'anima. Colei che è cara a chi "ha fame
e sete di giustizia" può essere la figura di una nuova era
in cui il pensiero si incarna veramente, così come ha segnato
l'ingresso nell'era cristiana con il suo consenso alla necessità
di concepire il messaggio d'amore incarnato in suo figlio Gesù.
Dice infatti Irigaray che Maria è protagonista consapevole di
una novità: il concepimento di una nuova umanità non può
essere solo emotivo o fisico (Maria non è mai solo corpo materno)
ma accade se si trovano parole nuove, se si parla con l'angelo, come
ha fatto per l'appunto Maria. Ci viene ricordato che ogni concepimento
è simultaneamente nel corpo, spirito, pensiero e parole e che
ogni nuovo inizio ha bisogno di parole vere incarnate e sessuate.
Maria, secondo la filosofa, corregge genealogicamente l'incauto errore
di Eva perché le insegna che non si può pretendere di
diventare divini prima di portare a compimento la propria umanità,
prima di assumerla avendola accettata. La "redenzione" viene
intesa in questo senso e anche nel senso della ripresa del respiro e
della parola autenticamente pronunciata. Ma da dove viene l'autorità
simbolica di Maria? Proprio dalla sua misteriosa verginità, bistrattata
e fraintesa dalla Chiesa al punto da indurre Luce Irigaray ad accusarla
di minare paradossalmente "i fondamenti stessi del cristianesimo",
forse perché le è sfuggito che è già stata
formulata l'idea che uno dei nomi della Madonna sia "Spirito Santo".
La filosofa respinge in particolare la teologia della "mediazione
dello Spirito Santo (nel mettere incinta Maria, n.d.r) che rappresenta
l'amore tra il Padre e il Figlio della Trinità cristiana. "Maria
avrebbe concepito senza partecipare!". La cifra della verginità
di Maria (non la castità!) starebbe invece a significare che,
alle radici stesse del cristianesimo, il legame diretto delle donne
con Dio, non è mediato da alcun uomo, né da alcunché
di maschile. Come a dire che l'autonoma verginità del pensare
e parlare delle donne è garanzia di buona novella per tutta l'umanità,
è conveniente per tutti.
Maria appare così anche l'affrancamento, fin dall'origine, dall'identificazione
con lo stato di natura in cui la cultura filosofica occidentale ha invitato
spesso le donne a rincantucciarsi. Poiché il "gesto etico"
di Maria non consiste solo "nel rispettare la vita dell'altro,
ma anche nel dare la vita all'altro", fisiologicamente e spiritualmente
differente da lei, ecco che nella vita femminile si evidenzia la capacità
di "rispettare la trascendenza dell'altro, di cui pochi uomini
sono effettivamente capaci". Questo affondo di Irigaray intende
colpire sia i residui culturali e psicoanalitici dell'ortodossia freudiana,
quando teorizza la necessità dell'intervento del padre per separare
il bambino dalla madre, sia la responsabilità degli uomini di
oggi, quando continuano a non vedere come sono loro ad essere i più
vicini allo stato di natura, incapaci di affrancarsi da impulsi violenti
e distruttivi. Le donne già si trascendono nel concepire l'opera
di dare la vita e di mettere al mondo altre vite differenti in corpo
e spirito.
Infine, in continuità con la sua ricerca filosofica sell'importanza
dei "trascendentali sensibili" nella vita di relazione (Etica
della differenza sessuale), Luce Irigaray ci presenta Maria come "la
prima figura divina del tempo dell'incarnazione", come ben sanno
gli artisti che hanno provato a rappresentarne la novità. Fatta
eccezione per la mistica, l'autrice polemizza con l'esito di una cultura
cristiana anestetizzata, che considera trascendente solo ciò
che "sfugge alle nostre percezioni sensibili, solo ciò che
è disincarnato". Maria, concependo e crescendo nel suo corpo
l'invisibile divino, mostra la realtà del divino dentro l'umano
e testimonia la necessità di coltivare le percezioni sensibili
interiori ed esteriori, una "cultura del toccare" sensibile
e carnale versus le politiche dell'immunizzazione, dell'astrazione e
dell'indifferenza.
Mostrando Maria di Nazaret in questa luce, Luce Irigaray, oltre a indicare
un modo di fare filosofia radicalmente trasformato, ripercorre i luoghi
catastrofici della nostra epoca e presenta la sua proposta, che si accompagna
ad altre proposte femminili analoghe, di una nuova politica, forse l'unica
politica possibile oggi. Ci offre così una testimonianza ulteriore
che porta acqua al mulino di un'intuizione sempre più consistente,
un'intuizione che dice al secolo appena iniziato: la filosofia è
la filosofia delle donne.