Genova
e New York
Marina
Di Bartolomeo
Genova
e New York: torniamo a scuola dopo pochi mesi, noi insegnanti
e i nostri ragazzi e ragazze, e niente è più come prima.
Si
è aperta una faglia, una linea di frattura, che fa sentire
lontanissimi i gesti e le parole che ci si scambiava fino
a poco tempo fa, che sta facendo rapidamente invecchiare schemi
di pensiero, giudizi, abitudini (penso, per fare un solo esempio,
alla nostra "scoperta" di un universo giovanile assai meno
indifferente alla politica di quel che si dicesse).
Si
può fare finta di nulla, è vero.
Però
si è aperta, questa linea di frattura che chiede - se non
vogliamo restare opacamente sommersi dagli eventi - un altro
sguardo sul mondo.
Genova e New York: non due episodi isolati, reciprocamente
estranei, come può suggerire la cronaca giornalistica, prima
ridondante di informazioni e commenti sul G8, oggi sul massacro
americano. E pronta a gettarsi, domani (se la guerra non dilagherà
a macchia dolio), su qualche altra notizia più fresca.
Dove sta il filo che lega insieme queste due vicende di un'estate
inaudita?
Nel rischio incombente di una riduzione delle aree di libertà,
in primo luogo: la guerra nei carrugi genovesi contro il movimento
e la guerra che è arrivata in Afganistan con le bombe americane
spingono, come ogni guerra, allazzeramento di pensieri e pratiche
divergenti e al controllo (poliziesco ma anche ideologico)
sui corpi e sulle menti. Con noi o contro di noi, dice Bush:
è in gioco la civiltà contro la barbarie, lordine contro il
disordine, la democrazia occidentale contro il terrore islamico.
Con noi o contro di noi, hanno detto i governanti dopo Genova,
chiamando a schierarsi con la legalità delle istituzioni contro
lillegalità dei violenti e dei loro fiancheggiatori. A la
guerre comme à la guerre. Ogni dubbio, ogni distinguo, è complicità
con il nemico. Chiuso il discorso.
Ma
non si chiude, invece. Sul crinale di quest'epoca terribile,
Genova e New York indicano unaltra via. Una via non solo possibile
ma necessaria.
La globalizzazione capitalistica, che apre le frontiere e
travalica i confini nazionali - mettendo in circolazione denaro,
merci, tecnologie - si nutre di altre nuove, e spesso invisibili,
frontiere edificate a difesa del privilegio. Tutto il globo
è traversato da una rete di confini materiali ed immateriali,
che separano variamente il Nord dal resto del mondo e scompongono
il Nord stesso in un paesaggio irregolare, dove i ghetti della
disperazione urbana e dellesclusione stanno fianco a fianco
con grigi quartieri dormitorio e questi ultimi coesistono
con le sedi scintillanti dell'iperconsumo, mentre separato,
isolato, inattaccabile svetta su tutto il sovramondo delle
residenze da cui dominano le élites nazionali e transnazionali.
Di
questo spazio gerarchizzato Genova è stato per qualche settimana
una sorta di microlaboratorio: ecco così la difesissima zona
rossa, poi i quartieri circostanti e più oltre la terra di
nessuno, abbandonata al "contagio" e al disordine totale...
Ritorna lo scenario medievale delle città appestate, ha detto
Agamben su il manifesto: lo spazio mondiale e lo spazio urbano
vengono divisi "dagli strateghi del potere in fasce di turbolenza
graduata, in cui a zone di sicurezza assoluta, in cui non
sono possibili guerre di nessun tipo, seguono zone - cuscinetto
in cui il disordine può spingersi fino a un certo limite e
poi terre di nessuno in cui tutto può avvenire".
Genova come un pezzetto di mondo, allora, che ha provato sulla
sua pelle i nuovi dispositivi spaziali del potere nella concitazione
di poche settimane - e quindi con unevidenza insostenibile.
Ebbene,
io credo che (pur pagando prezzi altissimi: Carlo non tornerà
più; tanti ragazzi e ragazze hanno vissuto, sulle piazze e
nelle caserme, una drammatica iniziazione alla politica) questa
costruzione imperiale dello spazio a Genova abbia mostrato
la corda. La sacra rappresentazione dei Grandi è fallita,
proprio in quanto è rimasta incontaminata, distaccata, dalla
vita (e dalla morte) che scorrevano invece nelle piazze. Nel
loro grottesco isolamento, i Grandi sono sembrati pallidi
e sfocati, e ora forse si ritireranno nelle nevi o nei deserti
per i prossimi incontri, in territori sempre più separati
morti, come si conviene a un potere che è poi maschera del
vero potere, quello meno appariscente del capitale mondiale.
Violare
o non violare la zona rossa non era importante, da questo
punto di vista; lo è stata l'esistenza in sé di quella moltitudine
multiforme e vitale che, nel suo esserci, ha tolto legittimità
ai potenti della terra. Sarà ingiustificato ottimismo, ma
io penso che almeno per un attimo persino molti di quelli
che seguivano da casa le notizie genovesi siano stati fulminati
dal contrasto fra il livido arroccamento dei G8 nella loro
cittadella fortificata e la passione che dilagava nelle piazze.
Anche tiepidi spettatori, intendo, non solo chi si sentiva
comunque vicino al movimento. Poi tutto si è confuso: ossessivamente
i media hanno esibito le immagini di sassi, estintori, sangue
e black bloc facinorosi, per rinchiudere il movimento nellangolo
buio della violenza. Ma, almeno per un attimo, questo è stato
visto. Il velo si è squarciato.
Se
Genova ha messo a nudo la violenza dei confini, New York ne
ha dimostrato nel modo più orribile l'impossibilità. Dall'11
settembre, ogni zona del mondo è una potenziale zona di guerra:
una guerra intermittente, molecolare, senza preavviso; che
arriva mentre si fa la spesa, si va al lavoro, si chiacchiera
con un'amica
Non è una novità, questa. Per molti popoli nel Sud del mondo,
per i ghetti urbani nel Nord, è da anni esperienza quotidiana.
La novità è che, da oggi, non ci sono più zone di protezione
assoluta; non ci sono muri o frontiere che possano impedire
il riversarsi nel cuore stesso dellImpero di un terrore alimentato
dallingiustizia infinita che patiscono le sue periferie. La
novità allora è che, nel mondo globale, la sicurezza diventa
un bene indivisibile: non c'è salvaguardia, nemmeno per noi
abitanti del "cerchio magico del privilegio" (Marco Revelli,
Oltre il Novecento), se si lasciano gli altri nelloffesa e
nell'umiliazione. La giustizia, mai come oggi, è affare di
tutti e di tutte, non solo slancio ideale ma concreta necessità
di autoconservazione. Qui e ora, in questo presente minacciato
da catastrofe - non in un futuro che già ci siamo rassegnati
ad immaginare accorciato, tanto da non osare spingere lo sguardo
oltre la generazione dei figli o dei nipoti.
"Ci
siamo risvegliati più fragili e depressi", pare abbia detto
dopo l'11 settembre lo speaker di una radio americana. Questo
sentimento di fragilità è un buon sentimento, mi pare; un
sentimento realistico, umano, che se ascoltato, accolto in
sé può fare da argine al delirio di onnipotenza che governa
la logica militare. Un sentimento "femminile", che non è debolezza
ma che, insinuando un'incrinatura nella corazza del virilismo,
può rivelare a chi lo accoglie la nostra vulnerabilità di
uomini e donne in carne e ossa, la nostra non autosufficienza,
il bisogno che abbiamo di legami sociali.
La
rappresaglia USA, del tutto specularmente al terrorismo che
dice di combattere, sta invece in un ordine simbolico maschile
che, negando per paura la fragilità della condizione umana,
schiaccia la vita sotto cultura autistica della morte e della
devastazione. Oggi i maschi strateghi del potere, attraverso
una guerra destinata ad aprire nuove ferite nel mondo, lavorano
a creare altri cento, mille, kamikaze. E chiamano realismo
politico questa patologica perdita di contatto con la realtà.
Il linguaggio delle armi è perdente. Si può fare dell'Afganistan
un deserto, ma non c'è difesa contro un terrore che si muove
a suo agio nello spazio compresso della globalità, ne sfrutta
i canali e la tecnologia, si mimetizza nell'anonimità delle
metropoli - e può colpire dovunque. Ma riconoscere che non
c'è salvezza per via militare dà unoccasione unica per proporre
una fuoriuscita dal pensiero armato, riaprendo più in grande
il discorso della politica, come luogo di incontro, pratica
di relazioni, costruzione di socialità. E qui di nuovo ritorna
Genova (il movimento di Genova, di Seattle, di Porto Alegre)
che, sull'orlo delle macerie newyorchesi, mostra la fertilità
di un fare politica oltre la novecentesca forma partito, oltre
gli apparati e le organizzazioni, dando vita a una "socialità
darcipelago, che connette senza fondere, senza tagliare radici,
uniformare linguaggi" (ancora Revelli). Un reticolo di gruppi
eterogenei, disseminati sul territorio, segnati da storie
e percorsi differenti; affine (forse debitore) al movimento
delle donne - il cui agire fa leva sulla soggettività e sulle
relazioni, sul desiderio di cambiare il mondo cambiandosi,
sperimentando la politica come un esserci, come un'esperienza
vitale e non una tecnica -: se il "movimento dei movimenti"
conserva questa pluralità irrappresentabile, senza frammentarsi
o cadere nelle tentazioni della gerarchia, la sua forza espansiva,
la sua capacità di generare altre esperienze e di moltiplicare
i luoghi dincontro possono condurre a esiti incalcolabili.
Dicevo
all'inizio: siamo tornati a scuola dopo una pausa di due mesi,
e siamo in un'altra epoca. Eppure, in un certo senso, tutto
è terribilmente uguale. Io provo un senso di straniamento
a maneggiare registri e manuali come se nulla fosse, però
lo faccio lo stesso. Nei discorsi di corridoio la guerra compare
di sfuggita. Nelle vetrate della sala docenti, affollate l'anno
scorso di volantini e articoli di giornale, ora ci si può
specchiare, da quanto sono vuote. Sabato 22 settembre c'è
stata una manifestazione a Firenze: qualche studente c'è andato,
la maggior parte ha scelto di entrare in classe, per molti
altri è stata una splendida occasione di forca. Una collega
ha commentato seccata: "Si comincia presto, con le assenze".
Viene
il sospetto che questi tempi non siano poi così straordinari.
Ma
forse, quando si è di fronte all'insostenibile, si è portati
ad abbassare gli occhi, a ritrarsi nei piccoli gesti quotidiani,
a tacere. E, forse, la nascente politica dell'esserci può
aiutare questo silenzio a trovare parole.
Marina
Di Bartolomeo
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