SOTTOSOPRA
GENNAIO 1996
E'
ACCADUTO NON PER CASO il
patriarcato è finito - il simbolico che ride - uomini
- l'universale come mediazione - fino
a quando?- un discorso poco plausibile ma urgente
- al posto dell'io/noi/loro - il luogo
della libertà -"yo no soy para más de parlar" - è
accaduto
il patriarcato è finito Il
patriarcato è finito, non ha più il credito femminile ed è finito. E' durato tanto
quanto la sua capacità di significare qualcosa per la mente femminile. Adesso
che l'ha perduta, ci accorgiamo che senza non può durare. Non si trattava, da
parte femminile, di un essere d'accordo. Troppe cose furono decise senza e contro
di lei, leggi, dogmi, regimi proprietari, usanze, gerarchie, riti, programmi scolastici...
Era, piuttosto, un fare di necessità virtù. Che però adesso non si fa più, adesso
è un altro tempo e un'altra storia, tanto che le cose decise senza e contro di
lei, si sono messe a deperire, come se avessero sempre obbedito a lei. Che strano!
Ma, forse, per i rapporti di dominio vale quello che vale per l'amore, che bisogna
essere in due? Adesso lei non ci sta più, non è più la stessa: è cambiata, come
si dice. Ma non dice abbastanza. Non si tratta infatti di un cambiamento qualsiasi.
C'è oggi un essere al mondo - di donne, ma non esclusivamente - che fa vedere
e dire, senza tanti giri o ragionamenti, che il patriarcato è arrivato alla fine;
è un essere al mondo essendo disponibili alla modificazione di sé in un rapporto
di scambio che non lascia niente fuori gioco. Potremmo chiamarla leggerezza. Oppure,
libertà femminile, perché, al suo confronto, i vantaggi del dominio patriarcale
spariscono, agli occhi di lei e di lui. Simili vantaggi esistono, per esempio
l'identità: il dominio offre identità a chi lo esercita ma anche a chi lo subisce,
e molta servitù si perpetua proprio per il bisogno di identità. Il patriarcato
che non fa più ordine nella mente femminile, deperisce principalmente come dominio
datore di identità. Lei, ormai, non gli appartiene più; il resto seguirà, e già
segue, a un ritmo che scombussola e che molti, che magari si credono più intelligenti,
neanche afferrano. Si potrebbe obiettare: se quello che dite è vero, com'è
che non è evidente a tutti? Una cosa talmente grande, se è vera, dovrebbe essere
evidente. Lo è, infatti, ma per essere vista domanda l'impegno di una presa di
coscienza. Lo è ogni giorno di più. Fino a un anno fa si poteva ancora credere
che si trattasse di un cambiamento culturale e limitato al mondo industrializzato
ricco. Con la Conferenza del Cairo (1994), con il Forum di Huairou e la concomitante
Conferenza di Pechino (1995), è diventato chiaro che la fine del patriarcato sta
coinvolgendo tutti i paesi del mondo, un mondo attraversato, quasi di colpo e
insieme, da enormi cambiamenti, fra i quali c'è anche la fine del patriarcato.
Vuol dire che è finito, o comincia a finire, il controllo del corpo femminile
fecondo e dei suoi frutti, da parte dell'altro sesso. Hanno contribuito a questo
esito lo sviluppo economico, che ha sciolto molti vincoli di dipendenza familiare,
e la medicina, con la riduzione della mortallità infantile e i metodi anticoncezionali,
per quanto grossolani e criticabili. Ma il progresso economico e scientifico di
suo non avrebbe significato libertà se non fosse stato accompagnato dalla presa
di coscienza femminile e, cosa più importante, non fosse stato preceduto e quasi
anticipato dall'amore femminile della libertà. Quando gli esperti e i responsabili
dei problemi demografici si sono decisi ad interrogare le donne, che cosa hanno
scoperto? Che c'è una diffusa (e disattesa) domanda femminile di cultura e di
aiuti per poter abitare liberamente il proprio corpo fecondo. Tanti soldi sono
stati spesi in campagne demografiche talvolta poco rispettose della dignità umana
(come dare soldi a chi si faceva sterilizzare), che potevano essere impiegati
meglio andando incontro alla domanda femminile di autonomia fisiologica. Per
il Forum di Huairou, che riuniva le organizzazioni femminili non governative,
si è parlato di un "nuovo femminismo". L'espressione è giusta per la vasta rete
di rapporti internazionali e intercontinentali, che in verità esisteva dagli inizi
del femminismo ma che a Huairou (e, ancor prima, al Cairo) ha mostrato una migliore
capacità di oltrepassare contrapposizioni e fossati di una storia prevalentemente
maschile, come quella fra paesi ex-colonizzatori e paesi ex-colonizzati. Sarebbe
invece sbagliato parlare di nuovo femminismo per la volontà di rafforzare la presenza
di donne nel governo del mondo non in nome della parità con l'uomo, ma in nome
della differenza femminile. L'atteggiamento femminista non è mai stato rivolto
unicamente (né principalmente, per quel che riguarda l'Italia) al confronto con
la condizione maschile, ma al senso libero della differenza femminile, che è stato
conquistato, passo passo, non con lo strumento legislativo, ma con la pratica
di relazione fra donne. Chi vuole documentarsi, legga gli
scritti dell'italiana Carla Lonzi (1931-1982) e Le tre ghinee (1938) di Virginia
Woolf. L'impegno di dare un senso originale, libero, alla differenza di essere
donne, va detto che è più antico dei progressi scientifici, più del femminismo
e più della rivoluzione borghese. Come non c'è soluzione di continuità fra Huairou-Pechino
e gli scritti di Carla Lonzi o Il secondo sesso (1949) di Simone de Beauvoir o
Susan B. Anthony (1820-1906), soprannominata da Gertrude Stein "la madre di tutte
e tutti noi" (The Mother of Us All), così c'è continuità anche con le Preziose
del Sei-Settecento, con le Beghine del sec.XIII, con Ipazia d'Alessandria, la
filosofa martire della convivenza fra cristianesimo ed ellenismo, trucidata nel
415 d.C. da cristiani fanatici. Le
donne di oggi sono le eredi di un antico amore femminile della libertà, che qui
evochiamo seguendo il filo rosso di una storia solo occidentale perché la conosciamo
meglio, essendo la nostra. Ma l'autonomia di cui hanno dato prova donne di altre
civiltà al Cairo e a Pechino - ricordiamone almeno una, la tanzaniana Gertrude
Mongella, presidente della Conferenza di Pechino - mostra che la presa di coscienza
femminile ha genealogie antiche ed eredità preziose anche nel vasto mondo fuori
dall'Occidente. Da Pechino come da Huairou sono arrivati fino a noi, attraverso
i mass-media, i linguaggi della denuncia, della rivendicazione e del lamento,
tipici di chi indossa le svariate identità offerte dal dominio: quella di vittima,
di difensora delle vittime, di rivendicatrice dei diritti universali. Ma in mezzo
a questa mezza babele (che ritroveremo nei documenti conclusivi) e quasi non disturbata
da essa, si è udita la voce di un avvenimento straordinario, di quelli che marcano
la storia umana. Voce parlante una lingua comune, una lingua universale, poco
anzi niente debitrice al presunto universalismo dei diritti (di fatto, un'invenzione
dell'Occidente), e molto invece al primato praticamente dato alla relazione fra
donne. E' un cambiamento la cui profondità domanderà tempo per essere misurata
e forse ci farà paura. "La donna non ha di che ridere quando crolla l'ordine simbolico",
scrisse la filosofa Julia Kristeva nel 1974, consapevole che i crolli - pensiamo
al muro di Berlino - spesso fanno nascere più problemi di quelli che risolvono.
Noi abbiamo voglia di ridere lo stesso, ma ci domandiamo: e adesso? che cosa capiterà
al mondo e a noi stesse adesso che le vite femminili e i rapporti con gli uomini
non sono più o saranno sempre meno regolati dal simbolico patriarcale? Per
cominciare a saperlo, guardiamo al nostro presente e al nostro tipo di società.
Nell'arco degli ultimi venti-trent'anni, le esistenze femminili hanno smesso di
essere un destino, di essere cioè prescritte dalla fisiologia in risposta ad esigenze
altrui, e sono diventate imprese nelle mani delle interessate. Oggi, nel nostro
tipo di società, una donna è chiamata a decidere dei suoi studi, del suo lavoro,
dei suoi amori, della sua fertilità, dei suoi compiti sociali. La risposta femminile
a questa "chiamata" è ancora poco interrogata nella sua complessità (ma un libro
lo possiamo citare, Comporre una vita (1989) della statunitense Mary Catherine
Bateson) e nella sua straordinaria novità storica. Nondimeno, questa risposta
la vediamo spiccare in alcuni dati statistici relativi al lavoro e alla natalità,
dati impressionanti per quel che riguarda l'Italia. (L'Italia, a livello non diciamo
mondiale ma europeo, è un paese minore, e tuttavia è stata e rimane un paese politicamente
singolare, quasi un laboratorio, come anche qui si conferma.) Secondo dati largamente
pubblicizzati, risulta che le donne italiane siano, complessivamente, le meno
prolifiche e le più laboriose del mondo intero. I due dati non vanno separati
fra loro e andrebbero accompagnati con altri ancora, come quello dell'alta scolarizzazione
femminile o quello dell'allungarsi della vita. In effetti, quanti bambini abbiamo
rinunciato a mettere al mondo per salvaguardare la nostra autonomia senza pesare
troppo sulle forze delle nostre madri o suocere? O per avere noi stesse le forze
richieste dall'accudimento di persone anziane o invalide? I dati in questione
non vanno disgiunti, inoltre, dalla considerazione di una differenza femminile,
e cioè che una donna sul mercato del lavoro non si consegna tutta alla misura
dei soldi, del potere o del successo con relativa competizione, ma la commisura
alle gratificazioni offerte dalla qualità del lavoro, dall'amicizia con le colleghe,
dall'amore, dai figli... Quando, nell'estate 1995, l'Onu ha divulgato i risultati
dell'indagine mondiale sul lavoro e si è scoperto che, in una popolazione femminile
in assoluto più laboriosa di quella maschile, le italiane sono le donne più laboriose,
in casa e fuori casa, si è avuto la conferma più clamorosa di qualcosa che si
poteva osservare anche a occhio nudo, e cioè il segno marcatamente femminile che
va prendendo la nostra società - femminile, non materno, sebbene, certo, molte
donne siano anche madri e tutte abbiano una madre. Ci ha colpito anche un
altro fatto: la povertà dei commenti. Sulla stampa di sinistra si è parlato di
supersfruttamento e di mancanza di servizi sociali, seguendo uno schema che è
vecchio di almeno quarant'anni e che occulta il fatto dei guadagni femminili resi
possibili da strategie precise, volte ad accordare presenza nella vita pubblica,
autonomia personale e qualità generale della vita. Bisogna dire che la cultura
politica di sinistra, da questo punto di vista, è rimasta, come si dice, indietro.
Non riesce infatti a registrare la "rivoluzione femminile" che sta cambiando la
società nei suoi più elementari modi di essere. Nell'agosto di quest'anno (1995),
sul quotidiano L'Unità è apparsa la lettera di una giovane donna che diceva, in
breve: che se ne fa di me, della mia presa di coscienza femminista, un uomo, il
mio compagno, chiuso com'è alla ricchezza che io ho da mettere in gioco? Al che
il titolare della rubrica, uno psicologo, le rispose: primo, la vostra costituzione
fisiologica vi predispone, meglio dei maschi, all'introspezione; secondo, non
dovete aspettarvi che un uomo, perché di sinistra, sia migliore del comune dei
suoi simili. No di sicuro davanti a una simile risposta, così sorda ai segni del
divario crescente fra donne e uomini, così chiusa al senso della differenza femminile
e al suo di più. Che non è fisiologico, come mostra di pensare lo psicologo, ma
storico, politico, sebbene, certo, la cultura femminista non separi la storia
o la politica dalla fisiologia. E anche questa non separazione, guadagnata praticando
una politica non separata dalla vita, costituisce un di più femminile che aspetta
giocatori all'altezza. Forse è mancata, alla sinistra, la mediazione di donne
autorevoli. Lo confermerebbe il fatto che, tra tutti i partiti, solo il segretario
del maggiore partito di sinistra abbia aperto trattative con i fautori della repressione
penale dell'aborto. Non sarebbe successo ai tempi delle Adriane Seroni, delle
Nives Gessi, delle Nilde Iotti, delle Terese Noce. Ma forse è sbagliato farne
una questione di persone, forse si tratta del significato stesso di sinistra/destra,
nel senso che, con il venir meno della differenza comunista, sinistra/destra tende
a diventare una differenza funzionale alla democrazia rappresentativa. E' certo,
comunque, che l'opposizione destra/sinistra sta perdendo di senso per quel che
riguarda la politica delle donne, e quindi, alla lunga, la politica, perché sempre
più la politica è la politica delle donne. Torna
su
il simbolico che ride Quando
scriviamo "fine del patriarcato" o "la politica è la politica delle donne", lo
facciamo con la certezza d'avere trovato due nomi giusti per la realtà che cambia.
Ma siamo anche consapevoli che questi nomi, in sé chiari (troppo?), suonano strani
ai più, donne comprese. C'entra un difetto di ascolto e di comprensione da parte
delle persone (una volta si chiamavano intellettuali) che più sarebbero chiamate
a leggere la realtà che cambia. Il risultato è un certo disordine simbolico (potremmo
anche chiamarla ottusità), esemplificato dalla risposta dello psicologo al problema
posto lucidamente dalla giovane donna. Il difetto di ascolto e comprensione è
pari alla presente difficoltà di leggere una realtà che sta cambiando, tutta e
velocemente: molti hanno creduto che bastasse disfarsi delle ideologie per ridiventare
intelligenti, ormai è chiaro che no. Ma non si tratta solo di intelligenza.
Ai dati Onu sul superlavoro delle italiane, alcuni hanno risposto: Allora, fatevi
avanti e prendete potere. Questa risposta, più sensata dei discorsi sul supersfruttamento,
mostra a sua volta una notevole incomprensione del cambiamento in corso. Si pretende
ricondurre al "più potere" il significato della più forte presenza femminile nella
vita sociale; la voglia di potere viene assunta come universale e significativa
per tutti. Il che non è vero per molte donne ed anche per un certo numero di uomini,
ma la circostanza sembra ininfluente per i sostenitori di questo unilaterale punto
di vista: per loro il linguaggio del potere dovrebbe diventare obbligatorio, come
saper parlare inglese. Non ne fanno una questione di eccellenza ma di "comodità",
di "praticità", di intendersi, insomma. E' una violenza insidiosa, perché quotidiana
e distruttiva della differenza, alla sua radice, che è la possibilità di significare
e significarsi. La distruttività del linguaggio del potere con la sua pretesa
di universalità, convenzionale ma obbligatoria, si esercita in pieno nei luoghi
dove esso è, effettivamente, il linguaggio dominante. La piccola sindacalista
che fa il suo lavoro ascoltando operaie e operai, incoraggiandoli a prendere la
parola, dando loro l'esempio di un parlare diretto, a partire da sé, dalla propria
esperienza, può farlo finché corre di fabbrica in fabbrica con la sua automobilina.
Ma quando questo modo di fare che è un modo di essere, lo fa valere in Segreteria,
allora lì le viene richiesto di farsi riconoscere: che cosa vuoi dire? sei autoreferenziale;
cos'è questa pratica del partire da sé? la differenza femminile? volete le quote,
possiamo discuterne. No? allora volete essere una nuova "componente". Neanche
questo! Allora cosa siete, suore, assistenti sociali, praticone... O siete una
nuova setta... E così via, in un crescendo di incomprensione che può terminare
con la richiesta delle dimissioni. Stiamo raccontando, come si sarà capito, una
storia vera, ma stiamo anche esponendo un exemplum della grave situazione
di stallo cui è arrivata la nostra società. Così si forma quell'invisibile
tetto di vetro che comprime le migliori energie femminili; la sociologia americana,
che ha inventato questa figura, ne fa una questione di discriminazione antifemminile,
che si può quindi risolvere con una politica antidiscriminatoria. E' un rimedio
illusorio, perché una tale politica serve sì a far passare oltre un certo numero
di donne, ma quello che l'invisibile tetto continua a bloccare è la differenza
femminile, il suo linguaggio, il suo di più, come si ricava agevolmente dall'exemplum.
Da questa situazione di stallo può venire ed effettivamente viene un senso
di minaccia per il desiderio femminile. Sulla fine del patriarcato si allunga
l'ombra di una sofferenza femminile apparentemente ingiustificata, che prende
forme malinconiche, depressive. Sul cielo che sembrava schiarirsi, non si starebbe
alzando il "sole nero" di una inedita tristezza femminile? Nella patologia del
desiderio femminile impedito di parola, alla figura dell'isterica è subentrata
dunque la figura della depressa? Non c'è dubbio che sia così, per chi abbia un
minimo di antenne, sebbene sia comico che la costatazione venga dalle autrici
di un documento politico e non da quelli che si chiamano psico-analisti. Tornano
in mente le parole della Kristeva, "la donna non ha di che ridere quando crolla
l'ordine simbolico". Le fanno eco le parole di una delegata al Forum di Huairou,
proveniente dalla Croazia: "Il muro di Berlino è caduto addosso alle donne". E'
imparentata con questa amara ma lucida costatazione, quella specie di scoraggiamento
femminile che s'indovina dietro le reticenze, le timidezze, gli adattamenti, l'automoderarsi
di molte? Quanto dipende il desiderio femminile, per la sua vita, dal desiderio
dell'altro? Non abbiamo risposte puntuali; il nostro contributo principale
sono le domande. Abbiamo però la consapevolezza, altrettanto lucida ma allegra,
che a noi è toccato di trovarci in questo incerto passo della storia millenaria.
A noi è toccata la scommessa dei due nomi, "fine del patriarcato" e "la
politica è la politica delle donne". Nominare la realtà che cambia, nominarla
con tanta precisione, è scommettere sul mondo, aprendogli le porte del suo di
più. In altre parole, il simbolico (scommettere è un agire simbolico) vince
sul "sole nero" e libera il desiderio. Perciò abbiamo voglia di ridere. Il simbolico,
cos'è? La lingua che parliamo e la voce che abbiamo per parlare, con la loro mirabile
capacità di rivoluzionare il reale. La lingua e la voce, degli intoppi
fanno pause significative; dei difetti, occasioni per significare meglio; degli
ostacoli, punti di leva; delle mancanze, punti di svolta; degli scacchi, una scala
per salire; delle cadute, approfondimenti. La lingua non è una somma di parole,
come potrebbe sembrare, ma una moltiplicazione e più che una moltiplicazione,
una partita aperta e sporgente sul di più, perché - come sa bene la linguistica
- una parola nuova può rimettere in gioco il significato di tutto il nostro dire
(e vivere) passato. La politica della differenza femminile è una politica
del simbolico. Essa non trae conclusioni dai cosiddetti dati di realtà senza aver
interrogato il loro significato, quello che già hanno ma anche quello che possono
prendere alla luce del mio, tuo desiderio. E non accumula piccoli risultati, ma
del piccolo risultato fa un investimento per guadagnare ancora, cosicché non ci
sono "piccoli" risultati, sono tutti grandi. Sotto il sole nero della depressione
la realtà appare chiusa, finita; restano solo le macchinazioni del potere, per
quelli che le amano. Il simbolico la apre, liberando il desiderio che di suo è
sempre pronto a cogliere le occasioni, anche minime. Il simbolico non è resistenza,
ma rilancio, somiglia più al gioco che al lavoro, ma al gioco delle creature piccole,
leggero e perseverante. Perciò abbiamo lottato contro la tentazione - dentro
ma anche fuori e contro di noi - del lamento e della recriminazione, che fanno
sembrare tutto meschino e ai desideri danno una soddisfazione velenosa e umiliante.
Perciò abbiamo combattuto l'emancipazionismo, che ammetteva un solo tipo di desiderio,
quello maschile, anzi quello più tipicamente maschile, volto all'avere più potere
degli altri e sugli altri (anzi, le altre). E poi, la politica della parità con
il suo corredo di quote e pari opportunità e la loro logica "condominiale" che
non ammetteva rotture, rilanci o capovolgimenti, tutta dentro com'è alle misure
già stabilite. Lo chiamano "realismo", ma una considerazione fine del reale lo
chiama realismo fasullo, in perdita: di motivazioni, di creatività, di
signoria. Lo diciamo sulla base della nostra esperienza. Come scrisse Teresa
d'Avila nel capitolo XVIII del Libro della sua vita, noi qui ci siamo impegnate
a "non dire nulla che non abbiamo lungamente sperimentato". Torna
su
uomini
La fine del patriarcato non è e non sarà una cosa da ridere, certamente. Il patriarcato
non era controllo maschile della sessualità femminile e basta. Era, tutto insieme,
anche una civiltà, anzi una serie di civiltà, con le loro istituzioni, le loro
religioni, i loro codici. Non possiamo, qui, riassumere le analisi prodotte dall'antropologia,
dalla storiografia e dalla sociologia, sia femministe sia prefemministe. Ricordiamo
soltanto che all'ordine simbolico del patriarcato sono riconducibili istituzioni
come i parlamenti, gli Stati, la legge uguale per tutti, i tribunali, gli eserciti,
istituzioni che si considera moderne e che si continua a considerare indispensabili,
sebbene per alcune di esse la crisi sia già all'orizzonte. Purtroppo non ci sono,
a nostra conoscenza, analisi che mettano a fuoco il nesso tra questa crisi già
all'orizzonte e la fine del patriarcato. Su questo punto, bisogna riconoscere
che anche gli studi femministi sono rimasti indietro. Il timore che il patriarcato
trascini nella sua caduta istituzioni ancora indispensabili all'ordine sociale
più elementare, provocando caos o risposte reazionarie o resistenze sbagliate,
è dunque fondato. In bene e in male, la civiltà occidentale - parliamo di questa,
che conosciamo dal suo interno - è largamente debitrice alla sessualità maschile.
Ma la sessualità maschile coincide con il patriarcato? La virilità è minacciata
veramente dalla perdita del dominio sessista e del controllo sulla procreazione?
Questa è, secondo noi, la domanda più importante, oggi, nella nostra civiltà e
quindi anche della politica. Non parliamo più del femminismo che, su questo punto,
ripetiamo, è rimasto indietro, come incantato davanti alla rappresentazione di
un eterno svantaggio femminile. Parliamo invece di politica delle donne, intendendo
pari pari la politica, in quanto sono le donne, oggi, più degli uomini, ad affrontare
i compiti più ardui e le contraddizioni più elementari della società che cambia.
La politica delle donne (e non intendiamo questo o quel gruppo o progetto o sigla
ma l'agire secondo il senso libero della differenza femminile) ha il problema
dei rapporti con gli uomini, non come problema sociologico o psicologico, ma radicalmente,
come domanda sul desiderio, sulla differenza sessuale e sul loro rapporto con
il dominio. Sulla possibilità pratica di liberazione della sessualità maschile
dalle forme del dominio, esiste una ricerca di uomini, anche in Italia. Ricordiamo,
per la qualità e l'anzianità del suo impegno, l'inglese Victor J. Seidler, l'autore
di Riscoprire la mascolinità. Un desiderio maschile non solidale con il
dominio, sappiamo che esiste, perché lo abbiamo incontrato, e perché sappiamo,
dalla nostra stessa storia, che il desiderio, di suo, è potenza anarchica, precedente
ogni storia e ogni appartenenza, anche quella di genere. La nostra scommessa sarà
dunque di entrare in relazione politica anche con uomini, quelli il cui desiderio
non ha (più) debiti con l'ordine patriarcale, quelli la cui virilità si esprime
fuori dalla competizione maschile per il potere e il primato, interpreti di un
senso libero della differenza maschile. E' abbastanza chiaro, ci sembra,
che la differenza maschile è entrata nel nostro discorso non per analogia né per
simmetria con quella femminile. Non c'è, storicamente, simmetria nel rapporto
fra i due sessi. Mirare ad essa, secondo noi, è vano: il rapporto fra i due sessi
sembra destinato a restare asimmetrico, ossia senza specularità (se non illusoria)
e senza reciprocità (se non limitata). La differenza maschile è entrata nel nostro
discorso come una scoperta di cui noi, che l'abbiamo fatta, non sapremmo dire
se prenda vita dal nostro desiderio o se avesse vita di suo. Naturalmente,
questo significa dare all'altro sesso un credito che il femminismo non gli ha
dato. Vi possono essere, a ciò, obiezioni molto sensate. Molte donne hanno scelto
di vivere coltivando rapporti con altre donne e limitando quelli con uomini al
minimo indispensabile; alcune ne hanno fatto una forte scelta politica. Dicono
queste donne: "Le nostre vite sono diventate migliori. Abbiamo più tempo, più
sicurezza, più energie, più libertà. La relazione con altre donne ci ha fatto
diventare più intelligenti e più autonome. Quando ci siamo accorte che gli uomini
ci erano diventati superflui, è stato un bel giorno". Si può dire di più: è nella
relazione donna con donna che si forma il senso libero della differenza femminile,
senza quella ci sarebbe rispecchiamento nell'altro e non potremmo parlare di libertà
femminile. Non è un caso, pensiamo, che la pratica della separazione, la più tipicamente
femminista, sia diventata una pratica sociale diffusa anche fuori dal femminismo,
condivisa da donne sposate o comunque legate a uomini, che però sentono l'esigenza
di vivere momenti separati, tra donne, per capire meglio, per decidere in autonomia
o, semplicemente, per ridere di gusto. Ma le domande non riguardano soltanto
l'altro sesso. Riguardano anche (soprattutto?) la differenza femminile e la sua
effettiva disponibilità a mettersi in gioco, che vuol dire esporsi, significarsi,
farsi valere per sé. Molte preferiscono rivendicare uguaglianza e diritti o parlare
al neutro o assecondare il linguaggio maschile, piuttosto che "mettere fuori"
il più proprio di sé, l'essere donna. C'è molta prevaricazione maschile, certo,
nella storia umana che sembra una storia di soli uomini, ma c'è anche una parte
forse non piccola di resistenza femminile alla significazione della differenza,
come una contrarietà a distaccarsi simbolicamente da sé, a "partire da sé" anche
nel senso della partenza. La contraddizione, dunque, ci riguarda da vicino.
Sappiamo che, a un certo punto, la liberazione delle energie resa possibile dalla
pratica della separazione, si è arrestata. Non ha portato ad una circolazione
crescente del sapere e delle pratiche delle donne nel mondo. C'è stato un ripiegarsi
su una presunta autosufficienza della società femminile. Quella che prima era
una spirale, adesso tende a diventare un cerchio chiuso, con il pericolo di "implosione"
del desiderio femminile. In effetti, un agire come il nostro, che fa leva sul
desiderio, sulle passioni, estraneo e contrario a mettersi in condominio con un
determinato ordine sociale, è fatto per conquistare il mondo. Non gli giova l'opera
di quelle mediatrici che lo piegano alla coerenza forzata con questo o quel discorso
senza mai fare un taglio e una scommessa. Meno ancora gli giova la purezza di
quelle che lo coltivano al chiuso senza esporsi alla significazione e al confronto.
Un mito greco sulle origini del patriarcato - rielaborato da Eschilo nelle
Eumenidi - racconta che Febe, figlia della Terra, la Grande madre, offrì a
Febo (Apollo Febo) come dono natale la parola oracolare, potere che fino allora
era stato trasmesso unicamente da madre a figlia. La donna divina rese partecipe
l'uomo della divinità, così come lo aveva reso partecipe della procreazione quando
gli aveva rivelato che produrre la vita non era un potere esclusivamente femminile.
Col dono di Febe dunque, l'uomo ricevette, oltre alla possibilità di produrre
vita, anche quella di produrre simboli. Ma questa scommessa della preistoria,
le donne l'hanno persa: Apollo prese il dono e lo piegò secondo i suoi interessi.
Da qui, venne la legge del padre. Nelle Eumenidi, il matricida Oreste viene
scagionato perché "non la madre è generatrice di quello che è chiamato suo figlio:
ella è la nutrice del germe in lei seminato". Forti di questa legge, gli uomini
si precipitarono ad erigere dappertutto i loro simboli fallici e stabilirono il
patriarcato. Oggi che questi simboli si stanno sgretolando - l'arte e il cinema
lo mostrano chiaramente - ci sembra il momento giusto per giocare di nuovo questa
scommessa. Torna
su
l'universale come mediazione Circa
dieci anni fa, la filosofa francese Luce Irigaray, cara al femminismo italiano
e nota internazionalmente per la sua filosofia della differenza sessuale, ha avanzato
un'idea preziosa, l'idea che l'universale è mediazione. Che cosa vuol dire?
Che le differenze, le distanze, i conflitti non sono divisioni per chi accetta
di fare il lavoro della mediazione, e che, di mediazione in mediazione, non ci
sono barriere che possano fermare gli scambi, le conoscenze, gli amori, e che
dunque non è necessario né postulare un Uno trascendentale né assolutizzare il
pluralismo. Alle altre, agli altri, all'Altro da noi, fuori e dentro di noi, ci
uniscono gli scambi resi possibili da una relazione mediatrice. Il resto è sopraffazione
o forzatura o confusione, e sofferenza. Possono fare da medium i sensi,
la vicinanza, il lavoro, i numeri, l'amore... e, soprattutto, la lingua e i linguaggi
di ogni tipo. Anche il conflitto, se c'è parola, se non c'è reticenza e inganno,
è una relazione mediatrice che dà vita a scambi proficui. Questo vale nei rapporti
con le nostre, i nostri simili ma anche con il mondo nel suo insieme. Senza mediazioni,
anche il mondo ci diventa estraneo, ostile e, peggio ancora, misero e ristretto.
All'idea dell'universale come mediazione, vorremmo integrarne un'altra che
non si trova in L. Irigaray, ma che si può trovare anticipata in Carla Lonzi,
nel suo scritto più noto, Sputiamo su Hegel (1970), e poi ripresa negli
scritti di "Diotima". La prima formula che daremo di questa idea sarà negativa,
poi mostreremo quello che ha di positivo. Alcune di noi hanno avanzato l'idea
(e le altre si sono dette d'accordo) che non c'è mediazione possibile della
differenza sessuale. Che cosa vuol dire? Non certo che tra una donna e un
uomo in carne ed ossa non possa esserci un medium, come il progetto di
vivere insieme e di avere uno o più figli, o credere nello stesso dio, o collaborare
per uno scopo comune, o passare una vacanza insieme. Ma, quale che sia, il medium
sarà sempre parziale, lascerà sempre fuori qualcosa di essenziale, a causa della
differenza del loro essere donna/uomo. Tutte le differenze, noi diciamo, sono
mediabili, almeno in teoria, che siano di cultura, di carattere, d'interessi,
di età, tranne questa: la differenza sessuale è, come dire, irriducibile, perché
è del corpo nella sua insormontabile opacità. Perciò la risposta della complementarità
fra donna e uomo, è sbagliata; una complementarità può esserci, ma limitatamente.
Detto in altre parole, prese dalla linguistica, la differenza sessuale negli esseri
umani assume tanti significati, secondo le culture e i rapporti, ma alla sua radice
non cessa mai di essere un significante inesauribile. Quando fra una
donna e un uomo che avevano condiviso tante cose, scoppia un contrasto, l'idea
che qui avanziamo diventa, come dire, palpabile: essi si accorgono, sbalorditi,
di avere vissuto insieme due vite differenti. Ma la nostra tesi vuol essere generale.
La differenza sussiste anche quando lei e lui vanno d'amore e d'accordo; anche
in tal caso la loro comunicazione resta lunare, con una faccia sempre in ombra.
Ma il medium tra i due sessi non è l'essere umano? Sì, purché assumiamo
che l'essere umano altro non è che essere donna/uomo. L'essere umano è identità
e differenza, in circolo fra loro. In altre parole, è necessità di mediazione,
che portiamo iscritta, non senza angoscia, nel fatto della differenza sessuale.
Forse, al fondo della misoginia, l'odio maschile della differenza femminile, c'è
questo: il non piegarsi alla necessità della mediazione. E, forse, qualcosa di
simile si dovrebbe dire anche del "sogno d'amore" femminile. Torna
su
fino a quando? Perciò,
la civiltà, che vive del lavoro simbolico della mediazione, si disgrega con il
venir meno della misura umana nella differenza sessuale. Della "strana guerra"
che ha infestato l'ex Iugoslavia, non pochi hanno notato la concomitanza di silenzio
femminile con un guerreggiare maschile feroce e notevolmente stupido. Davanti
a fatti come quest'ultima guerra, l'opera della civiltà fa pensare alla fatica
di Penelope, che passava le giornate a tessere una tela destinata ad essere
sempre disfatta. Non abbiamo ereditato, dagli antichi, una tragedia Penelope,
eppure non esiste rappresentazione più tragica della civiltà umana, oggi parlante
e vera più che nei tempi antichi. Nel corso delle tre guerre europee del sec.
XX, da un coinvolgimento minimale della popolazione civile si è passati al suo
coinvolgimento totale; nella ex Iugoslavia gli uomini in armi evitavano di combattersi
fra loro e miravano alla popolazione civile, distruggendo quella che è l'opera
soprattutto femminile della civiltà quotidiana. In questa logica, sono arrivati
a programmare la violazione del corpo femminile fecondo. Cosa che, per stare al
mito di Penelope, non osarono fare quelli che aspiravano a entrare nel suo letto.
Un esempio meno estremo ci è fornito dal mercato del lavoro che è diventato, come
dicono gli economisti, flessibile; in pratica: così sbilanciato a favore del capitale
rispetto alla forza lavoro, così sfavorevole a chi cerca lavoro, da preoccupare
oltre misura uomini e donne, specialmente le più giovani, in cerca di prima occupazione.
E' diventato, quindi, praticamente impossibile - e sarebbe perciò sbagliato -
continuare a concepire l'opera femminile secondo lo schema di una divisione del
lavoro simbolico. Questo schema, forse ancora buono ai tempi di Penelope (per
dire: delle nostre madri), è finito, distrutto. Esisterebbe già un'altra situazione,
quella dell'uguaglianza fra i due sessi, che è andata creandosi in Occidente,
badiamo bene, non in risposta al problema che qui poniamo, ma alle esigenze dello
stato di diritto. Risposta, entro questi limiti, giusta. Ma oggi si pretende,
da molte parti, farne la risposta al problema che noi poniamo, del senso
libero della differenza sessuale nell'opera della civiltà. E allora diventa una
forzatura. Scrive Mary Catherine Bateson in Comporre una vita, parlando
di sé e le donne con cui ha preparato il libro: "In misura diversa, ognuna di
noi ha subito discriminazioni per il fatto di essere donna; tutte siamo state
trattate qualche volta come meno che eguali. Ma tutte siamo sempre alla ricerca
di rapporti di differenza, un po' disorientate dalla necessaria accettazione politica
dell'uguaglianza". Infatti, come ella ha dimostrato, uguaglianza significa istaurare
un rapporto di simmetria; rapporto simmetrico significa competizione. E la competizione
impedisce di significare e quindi, prima o poi, di praticare e, alla lunga, d'intendere,
il valore di rapporti e di pratiche non competitive, che rendono umana la convivenza
e civile la civiltà. Il gran lavorare delle donne, in paesi come l'Italia, che
non diminuisce con i progressi civili e tecnici, anzi, parla eloquentemente della
strettoia in cui molte donne sono prese, fra lo stare alla competizione, per essere
autonome, da una parte, e, dall'altra, il continuare ad attendere all'antica opera
femminile della civiltà quotidiana. Fino a quando? L'opera femminile della
civiltà, già messa alla prova della subalternità e della quasi invisibilità (basti
pensare che, prima della scuola degli Annales fondata da Marc Bloch, era
totalmente assente dalla tradizione storiografica), è destinata alla sparizione
- violenta o consentita, a forza di ex Iugoslavie e di mercato del lavoro - se
non diventa un sentire politico (per dire: pubblico, consapevole, aperto, dichiarato)
di donne (e uomini) che hanno il senso originale della differenza femminile. In
una parola, se non diventa autorità femminile. Non c'è ormai più, condannata
a morte da chi o che cosa non importa, la differenza femminile come specificazione
dell'umanità - il famoso "specifico femminile". Può esserci, da qui in avanti,
dal Polo Nord al Polo Sud, da New York a Pechino, la differenza femminile come
significante di umanità: differenza creatrice di simbolico, promotrice di autocoscienza
in donne e uomini, risolutrice delle dualità schizofreniche che rampollano dal
mito dell'Uomo universale. Sia chiaro, non sono tutte le schizofrenie né
tutte le alienazioni della storia umana, ma un bel numero sì, a cominciare da
quella, citata all'inizio, fra natura e cultura, per finire con la guerra nella
ex Iugoslavia. Per deciderlo, occorre, ad ogni buon conto, un'analisi storica
specifica, unita alla consapevolezza che non c'è reale senza simbolico e non c'è
mondo senza mediazione. Ma perché mediazione femminile? Questa è l'obiezione
del pensiero sistematico, che, avendo rinunciato all'Uomo universale, lo ha rimpiazzato
con una dualità speculare fatta di uomini e donne/ donne e uomini. Il pensiero
sistematico ama le simmetrie più della storia, che non è simmetrica. "Autorità
femminile" è una risposta storica. La differenza sessuale veicola la necessità
della mediazione, ma non dà le risposte. Queste, le dà la storia, non si può dedurle.
"Autorità femminile" è il nome che abbiamo trovato in risposta alla più pressante
esigenza che una civiltà possa avanzare, e che la nostra avanza, e cioè che il
lavoro della mediazione non si arresti. Torna
su
un discorso poco plausibile ma urgente Autorità
è una parola poco usata e usata male. La si confonde spesso con il potere. Suscita
fantasie e ribellismi verbali. Si preferisce, in caso, parlare di autorevolezza,
o altre formule. Mettersi a parlare di autorità, è dunque poco plausibile. Ciò
nonostante, è urgente cominciare a farlo, se si considera che l'opera della mediazione
- non quella accomodante, ma quella creatrice di mondo e di relazioni - domanda
il senso dell'autorità. Altrimenti, vincono il potere e, in chi il potere non
ha, il ricorso alla violenza. Oppure, specialmente da parte femminile, il mutismo
e la malattia. Abbiamo riscoperto l'autorità con la politica del simbolico,
la politica cioè che fa leva sulla presa di coscienza e la relazione. Ma l'abbiamo
scoperta in una forma praticamente nuova. Le antiche forme di autorità implicavano
una gerarchia. La filosofa Hannah Arendt, che già negli anni Sessanta ha riflettuto
su questo tema (e lo ha fatto in una prospettiva politica, come qui noi), pensa
che autorità e gerarchia vadano insieme. Su questo punto non siamo d'accordo con
lei. O, meglio, pensiamo che lei abbia ragione ma limitatamente alle culture e
alle organizzazioni dove l'ordine simbolico dipende da quello stabilito socialmente.
E' il caso delle società antiche studiate dalla Arendt o di molte organizzazioni
religiose (pensiamo alla Chiesa cattolica) come pure, ci sembra, della odierna
cultura giapponese. Noi abbiamo scoperto (inventato?) l'autorità come qualità
simbolica delle relazioni, come una figura dello scambio, per cui nessuno,
nessuna è "l'autorità", questa essendo invece riconoscibile nell'incremento che
dà al circolo virtuoso delle relazioni mediatrici. Nel contratto fra uomini c'è
sempre un terzo (lo Stato, il diritto) che dà ai contraenti un potere di esclusione.
Anche nei rapporti sui quali stiamo ragionando, c'è un terzo, ed è l'ordine simbolico
della madre, che non è escludente. Si crea così un accordo dal quale è assente
ogni potere di esclusione: il rapporto è aperto a tutte e tutti perché la sua
stessa esistenza dipende dal moltiplicarsi delle relazioni. Rispetto al quadro
tradizionale, c'è un salto per cui, da un mondo fissato in segni esterni (la cattedra,
i gradi, le toghe, il pulpito, la carica, la firma, ecc.), si passa alla parola,
che rende il mondo fluido e mobile, sempre preso nella contrattazione del significato
delle cose. Il reale infatti non è fissato, se non quando noi disperiamo di poter
partecipare all'avventura della sua interpretazione e mutazione. In parole
povere, noi diciamo e facciamo che, negli scambi, vi sia autorità di modo che
non vada sprecato né distrutto il senso della vita personale e associata. In assenza
di autorità - è esperienza piuttosto comune, con un minimo di riflessione - prevalgono
le questioni del potere, la sua conquista, le gare per la sua conquista, ecc.
con una crescente disattenzione, fino alla completa incomprensione, per la ragione
stessa dell'impresa cui si partecipa. Pensiamo, per fare un esempio, ai giochi
di potere che si sono istallati, come una cancrena, nella vita delle università,
con danni gravi ed estesi, dalla ricerca scientifica alla formazione delle persone
giovani, passando per le lungaggini dei processi decisionali e la quasi paralisi
della selezione del corpo docente. La storiografia femminista ha contribuito
a mostrare come, nella nostra tradizione, sia riconoscibile la presenza di autorità
femminile, pur nei limiti imposti dalla cultura patriarcale. Questi limiti, oggi,
sono caduti o stanno cadendo. Oggi, contro l'autorità femminile milita l'idea
della parità, diventata, in questi ultimi anni, l'unica risposta della
cultura politica dominante alla contraddizione della differenza. E' una risposta
che rimpicciolisce il senso originale della differenza sessuale e il senso politico
del movimento delle donne, al quale si attribuisce, come fondamentale aspirazione,
quella della parità donna-uomo. Idea lusinghiera per maschi in difficoltà, e comoda
per chi non s'interroga sulla contraddizione della differenza; funziona infatti
automaticamente. Così, da un'assenza di donne, si deduce, mediante la nozione
passe-partout di discriminazione, la loro voglia di essere lì a tutti i
costi. E perché mai? Perché non si pensa, almeno in ipotesi, che c'entri una preferenza,
una scelta, una propensione a essere altrove? Nell'ove-altro dai
parlamenti, dalle accademie militari, dalle palestre di pugilato, dalle facoltà
d'ingegneria, dalle Piazze Affari, dalle professioni di Boia o di Generale in
capo? Ogni giorno, se legge i giornali, specialmente quelli di sinistra, una donna
deve aspettarsi di vedersi ridotta a non avere altro traguardo, altra misura che
la parità con l'uomo. Passi che a fare queste operazioni siano i membri delle
svariate commissioni del "femminismo di Stato", sono stati scelti per questo scopo,
sebbene dispiaccia che i soldi dei e delle contribuenti vengano spesi male. Ma
la cosa diventa grave quando all'operazione si prestano pensatori indipendenti
e coraggiosi come Leonard Boff, esponente della teologia della liberazione, il
quale - su questo colonizzato dall'America del Nord? - sembra convinto che l'orizzonte
in cui si muovono le donne finisca con la famosa parità. "Ci sono tutte le ragioni
- ha scritto sull'Unità, 11.9.95 - per valorizzare le donne alla pari con
l'uomo". No, grazie; abbiamo altre misure in testa. Torna
su
al posto dell'io/noi/loro Che
cosa abbiamo in testa? Non la parità ma nemmeno nuove visioni del mondo né nuovi
valori. Abbiamo un'esperienza di pratica di relazione e la pretesa di mettere
al mondo il mondo (è un titolo di "Diotima") mediante questa pratica. Quelli
che coltivano relazioni per determinati scopi o interessi, propri o altrui, nobili
o ignobili, restano distanti dal nostro pensiero. Per farlo intendere nella sua
radicalità, può essere d'aiuto il linguaggio di alcune scrittrici del sec. XIII,
le quali sono arrivate a dire che Dio si genera dalla loro stessa relazione con
Dio. Ma non è assurdo? Non è un assurdo circolo vizioso? No, è un paradossale
e profondo circolo virtuoso, purché al principio non mettiamo niente se
non il tuo, mio essere presenti, qui, ora. Partire cioè dalle relazioni che siamo
e da lì guadagnare tutto il resto. Quanto? Quanto è grande il desiderio, quanto
è forte la relazione mediatrice, mai l'una senza l'altro. Davvero? Sì, risponde
l'esperienza. Il nostro impegno e la nostra lotta consistono nell'assicurare
il primato della relazione nella generazione del pensiero come nella vita personale
e sociale. In questo orientamento abbiamo vicine alcune importanti correnti del
pensiero contemporaneo; ricordiamo almeno un nome, Gregory Bateson, l'autore dell'Ecologia
della mente. Vi sono almeno due strade per raccontare la pratica di relazione.
Una è di vederla come ciò che prende il posto di uno stato di isolamento, di solitudine.
Psicologicamente, è la maniera più intuitiva, perché il nostro tipo di società
crea isolamento e solitudine. L'altra strada fa vedere la relazione come ciò che
prende il posto del "noi". La preferiamo perché passa attraverso una critica delle
relazioni comunitarie, che è una risposta che sta prendendo piede nel nostro tipo
di società, soddisfacente ma fin troppo. Le relazioni che si vivono nella
cerchia del "noi", proprio quando vanno bene, generano facilmente un senso di
autosufficienza e di reciproca conferma che ottunde il senso della necessaria
mediazione e fa perdere quasi l'esigenza di misurarsi con chi non è "noi". Simone
Weil, poco più che fanciulla, lo ha chiamato il sentimento di un "delizioso accordo",
annotando che si finisce per amare soprattutto questo e da lì, commenta senza
mezzi termini, si generano "tutte le guerre". Conclusione di un pensiero acerbo
ma acuto. C'è un bisogno profondo di poter dire "noi", anzi gustarlo (gustare
l'essere un solo essere con la madre, con dio!). Lo si riconosce nel piacere che
danno certe cose belle della vita, come la musica, l'armonia delle corde, il vibrare
di una corda alla vibrazione dell'altra. Come condannarlo? Eppure, come intuisce
la Weil, è un sentimento ambiguo e la storia lo dimostra. Nella tradizione occidentale
il "noi" ha preso forme molto varie, dalla parentela alla nazione (o all'etnia),
dalla congregazione religiosa al partito politico, dall'esercito alla tifoseria,
dal campanile allo Stato. Alcune di queste identificazioni collettive sono in
crisi, si disfano o "impazziscono". C'è una crisi generale delle grandi appartenenze.
Ancor prima della crisi, va detto che le donne non vi sono entrate quasi mai e
non soltanto perché escluse; c'è chi sostiene che ne furono escluse perché ne
ridevano. Il "noi" di genere femminile è diverso. Con il femminismo e, ancor prima,
con le organizzazioni femminili di massa, si è costituito un "noi" molto elementare:
"noi donne", tributario nella sua genericità dello sguardo maschile ma riscattato
da ogni senso di inferiorità e rivendicato con orgoglio. Sono apparse poi formule
come "appartenenza al sesso femminile" e "identità di genere". Il movimento delle
donne, tuttavia, non si è mai posto come un grande "noi"; il "noi" tipico del
femminismo è stato quello del gruppo. Ma negli anni Ottanta alcune hanno avviato
la critica del "noi" gruppale ed è stato grazie a questa critica che la relazione,
già al primo posto nel femminismo come pratica di relazione fra donne, ha trovato
quella radicalità che dicevamo all'inizio. La critica prese avvio dalla scoperta
della disparità all'interno del gruppo. Non abbiamo scoperto che non siamo tutte
(tutti) uguali, questo è risaputo (sebbene non si dica). Abbiamo scoperto che
nell'agire effettivo, quello che muove le cose è il più e il meno, non il pari.
E' lo squilibrio che mette in movimento il desiderio. Fu la scoperta di quello
che poi abbiamo chiamato materialismo simbolico. La politica corrente tiene conto
del materialismo economico e lo integra con l'appello a valori etici, saltando
così l'animale simbolico, cioè l'essere umano in quello che ha di più creativo.
Rispondere agli squilibri e disuguaglianze della vita sociale con il principio
dell'uguaglianza, noi diciamo che è idealistico, perché l'uguaglianza è una grande
idea civile ma non è il desiderio di nessuno, e se la risposta ottiene degli effetti,
di solito capita perché è riuscita a risvegliare l'invidia, il che non è certo
di buon augurio per la qualità dei rapporti sociali. Quando scoprimmo il dinamismo
della disparità, la nostra questione fu come attivarlo, per se stesso, non in
funzione di questo o quel fine, ma come una forma di vita più ricca e libera,
impedendogli di disperdersi malamente nell'invidia e nel risentimento, o di ridursi
dentro meccanismi esternamente regolati, come la democrazia rappresentativa e
la Borsa degli Affari. E' così che abbiamo trovato la relazione che prende il
posto del "noi". Non è, in senso stretto, un nuovo tipo di relazione; infatti,
rientra fra le relazioni che consentono a ogni essere vivente di venire al mondo
e di starci trovando un senso a questo venire e stare. Ma adesso questo tipo di
relazione ha l'evidenza di una modalità prima ignorata o poco considerata, che
è la necessità della contrattazione cui invita lo squilibrio del desiderio.
Ai nostri giorni si fa un gran parlare di diritto alla vita e di diritti umani,
forse per reagire a un uso "disinvolto" della vita stessa; ma la formula del diritto
alla vita e dei diritti umani non vede, non fa vedere, che la vita e l'umanità
si salvano e si rinnovano a forza di contrattazione. Prova ne siano le creature
piccole, inermi, bisognose di tutto, sempre capaci di ricevere gratis e sempre
altrettanto pronte a contrattare e a pagare, se ciò di cui hanno bisogno non arriva
gratis. La differenza è data dal livello della contrattazione. La relazione
che prende il posto del "noi" non mette limiti ai guadagni possibili con la contrattazione,
basta non dichiarare mai chiusa la partita, rimettendo il guadagnato in gioco
per un di più del più. Nelle biografie delle donne che riconosciamo grandi, non
è difficile incontrare episodi di questo rilancio, dietro al quale sta una contrattazione
via via più fine e audace. Non si tratta, ovviamente, solo del quanto si vuole
guadagnare. Si tratta, insieme, del quanto si è disposti a dare via, sempre in
proporzione. Certe persone, meno provviste di beni, credono che la povertà impedisca
loro grandi contrattazioni. Che sbaglio! Non solo si può guadagnare molto, procedendo
passo passo. Ma il vero salto nel livello della contrattazione, si ha quando al
mercato porto non quello che ho, ma quella che sono (penso, credo, voglio, desidero,
sento). Che vuol dire il mondo intero, poiché il "mio" essere non è che una espressione,
parziale ma non separabile, del mondo intero. Tutto si può portare al mercato:
amicizie, amori, onore, fede, inclinazioni, tranquillità... Che orrore! dirà qualcuno.
E' un orrore davvero quando si tratta di un mercato piccolo, di transazioni modeste.
Noi qui parliamo della contrattazione come nucleo incandescente della relazione
mediatrice non strumentale, quella, anzi quelle relazioni che ci fanno essere,
sentire e parlare come siamo, sentiamo e parliamo. Noi qui parliamo del commercio
principale, quello che sta al principio del mondo, e proponiamo di attivare
anche questo livello di scambi e abbiamo la pretesa di sapere come si fa.
Lo sappiamo sulla base di un'esperienza cui abbiamo già accennato, e cioè che
sul mercato del lavoro le donne, oggi, ci vanno, ma non si consegnano totalmente
alle sue misure, perché le commisurano ad altre, nel lavoro e fuori. Il rivoluzionamento
delle vite femminili cui stiamo assistendo, non sarebbe stato possibile senza
questa contrattazione fine, dove in gioco non è soltanto l'entità di uno stipendio
o un posto in alto, ma un più vasto insieme di scambi, abbiamo detto, dove entrano
anche la qualità del lavoro, le gratificazioni affettive e certe esigenze di civiltà,
come quella della restituzione di cure agli anziani. Per questo diciamo che la
politica, oggi, è la politica delle donne. Non si può vivere la crisi di questa
fine secolo, che è anche una fine millennio, senza portare sul mercato tutto,
la propria forza lavoro ma anche i sentimenti, le aspettative, gli affetti, le
aspirazioni... A questa stregua una, uno si accorge che il mercato regolato dal
denaro è solo mezzo mercato, e non basta a rendere possibile la ricchezza di scambi
di cui la vita umana è capace e desiderosa. Torna
su
il luogo della libertà Ci
vuole però una contrattualità più fine di quella praticata dalla politica corrente.
Una contrattazione fine ha due facce. C'è quella, più ovvia, con l'altro, comunque
inteso, donna, uomo, avversario, amico, istituzione, potere... E c'è quella, che
appare meno ma non può mancare, tra sé e sé. Ha la forma di una semplice domanda:
che cosa sono io disposta (disposto) a dare in cambio di che cosa? E' incredibile
quello che si può mettere in gioco e quello che si può guadagnare con una contrattazione
interiore ben fatta. La vita diventa un mercato veramente libero. Il suo nome
lo abbiamo già incontrato, è il simbolico. Ci puoi portare perfino le tue peggiori
emozioni, come l'invidia o il sospetto: sono io disposta a darli via in cambio...
di che cosa? intelligenza, per esempio. Funziona. Ma ci sono degli inciampi. La
pratica di relazione si incaglia spesso nella difesa dell'identità personale.
Si crede, a torto, che quest'ultima non possa entrare negli scambi. Non è vero,
basta pensare a come abbiamo imparato a parlare, dando via sentire immediato in
cambio di parole. Le creature piccole sono grandi mercanti e grandi signore, al
tempo stesso. Si danno via e restano intangibili, perché nessuno è tanto abile
da anticipare i loro calcoli. E così si rinnovano continuamente restando fedeli
a sé, come nessun altro. Praticare le relazioni a questo livello, dà luogo
alla libertà umana. La relazione strumentale c'è sempre stata; gli uomini l'hanno
pensata e praticata per fare società, organizzare la convivenza, fondare istituzioni.
L'invenzione femminile è la relazione che non ha un fine fuori di sé, e che si
fa luogo simbolico dell'esistenza umana per se stessa. Questa sapienza relazionale
femminile potrebbe spiegarsi considerando che l'esistenza di una donna prende
senso dalla differenza con la madre, cioè dalla relazione con lei. E' proprio
questa relazione e questa differenza che sono in gioco nella contrattazione fra
te e te: non sei onnipotente, cerca una misura, non spenderti a caso, non imitare,
non sminuirti né gonfiarti, cerca una misura che sia tua, che sarai tu. Secondo
alcuni tutto questo è giusto, escluso considerarla politica. Di politica, secondo
costoro, si tratta quando ci sono di mezzo decisioni che riguardano i grandi numeri,
e il potere di prenderle. Questo lo pensano anche uomini che non intendono affatto
restringere il governo della cosa pubblica a una minoranza di addetti ai lavori,
ma, al contrario, coinvolgere le masse e farle protagoniste della loro storia.
Ma non vedono o non considerano un aspetto della nostra presente cultura, e cioè
che le masse, nella politica così intesa, sono già state coinvolte, e della loro
storia sono diventate protagoniste, nel senso che sono immesse, consenzienti,
nel ciclo produzione-consumo, essendo perfettamente al corrente della propria
situazione, grazie alla cultura dei mass-media, di cui fanno grande consumo. Che
questa promozione vada insieme a paure crescenti, a un generale impoverimento
simbolico, e, fra le persone giovani, a molta tristezza, è innegabile. Ma non
si può dire che ciò sia l'effetto di un inganno né che, sotto sotto, stia covando
una volontà generale di cambiamento. No. Noi pensiamo che sia, piuttosto, l'effetto
di un orizzonte troppo limitato entro cui le accresciute possibilità materiali
devono stare e giocarsi. E pensiamo che questo orizzonte non possa aprirsi per
arrivare a comprendere traguardi più allettanti o sfide più entusiasmanti senza
quella libertà che nasce dalla capacità di modificazione di sé, la quale,
a sua volta, viene con la pratica della contrattazione tra sé e sé, tra sé e il
mondo. Vale a dire, senza la riapertura dei giochi di una coscienza modificata
(non pensava a questo anche Marx, piuttosto che a tutta quella storia di potere,
partito, Stato, che gli faranno dire?), coscienza modificata nel senso di una
più libera disponibilità delle ricchezze insite nella nostra storia, a cominciare
dall'infanzia, e nei rapporti umani che ci sono più cari. D'altronde, come
non vedere che questa apertura di giochi, oggi, è diventata la questione politica
numero uno, davanti alle contraddizioni in cui versa il cosiddetto potere politico?
Si dà questo nome a quel potere che non è economico né ideologico, e che si costituisce
per l'esigenza generale di un governo comune, mediante l'espressione regolata
(tipo, elezioni) di questa esigenza. Esiste ancora un potere politico così inteso?
Ce lo domandiamo, perché vediamo che si sta estinguendo, per la prepotenza degli
imperativi economici, per l'intralcio di regole che o non vanno bene ma non si
riesce a cambiarle o vanno bene ma non sono rispettate, per l'invadenza del potere
ideologico dei mass-media, forse destinato a sostituirlo, e per la caccia al consenso
che lo fa andare di qua e di là. Chi identifica la politica con i grandi numeri
e la possibilità di agire a questo livello, secondo noi, si fa delle illusioni.
E non vede bene quello che avviene effettivamente là dove c'è un agire politico
degno di questo nome. C'è sempre anche contrattazione tra sé e sé: senza questa,
non ci sono risultati. Chiedetelo a Nelson Mandela, che viene, giustamente, stimato
un politico di prima grandezza, e che, per anni, inerme, carcerato, ha saputo
lavorare per la convivenza dei neri e dei bianchi del Sudafrica fino al conseguimento
di questo risultato, ritenuto inarrivabile. Chiedetelo ai mediatori e mediatrici,
che la prudenza costringe a restare anonimi, il cui lavoro si trova sempre a monte
di quel poco di pace che ogni tanto vediamo prendere il posto di conflitti distruttivi.
Le relazioni umane, si sa, sono sempre esposte alla prova del conflitto. E' in
presenza del conflitto che la capacità della contrattazione fra sé e sé manifesta
la sua politicità. I margini della contrattazione possono infatti rivelarsi troppo
esigui, fino a essere impraticabili, per chi non vuole tradire il suo mandato
o le sue scelte di fondo, e non ha però la capacità di modificarsi e di spostarsi:
l'io, l'identità cui siamo attaccati per difetto di libertà, occupa infatti molto
posto e lo porta via alla mediazione. Nella politica delle donne c'era la tendenza
a evitare i conflitti o, se questo non era possibile, a ignorarli o, se questo
non era possibile, a chiuderli con una cessazione dei rapporti, quel che si chiama
una rottura, badando che fosse dignitosa, per poi prendere ciascuna la propria
strada. La consapevolezza della fine del patriarcato non consente più un simile
comportamento, perché chi si assume l'autorità, si assume il conflitto.
Chi si assume l'autorità, si assume il conflitto e non lo evita né tenta di tacitarlo
e neanche, come si dice, di sanarlo e neanche, come si usa, di circoscriverlo.
Ma cercherà di renderlo aperto, circolante, praticabile, non distruttivo, esattamente
come l'autorità, mettendo così fuori combattimento i fantasmi di una presunta
micidiale onnipotenza, che in realtà nessuno possiede. A questa condizione - sconfiggere
i fantasmi - non c'è niente come la pratica del conflitto che sia capace di farci
conoscere il circolo virtuoso fra l'agire politico e la modificazione di sé. E'
questo circolo il segreto della grande politica. Noi donne lo sappiamo meglio
degli uomini, ma gli esempi che qui abbiamo portato sono di uomini. E' una contraddizione
istruttiva, e tutt'altro che nuova, che conferma l'insormontabile asimmetria fra
i due sessi. Torna
su
"yo no soy para más de parlar" "Presumo
forse troppo", scrive Teresa d'Avila nell'importantissimo capitolo XXI del Libro
della sua vita, dopo aver affermato d'essere portatrice d'una scienza politica
che sarebbe, ella dice, sommamente utile "ai re": "come sarebbe di maggior vantaggio
per essi cercar di guadagnarsela, anziché mirare alla conquista di un gran dominio!
Quanta giustizia vi sarebbe nel loro regno! Quanti mali si eviterebbero e quanti
se ne sarebbero evitati!". E poi, considerando il suo sesso e confrontandosi con
ciò che altre, donne come lei, seppero fare di eroico, commenta: io non so far
altro che parlare ("yo no soy para más de parlar"). Così noi qui. Così
altre come noi, in tante situazioni della vita quotidiana. Parlare e ascoltare,
come racconta la presidente di un quartiere popolare investito dall'immigrazione
povera e dalla prostituzione: All'inizio
della mia esperienza di presidente, avevo l'impressione di essere salita su una
giostra che mi faceva andare e girare, impedendomi di agire partendo da me e prendendo
le strade più dirette. Il mio grande lavoro è stato fermare la giostra, non farmi
intimorire dalle emergenze, vere o finte, rafforzare la pratica di relazione,
in particolare con alcune donne. Ho potuto così mantenere la necessaria attenzione
ai problemi e trovare soluzioni riferendomi a donne e uomini in carne ed ossa,
che spesso hanno più risorse delle cosiddette istituzioni. Il fatto che tante
persone si rivolgano al Consiglio per esporre le loro difficoltà, contente almeno
di essere ascoltate e di ricevere di ritorno qualche parola sensata, spesso non
posso fare altro, mi ha rivelato il bisogno che c'è di comunicazione e di autorità.
Ritroviamo
l'autorità, che qui è associata al suo contesto vitale, rappresentato dalla fiducia
e dalla parola. (Già Hannah Arendt, va detto, aveva messo in luce questi nessi.)
Fiducia è un quasi sinonimo di autorità e l'accostamento con la parola è altrettanto
sensato, perché nella lingua che parliamo - la lingua materna - noi abbiamo, o
abbiamo avuto, imparandola, fiducia. La lingua è l'autorità sorgiva; non c'è autorità
senza parola. Ma la lingua ormai si nega alla parola politica. La bruttura
del linguaggio dei politici e dei giornalisti non è solo specchio, è sostanza
martoriata di una perdita di senso della "cosa politica", così incombente che
non si osa quasi denunciarla a gran voce per paura di farla precipitare del tutto.
Impressiona, soprattutto, il fatto che i diretti interessati, i quali non possono
non sapere lo sfacelo cui, bene o male, devono far fronte, almeno i migliori,
impressiona che siano sempre alla ricerca di qualcosa che manca, e mai si fermino
ad interrogarsi sulla contraddizione più evidente, interna alla loro pratica del
potere. Dicevano che ci voleva il sistema maggioritario e poi tutto si sarebbe
messo a posto. Adesso che cosa manca? Manca il doppio turno. Perché non ci avete
pensato prima? Comunque, per l'elezione del sindaco c'è il sistema maggioritario
e c'è il doppio turno: lì cosa manca? Dev'essere che la nostra democrazia è "giovane",
manca una tradizione forte di governo, no, mancano le primarie, manca il federalismo,
manca l'autonomia impositiva, manca l'elezione diretta del leader, manca
la grinta... Insomma, manca sempre qualcosa per poter governare. Ma a Clinton
e alla splendida Hillary, cos'è mancato? Non la maturità della democrazia né le
primarie né il federalismo né l'elezione diretta né la grinta, eppure essi non
sono riusciti a cambiare il pessimo sistema sanitario Usa per avvicinarlo a quello,
molto più civile, dell'Europa. E quello era (e forse rimane, nel cuore di lei)
l'impegno principale con cui si erano candidati alla presidenza e avevano vinto
la gara elettorale. In un editoriale apparso sul quotidiano La Stampa abbiamo
letto che "in tutto il mondo la politica è lotta legittima per la conquista del
potere". Poveri re, girano nudi e non lo sanno. Ma qualcuno in qualche modo lo
dice, come quell'assessore alle politiche sociali di una grande città il quale
ha dichiarato, pudicamente, che "le istituzioni, da sole, non bastano", per dire
che lui, il suo assessorato, la sua giunta, la sua maggioranza non riuscivano
a realizzare neanche un'onesta piccola parte del loro progamma, senza l'azione
di altre forze. C'è un'altra maniera di dire la stessa cosa, una maniera che
fa luce sull'enigma dell'impotenza crescente del potere. E cioè che la politica
non è riducibile alla "lotta legittima per la conquista del potere" perché, se
fosse solo questo, i politici si ridurrebbero a giocare agli indiani fra loro.
E' politica anche il volontariato, la cooperazione, l'associazionismo, la rete
di solidarietà tra vicine di casa, le librerie che fanno incontrare le persone
e le idee, l'editoria indipendente... Abbiamo nominato alcune realtà, fra quelle
che un nome ce l'hanno, non per l'elenco, ma per rendere l'idea che la pratica
delle relazioni e della contrattazione che sottende queste realtà, è politica.
A questa pratica, svolta capillarmente da donne e uomini, si deve se il cosiddetto
corpo sociale non si sfascia, se la vita associata resta vita e non una coabitazione
rabbiosa e diffidente, se le decisioni dei responsabili della cosa pubblica trovano
gambe (e teste e cuori) per camminare per il verso giusto, se le persone sono
messe, singolarmente, in condizione di capire e di spaziare oltre l'ambito delle
loro esistenze individuali. Un giorno, alla Libreria delle donne di Milano,
si presentò la presidente di una grande cooperativa di servizi e ci disse: "Mi
hanno chiesto di candidarmi al Consiglio comunale della mia città. Che cosa mi
consigliate di rispondere? Io sarei incline ad accettare, anche se il lavoro della
cooperazione m'interessa di più. Ma ho sempre pensato che bisogna impegnarsi politicamente".
Le abbiamo risposto: "Quello che stai facendo come presidente della cooperativa
è già politica, anzi è la politica senza la quale quell'altra, come funzionerebbe?
Tu e le tue colleghe contrastate l'isolamento e l'individualismo, inventate risposte
a problemi comuni, date l'esempio del vantaggio che c'è a collaborare, e così
fate società, fate mondo. Come dicono le filosofe di 'Diotima', mettete al mondo
il mondo". Ella ascoltò e fu d'accordo, ma aveva un'obiezione: "Entrando nel Consiglio
comunale, potrei far valere le esigenze della cooperazione, che gli amministratori
ignorano o trascurano perché è un mondo che non conoscono". "Ma perché dovete
presentarvi voi a loro? E' più giusto che loro vengano da voi, che fate la politica
prima, mentre loro fanno una politica subordinata, per la sua efficacia, alla
vostra". Il testo che state leggendo deve molto all'episodio appena raccontato.
La presidente della cooperativa trovò buona l'idea della "politica prima", e fu
d'accordo che, nell'ordine giusto delle cose, non era lei che doveva far anticamera
dall'assessore, ma, semmai, era lui (o lei) che doveva discutere con la cooperativa
i problemi della popolazione bisognosa di assistenza. Prima di congedarsi, la
presidente commentò: "Molte e molti che fanno politica prima, non la considerano
tale e perciò si subordinano ai politici o, viceversa, li ignorano per disprezzo
della politica. Dovremmo comunicare loro questi vostri ragionamenti, che trovo
giusti". Prese così forza l'idea di un Sottosopra in cui avremmo fatto
conoscere il nome della politica prima a quelle e a quelli che la fanno, ma anche
ai politici con la p maiuscola, perché è una scoperta che li riguarda in prima
persona. Torna
su
è accaduto Interrogata
sulla ragione della sua preferenza per le figure femminili, la storica e scrittrice
Lidia Storoni Mazzolani ha risposto:
"Dev'esserci un perché se inconsapevolmente, senza intenzione,
io ho sempre privilegiato le figure femminili. Nei miei Profili omerici,
è Elena quella che, sedendo al telaio, tesse la storia stessa della guerra di
Troia; e poi Cassandra, condannata a non essere creduta, come ogni donna intelligente
e di buon senso; e Euriclea, la nutrice, che prima d'ogni altro riconosce Ulisse.
Donna era Galla Placidia, e poi ancora una donna, 'una moglie', era quella che
ho cercato di rianimare traendo le notizie dagli sparsi frammenti... Sono donne
le protagoniste delle grandi tragedie - Antigone, Elettra - ed è una donna la
figura più patetica dell'Iliade, Andromaca. Donne tessitrici di storia e di vita.
E' avvenuto senza intenzione, certo non per caso" (intervista a Eugenio
Manca dell'Unità). Alla
nostra risposta vorremmo dare l'intonazione precisa e delicata delle ultime parole
pronunciate dall'illustre studiosa: è accaduto, senza intenzione, non per caso.
Resta una domanda: allora, ci sono due politiche? e quali dovrebbero essere, in
pratica, le principali conseguenze della gerarchia fra la prima e la seconda?
No, non ci sono due politiche, perché i sessi sono due ma il mondo è uno, abitato
da donne e uomini. Il nome "politica prima" lo abbiamo messo lì come un ponte,
per quelli (e quelle) che si chiamano politici, affinché capiscano la ragione
di non chiudersi nel politicismo e abbiano l'idea di guardare verso le innumerevoli
donne e uomini che, con il loro impegno, rendono civile la civiltà, umana l'umanità.
La domanda da porre è allora un'altra, se questo agire possa diventare
la politica, e come. Certo, non sarà con un rapporto di supplenza o di complementarità,
come forse si immagina l'assessore delle politiche sociali, perché questo non
è più il tempo delle supplenze o dei rattoppi. Viviamo in un tempo di cambiamenti.
Una difficoltà dei tempi di cambiamento, è lo sguardo. Lo sguardo resta
vecchio e, non trovando le forme alle quali era abituato, vede di preferenza frammentazione,
disordine, disastri. Non vede che la realtà sta trovando nuove forme, che risposte
valide sono già in circolazione. Pensiamo alla crescita dell'associazionismo,
in risposta alla crisi delle grandi organizzazioni; al volontariato, che tenta
di rendere praticabile una risposta di civiltà alle emergenze sociali e planetarie
(queste ultime, forse, senza risposta); alla crescita del lavoro autoorganizzato
e autonomo che rimedia non soltanto al restringersi del lavoro dipendente ma anche
alla sua perdita di centralità. Queste risposte sono già politica. Sono cioè
mediazioni che mettono in rapporto desideri e bisogni, da una parte, mutamento
storico in corso, dall'altra. Lo sguardo vecchio non vede che queste risposte
danno vita a mondo e società oltre le contraddizioni e i laceramenti del presente.
E si sforza quindi di immaginare sintesi politiche secondo le sue vedute, subordinando
l'invenzione alla ripetizione, la creazione alla conservazione. Troppo spesso,
per esempio, il volontariato e l'associazionismo si affiancano al potere politico
quasi aspettando da questo un riconoscimento simbolico. Noi qui abbiamo sottolineato
una particolare cecità della cultura politica corrente nei confronti delle mediazioni
femminili che accompagnano, in maniera sostanzialmente felice, la fine del patriarcato.
Va notato, come segno di questa signoria femminile, il fatto che le donne non
avanzano, alla politica ufficiale, rivendicazioni per quel che riguarda i nodi
cruciali del cambiamento delle loro vite. Non è disprezzo della politica ufficiale,
perché le donne vanno a votare; sembra piuttosto consapevolezza dei suoi limiti
naturali. Questo che diciamo è sotto gli occhi di tutti. Ma lo sguardo vecchio
non lo vede, perché tende sempre a leggerlo come 1) mancanza di leggi e 2) squilibrio
della rappresentanza, togliendo così alle pratiche femminili la loro sostanza
politica. Noi qui non possiamo che parlare, e dire che: c'è una "assenza" femminile
da certi luoghi che non è tale. C'è un "silenzio" femminile in certi dibattiti,
che non è tale. Il desiderio femminile è uscito vivo da una storia piuttosto
tremenda di limitazioni e costrizioni, e si è dotato di pratiche e parole originali.
Questo spiega perché sociologia, economia politica e politica non riescono a chiudere
le scelte femminili, in fatto di lavoro e di vita, dentro i loro schemi d'interpretazione
e previsione. Neanche il femminismo ci riesce, quando si mette su questa strada
di voler rappresentare le donne. Le donne (o: la donna) non sono più disponibili
come oggetto di rappresentazione né come soggetto per la rappresentanza. Quello
che era il "presupposto segreto" (Robert Kurz) delle società moderne, basate sul
ciclo di produzione e consumo di merci, è venuto allo scoperto: era il silenzioso
lavoro gratuito delle donne. Ormai, i ruoli tradizionali legati alla casa e ai
suoi abitanti, non hanno più l'antico potere costringente sulle vite delle donne,
e non funzionano più come barriere al lavoro pagato direttamente. Ma - e qui c'è
il perno di tutta la faccenda - le donne non si sono identificate con la fine
di questo lavoro essenziale ma invisibile e gratuito. Esse infatti stanno mettendo
fine al silenzioso regime di sfruttamento dell'opera femminile senza mettere fine
all'opera femminile della civiltà, che ora viene in luce con tutta la sua vitale
importanza, anche economica. La politica delle donne, dunque, ha prodotto qualcosa
di più della rottura del "segreto" della sottomissione domestica femminile. Ha
reso e sta rendendo l'essere donna non rappresentabile come valore di scambio
fra uomini. Ha reso e sta rendendo l'essere umano irriducibile ai dispositivi
che producono la mercificazione dei rapporti umani. Che vuol dire, in parole più
semplici: grazie alla libertà femminile, sarà sempre meno facile fare dei rapporti
umani un bene da mettere sul mercato come una merce qualsiasi. La differenza femminile
prende così un segno universale di umanità, capace di dare la necessaria radicalità
alle risposte che "sono già politica" ma non se ne rendono conto. Qualsiasi impresa
umana che, oggi, si metta sulla via di cambiare l'esistente, nel lavoro, nella
cultura, nell'economia, nel governo della cosa pubblica, ha la possibilità di
attingere forza di parola e leggerezza di marcia nel senso libero di essere donne/uomini.
Lo diciamo senza trionfalismi. Ci troviamo a dover fare i conti con la dismisura
di un troppo grande sapere della vita come il nostro, con il troppo intenso scambio
che passa fra donne, con l'enormità di un guadagno storico - la fine del patriarcato
- che si traduce, inevitabilmente, nella enormità del compito. Alla
preparazione di questo Sottosopra, durata un anno e mezzo, hanno contribuito Francesca
Graziani, Sandra De Perini, Luana Zanella, Denise Briante, Cristiana Fischer,
Anna Di Salvo, Daniela Riboli, Luisa Muraro, Clara Jourdan, Rosetta Stella, Rinalda
Carati, Lia Cigarini, Maria Marangelli, Oriella Savoldi, Mari Zanardi, Letizia
Bianchi, Lilli Rampello, Traudel Sattler, Annarosa Buttarelli, Marisa Guarneri,
Loredana Aldegheri e altre. Chi
desidera copie di questo Sottosopra, per favore non ricorra alle fotocopie e ne
richieda (per un minimo di cinque) a: Libreria delle donne, via Pietro Calvi 29,
20123 Milano, Tel. 02/70006265, Fax 02/71093653. Il
Sottosopra si vende nelle librerie dove si vende la rivista Via Dogana. Sottosopra
periodico, registrazione del Tribunale di Milano n. 29 del 9.1.1989 - Stampato
da Celergraf - V.le Umbria 36 - Milano Torna
su Torna
su
|