“Culture creole. Imprenditrici straniere a Milano” di Carla Lunghi
Enzo Costa
Il processo di globalizzazione sta certamente modificando in profondità il mondo in cui viviamo, rimescolando confini, ridefinendo identità, ponendoci di fronte a sfide che, prima ancora di poter essere affrontate sul piano dell’azione politica, richiedono di essere capite, elaborate, pensate. Interpretare quello che ci accade oggi resta dunque una sfida aperta per una sociologia tesa a dare voce e parola ai soggetti, impegnati a cercarsi nel quotidiano. La recente ricerca di Carla Lunghi Culture creole. Imprenditrici straniere a Milano (Franco Angeli), s’interroga sui fenomeni migratori e sul processo di globalizzazione dirigendo lo sguardo verso un settore (quello delle donne straniere imprenditrici a Milano) delimitato dal punto di vista oggettuale e definito da quello territoriale, ma proprio per questo anche più controllabile e maggiormente accessibile a un’analisi concreta. Richiamandosi alla direzione metodologica praticata da Laura Bovone, la ricerca assume come strumento dell’analisi sociologica i racconti di vita delle protagoniste. Il libro si presenta allora come il tentativo di narrare le storie di queste donne, lasciando a loro stesse il compito di
raccontarsi attraverso lunghe interviste di cui l’autrice riporta ampi passi.
Il motivo che conduce a scegliere le donne straniere come oggetto dell’indagine è chiaro sin dall’inizio. Nella figura della donna straniera si incontrano due categorie tradizionalmente marginali che sembrerebbero in linea di principio dover restare escluse dall’attività creativa. Carla Lunghi è invece interessata a queste donne straniere proprio in quanto imprenditrici che si sono affrancate da una duplice passività, da un lato riappropriandosi di pratiche tipiche delle donne che però, in quanto pratiche dell’eccellenza, divengono spesso prevalentemente maschili, e dall’altro riscoprendo il valore innovativo della propria cultura di origine”Indagare la moda e il cibo – scrive l’autrice – ha quindi significato tutto questo: da un lato verificare la creatività della cultura popolare, soprattutto laddove pratiche straniere si mescolano a prassi locali, e dall’altro scommettere sull’esistenza di- nuovi ruoli femminili elaborati da coloro che sembravano, per definizione, condannate alla tradizione, le donne straniere”.
Seguendo le narrazioni delle intervistate, Lunghi cerca di mostrare come il processo di globalizzazione non produca soltanto una- standardizzazione dei modelli di vita, poiché la cultura popolare, che in queste donne vive e si esprime, manifesta una notevole vivacità. I migranti sono costantemente in viaggio, e con loro viaggiano le loro culture. Innestandosi in nuove realtà locali queste producono commistioni tra usi stranieri e tradizioni locali, generando oggetti e beni che condensano stratificazioni di significati e che, in quanto fruiti dalla cultura d’accoglienza, indicano non solo un fenomeno economico, bensì la ristrutturazione simbolica e materiale degli ambienti ospitanti, una contaminazione produttiva: introducono nuovi stili di consumo e dunque originali modi di immaginare e fruire la vita, il corpo e il tempo.
Questi prodotti culturali non si limitano infatti a riproporre modi dettati dall’immaginario della cultura d’origine, ma si adattano a nuove situazioni facendosi a loro volta contaminare dalle tradizioni ospitanti. Di qui l’idea di culture creole, di linguaggi nuovi che propongono alla riflessione un altro aspetto, alternativo e per molti versi antagonista, della globalizzazione. La produzione culturale di queste donne rappresenta infatti una singolare mescolanza di diversi tratti che, invece di giustapporsi, si fondono, dando luogo a qualcosa di nuovo e di originale, a prodotti ibridi che superano le rigide barriere tra cultura alta e cultura popolare o di massa.
Di questa ricca ricerca, attenta all’analisi del quotidiano, almeno un altro aspetto va segnalato. L’analisi delle reti reali che spesso sostengono il lavoro delle imprenditrici straniere mostra come, nel processo migratorio, proprio alle donne risulti forse assegnato un ruolo “privilegiato”. Dovendo gestire con scioltezza ruoli formali e informali, esse sono infatti portate a creare doppi legami innanzitutto fra il contesto &origine e quello d’accoglienza, ma poi anche a coniugare, in maniera libera e originale, pratiche e modelli tradizionali con valori e prassi della modernità. Esse stanno così potenzialmente al centro di un’integrazione che non si esaurisca nella passiva assunzione dei modelli propri del contesto d’accoglienza. Lunghi suggerisce che, dovendo giocare un ruolo di mediazione nel lavoro, nella scuola, nella vita associativa, le donne straniere non rappresentano l’anello debole della catena migratoria, bensì la potenzialità di un’integrazione creativa che produce innovazione.