Testo
integrale da cui è stato tratto l'articolo del 25 Novembre sul
Manifesto- Hebe de Bonafini alla Libreria delle donne di Milano di Daniela
Padoan
Madres
in bilico sulla vita
di Daniela Padoan
Hebe de Bonafini
alla Libreria delle donne di Milano di Daniela Padoan Uno strano incontro,
quello che si è svolto alla Libreria delle Donne di Milano tra le Madri
di Plaza de Mayo e le donne che si occupano di politica delle donne. Da
una parte un dirsi madri, con un'abitudine a guardare con sospetto la
retorica femminista, e dall'altra un dirsi donne, con l'abitudine a guardare
con sospetto la retorica della maternità. Eppure innumerevoli somiglianze,
a partire dalla centralità di una pratica che trasforma l'esperienza vissuta
in prima persona in un sapere di sé e del mondo possibile solo attraverso
l'esserci e il dirsi nella relazione diretta. Hebe de Bonafini e Mercedes
Meroño, presidente e vicepresidente dell'associazione delle Madri, hanno
compiuto il consueto gesto rituale prima di presentarsi in pubblico; come
in una liturgia, si sono annodate sotto il mento il fazzoletto bianco,
simbolo della scomparsa dei figli. Quello stesso fazzoletto sul quale,
ventiquattro anni fa, ai tempi del golpe militare in Argentina, ciascuna
madre scriveva il nome del figlio scomparso, per poi sostituirlo con una
parola d'ordine rimasta da allora immutata: aparición con vida. Ricomparsa
e vita, concetti contrapposti come armi, come scudi, a quelli sinistri
di scomparsa e morte, quasi a dire: voi li avete uccisi, ma noi vi negheremo
per sempre l'oscena concretezza di calare la pietra tombale che significa
la realtà, la verità alla morte. Un funambolismo, all'apparenza. Eppure
nello scacco accanito in cui le Madri di Plaza de Mayo tengono il reale
si gioca la lotta politica forse più radicale e duratura di questi ultimi
decenni. Rifiutandosi di concedere al potere l'ultima parola - quella
parola che normalizza l'orrore e sotterra i corpi - rifiutando di spegnere
il proprio grido nell'elaborazione del lutto, le Madri agiscono un ribaltamento
della realtà e una straordinaria effrazione di senso che si fa invenzione
simbolica. Un equilibrio lancinante, in bilico tra la negazione tragica
della morte e l'affermazione coraggiosa, persino gioiosa, spavalda, della
vita. Nel libro Non un passo indietro! presentato giovedì alla Libreria
delle donne (autoprodotto grazie al sostegno di Ottavia Piccolo, giacché
nessun editore ha accettato di pubblicarlo nell'edizione italiana) si
trovano molti racconti di grandi e piccoli rovesciamenti del reale. "Tutti
i giovedì, quando andavamo in piazza, ci imprigionavano. Allora decidemmo
che se avessero imprigionato una di noi, avrebbero dovuto imprigionarci
tutte. Non erano loro che ci arrestavano, eravamo noi che ci consegnavamo:
anche per questo ci chiamavano las locas, le pazze."
Da donne comuni,
da casalinghe mute calpestate dalle circostanze, le madri dei desaparecidos
sono diventate interpreti e protagoniste degli eventi, rendendosi inafferrabili
al nemico con continui spiazzamenti simbolici e ribaltamenti di senso
spesso ironici, provocatori, talvolta addirittura surreali. Ed è proprio
sulle invenzioni simboliche e sulla pratica di questo movimento che si
è incentrato l'incontro milanese coordinato da Luisa Muraro, volto a comprendere
come il cammino intellettuale e umano di Hebe e delle altre Madri si sia
sgranato facendosi elaborazione politica, e come questa esperienza possa
parlare alla politica delle donne.
La narrazione ha inizio dall'affannosa ricerca individuale dei figli scomparsi;
dalle ingenue richieste di aiuto rivolte alla chiesa, ai commissariati,
ai partiti; dalle risposte evasive, sprezzanti, ipocrite. Fino a quando
le Madri si resero conto che era inutile chiedere dove fossero i propri
figli, e cominciarono a interrogare se stesse su chi fossero quei figli
che tanto avevano fatto paura al potere, e ne assunsero nuovamente la
nascita, questa volta in senso ideale. "C'è voluto del tempo" racconta
Hebe de Bonafini "ma quello che è successo davvero è che siamo state partorite
dai nostri figli. E' stato in seguito alla loro scomparsa che sono nate
le Madri di Plaza de Mayo. A un certo punto abbiamo sentito che la ricerca
individuale non portava a nulla e abbiamo iniziato a socializzare la maternità,
a farci madri di tutti i desaparecidos, anche di quelli che non avevano
nessuno a protestare per la loro scomparsa. E' stato un passo che ci ha
dato molta forza, molto potere. Le donne non tengono sufficientemente
conto della forza che c'è nella maternità, eppure la madre è la sola persona
che nella propria vita può essere due, tre, quattro, a seconda di quanti
figli mette al mondo. E quando una donna decide di essere per sempre incinta
del proprio figlio e di socializzare la maternità, ha una forza impressionante,
e un grande potere politico."
Questo pensiero della maternità - nell'estensione data dalle Madres di
un sentire che annulla la differenza tra i figli partoriti dal ventre
e quelli partoriti dal cuore - individua un protagonismo femminile che
rimette in gioco la critica femminista della maternità come ruolo patriarcale
assegnato alle donne. La maternità diventa invenzione politica sovversiva.
E diventa ancora più inafferrabile al potere quando si fa rivendicazione
di un mettere al mondo agito nella negazione della morte, nell'affermazione
di un potere simbolico di dare vita e di tenere in vita. Nei primi mesi
del suo governo, Raul Alfonsin propose alle madri dei desaparecidos di
riconoscere la morte dei figli tramite l'esumazione e l'accettazione di
un risarcimento economico, mirando al raggiungimento di quella pacificazione
sociale che avrebbe portato alla famigerata legge del Punto Finale: un
tentativo di chiudere i conti con il passato, lasciando impuniti i colpevoli.
"Per noi madri fu necessario riunirsi a piangere e disperarci" racconta
Hebe "ma fu necessario anche prendere la decisione di rifiutare le esumazioni,
perché dichiarare morti i nostri figli senza che nessuno ci dicesse chi
aveva eseguito i sequestri, chi ne aveva ordinato l'uccisione, sarebbe
stato come assassinarli una seconda volta. Abbiamo discusso molto, ma
una cosa ci è apparsa subito certa: non avremmo permesso a nessuno di
dare un prezzo alla loro vita. E' ripugnante pensare che la vita possa
valere denaro. La vita vale vita. Noi abbiamo imparato questo dai nostri
figli: la vita vale solo quando la si mette al servizio di un altro, quando
la si dà a un altro, con generosità, senza aspettarsi niente in cambio.
Sentendo che siamo per sempre incinta dei nostri figli, diamo loro vita
permanentemente, con quello che diciamo, con quello che facciamo. Noi
siamo madri di figli rivoluzionari, e continuiamo la loro lotta."
Ma le Madri di Plaza de Mayo, secondo Luisa Muraro, non sono rivoluzionarie
perché madri di rivoluzionari: lo sono per quello che esse stesse hanno
inventato. Grazie ai loro figli, che avevano un'idea convenzionale della
rivoluzione, hanno scoperto un senso rivoluzionario della maternità. "Indipendentemente
dalle cose estreme, dalla morte" dice Muraro " una donna è due, è tre:
è sua madre, è i suoi figli, e soprattutto è le sue figlie. Hebe ha dato
elementi di linguaggio desunti dalla maternità, soprattutto quando ha
detto che 'possiamo allattare in tante maniere'. Questa affermazione ricorda
il linguaggio teorico di Melanie Klein, che usa il linguaggio della maternità.
Altra indicazione data da Hebe è il grande gesto rivoluzionario di fare
per gli altri e non per sé. La madre, quando fa per suo figlio, fa anche
per sé, e questo è il punto di forza delle Madres: non puro altruismo,
ma un fare per sé che è anche fare per l'altro."
Questo sentire dentro di sé i propri figli, questo accoglierli al riparo
del corpo, questo farsi madri di tutti i desaparecidos e poi per estensione
di tutti coloro che si trovano in stato di debolezza, implica una sorta
di agire politico vicino alla cura e alla tutela materna? Hebe non ama
fare teoria. Ha un suo criterio di realtà che, come una bussola, la riporta
ogni volta alla necessità di intervenire su ciò che può essere cambiato.
Risponde parlando dei bambini abbandonati, che nessuno deve più chiamare
'bambini di strada'. "Perché sono i nostri bambini, sono i nostri figli
che mangiano nella spazzatura. In questi ultimi anni sono molto più preoccupata
per l'infanzia violata in Argentina, per i bambini che vivono e muoiono
per le strade drogandosi, prostituendosi, che non per la condanna degli
assassini. Quando vedo queste cose, prima sento dolore, e poi penso. Il
sentire si converte in un atto politico quando si pensa. Credo che anche
gli uomini sentano dolore per i bambini di strada, ma io lo sento come
donna, come madre. Penso a quanto debbano soffrire le madri di questi
bambini. Provo una confusione di sentimenti che alla fine si converte
in azione politica, come madre, come donna, come organizzazione."
Hebe e Mercedes spiegano che non vogliono lapidi con i nomi dei loro figli,
che non servono monumenti dedicati ai morti, ma luoghi di vita, luoghi
dove ricreare la cultura della vita, dove dare continuità al percorso
intellettuale e alla volontà di lotta dei figli. Per questo il 6 aprile
dell'anno scorso hanno fondato - loro dicono 'partorito' - l'Università
Popolare delle Madres di Plaza de Mayo, che prevede tre materie obbligatorie:
educazione popolare, formazione politica e lotta delle Madri. Dai duecento
iscritti iniziali si è arrivati ai milletrecento di oggi e, anche se mancano
i computer e le attrezzature, ci sono docenti che vengono da tutte le
parti del mondo a tenere corsi gratuiti. Ma studiare la loro lotta e apprenderne
la pratica politica non vuol dire diventare Madres. "Il movimento è solo
delle Madri di Plaza de Mayo" sorride Hebe. "Alcuni pensano che si possa
aprire una porta dell'università e uscire dall'altra essendo Madres, ma
non è così. Le nostre non sono riunioni filosofiche. Mischiamo tutto.
Cuciniamo, vagliamo un documento, ci informiamo sulla salute dei nipoti.
Tutto il mondo ci studia: antropologi, sociologi, psicologi, teologi.
Tutti vogliono sapere che cosa abbiamo dentro. La risposta è che abbiamo
dentro la forza di ventiquattro anni di lotta. Da ventiquattro anni non
abbiamo mai mancato un solo giovedì in piazza, e ogni giovedì è l'unico
e il migliore. Normalmente le persone si stancano, ma noi, tutte le settimane,
ci prepariamo per il giovedì successivo. Marciamo mezz'ora e poi facciamo
la nostra denuncia. In questo stesso momento, a Buenos Aires, Juanita
sta cominciando il suo discorso."
La centralità del giovedì in piazza sembra confermare uno tra i convincimenti
più profondi a cui è approdato il pensiero della politica delle donne:
che il frutto politico di una pratica viene dal mantenervisi fedeli fino
in fondo.
"La nostra è una pratica politica che va perseguita con grande fede e
con grande coerenza" dice Hebe, "molto radicalizzata, di molto amore e
molto chiara."
"Ma il nostro impegno non si esaurisce con i giovedì" puntualizza Mercedes.
"Ogni volta che qualcuno ci chiama, ogni volta che viene liberato un torturatore,
anche nel cuore della notte, noi che abbiamo tra i settanta e i novant'anni,
andiamo davanti alle carceri, davanti alle case degli assassini. Abbiamo
inventato una nostra forma di giustizia: il giudizio popolare in piazza,
con testimoni, giudici e avvocati, per condannare politicamente e pubblicamente
gli assassini, i torturatori, i generali, i colonnelli. E abbiamo inventato
anche un'altra forma di giustizia: andiamo davanti alle case degli assassini
a suonare i campanelli, a scrivere sui muri. Non li lasciamo in pace.
Mai."
Nei loro ventiquattro anni di lotta, le Madri di Plaza de Mayo, insignite
del Premio Sacharov per la pace e candidate nel 2000 al Nobel per la pace
da Günter Grass e da Josè Saramago, hanno dato una prova di forza anche
con la costanza del linguaggio. Hanno mantenuto una grande ironia, delle
invenzioni linguistiche, degli slogan che le contraddistinguono: quello
che Marcos chiama un codice linguistico sovversivo. Alla domanda conclusiva
sulla cifra dell'elemento poetico e creativo del loro linguaggio, Hebe
de Bonafini dà una risposta lapidaria: "Credo che le parole d'ordine delle
Madres siano di per sé un elemento poetico e creativo. 'Ricomparsa in
vita'. 'Non un passo indietro'. 'L'unica lotta che si perde è quella che
si abbandona'. 'Siamo incinte per sempre dei nostri figli'. 'Il governo
paga il debito estero con delle vite'. E' tutta poesia politica."
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