Tra principi etici e derive esistenziali
Il mistero della singolarità
Ho sempre provato stupore di fronte al puntino quasi invisibile attaccato al gambo di una pianta: pur non vedendo il fiore, è assicurata la sua presenza.
Anche io come persona sono strettamente collegata al bing bang del concepimento, durante il quale è scattato l’inizio del mio essere. Mi rifiuto di pensare che in quel momento ci fosse un pezzo di me; ai minimi termini dell’esistenza c’era un potenziale immenso, tutta l’eredità dell’umanità nella quale mi inserivo da in-dividua, cioè non-divisibile, intera .
Una chiave di lettura che prediligo mi fa risalire a Dio che non poteva comunicarmi una vita frantumata in briciole di materia, sia pure pregnanti di potenzialità: anche Lui non so immaginarlo che “Se stesso”, e non infinitezza indeterminata .
Mistero affascinante la vita singolarizzata, da non desacralizzare.
Il feto è un ente-altro
Emma Fattorini racconta di suo padre quando le spiegava che “quei grumi sarebbero diventati veramente bambini e che, noi donne, non li volevamo vedere per paura. E che la vita è la cosa più importante che l’uomo possiede. Anche per la donna e l’uomo che non credono. Si convertì allora al cristianesimo e divenne poi missionario in Africa”.
Pare che le donne sappiano istintivamente, e “benissimo, che quel grumo di cellule dentro di loro è un figlio degli uomini” . E infatti non c’è donna che non resti sorpresa nell’assistere al fenomeno che si verifica nel suo corpo; l’abbaglia la percezione del mistero di un atto creativo, in cui due mondi (i due semi) sono diventati un nuovo mondo .
Eppure parecchie di loro stentano, non sempre per motivi cogenti, a trarre le giuste conseguenze dell’alterità del feto; presumono che la loro vita si prolunghi in un’altra di cui avrebbero il possesso. Come se nel concepimento si fosse avviato un semplice meccanismo, e non fosse accaduta, invece, la novità inedita di una singolarità vivente.
Ed ecco in termini chiari il corollario di tale atteggiamento: nessuno deve intromettersi tra la donna e il concepito, nemmeno il padre; spetta a lei “scegliere” di assumersi l’onere di una maternità, esplosa forse in un momento e in un modo “sbagliati”, di una gestazione e di un dopo pieni di incognite. In determinate condizioni non si può replicare, ma non si deve nemmeno far finta che i problemi di fondo siano risolti attraverso tamponamenti di ferite, innervate in maniera carsica nel tessuto dell’umanità.
Non basta piegare l’analisi verso l’attenzione a tanti altri tristi fenomeni di carattere più vasto, come la morte per fame di tanti bambini, le guerre, le immigrazioni scomposte, l’egoismo folle dei potenti che tengono in pugno le sorti di miliardi di esseri umani, eccetera. La questione dell’aborto non è una fra tante; è più di fondo, sottesa com’è nello sconquasso di principi orientativi basilari, su cui si regge l’equilibrio armonico all’interno dei singoli e delle società umane.
La modernità che ha lodevolmente permesso la maturazione del concetto di dignità della persona, di cui finalmente le donne si sono ri-appropriate, è giunta ad un bivio da cui si diramano conseguenze sia positive sia negative. E’ ora di chiedersi se sia giusto assolutizzare l’autonomia della donna di fronte ad un’altra vita incapace di svilupparsi da sé, ma tale che contiene in nuce il tutto dell’umano.
Feto e persona
R. Armeni riconosce quanto abbiamo affermato: “Non quindi una semplice escrescenza, non un grumo di materia ma, sia pure in potenza, una seconda vita”. Quindi si affretta a precisare: “Dico “in potenza” non solo perché essa è priva di coscienza e di relazioni ma perché non può esistere senza la prima. Per un lungo periodo fa ancora parte del corpo della madre. L’uno si divide in due, ma la seconda entità è unita alla prima in modo così inscindibile che la donna nel momento in cui decide di eliminarla pensa di eliminare parte di se stessa. Per questo soffre, ma non si sente in colpa. Per questo parla di aborto e non di omicidio, per questo nel momento in cui la stacca da sé e si contrappone all’evento naturale della nascita compie un atto di violenza ma che è rivolto soprattutto al suo corpo che potrebbe diventare altro e non ad un “altro corpo””. Noto la ripetizione del verbo “sentire” (e simili), ben caro anche a me come in genere alle donne; e quindi non mi fermo su questo aspetto. Invece mi contrappongo alla sostanza di simile ragionamento che s’incentra sul concetto di “vita in potenza”: se tutto ciò che è necessario al feto per esistere si trova nel seno materno, bisognerebbe dedurne che egli ha una vita in prestito, appartenente più alla mamma che a sé. E’ così difficile rendersi conto che gli organi la cui funzione è ancora allo stato potenziale hanno un centro focale di riferimento che dà loro unità? Non è cieco l’occhio del bambino che non ha imparato a vedere. Non è senza cuore l’invisibile motore della vita di cui non si percepiscono le pulsazioni. Gli organi aiutati a svilupparsi funzioneranno grazie al nutrimento materno che alimenta l’esserino nella sua totalità, la quale non è in potenza; semplicemente c’é.
Trovo davvero imbarazzanti certe affermazioni di femministe non sprovvedute: Flavia Zucco indugia a chiedersi “se questi feti siano completamente formati ed in grado di vivere una vita autonoma”; e Claudia Mancina distingue tra “vita individuale” che ci sarebbe nel bambino e “individuo” che non c’è ancora. Insomma dovremmo aspettare che acquistino autonomia le funzioni per parlare di individuo.
Lo so: quando un ragionamento diventa serrato, ci si dibatte tra idee antagoniste, e cioè tali che o sarebbe valida l’una o sarebbe valida l’altra. Ne chiedo scusa perché conosco quanta complessità ci sia “dietro” e “nella” questione e non ne riporto i termini perché ormai di pubblico dominio. Ciò di cui non mi scuso è il diritto a rompere gli schemi del pensiero unico, che alberga purtroppo ANCHE nel cosiddetto pensiero di sinistra, tanto peggio se femminista….
L’aborto e la legge
Sarebbe bello che le donne e la società intera affrontassero la questione dell’aborto in territorio etico-spirituale, anziché legale. Parlando di legge, si slitta verso le definizioni, con relative proibizioni e concessioni, eccetera. E non ci avvediamo di cadere nello stesso errore che commettono “i vendicatori…, quelli che minacciano e talvolta uccidono i medici che praticano aborti, come è già successo negli USA” (Mancina); perpetuiamo anche noi lo stesso “clima culturale esasperato” che fa “crescere l’obiezione di coscienza e trasforma le donne da cittadine a mendicanti di un’assistenza che non è più un diritto, ma elemosina”; perché, “volenti o nolenti, questa discussione ha finito per colpevolizzare le donne” (Roccella). Ci troviamo di fronte ad “una discussione fra uomini fatta in perfetto stile maschile” (Tavella), tanto che anche Di Pietro parla di “un dibattito ideologico, sterile e imbarazzante”.
Vorrei dedicare due righe alla frase bellissima di Emma Fattorini, che ha fatto testo in parecchi ambienti: “la vita è un dono, non dovere né diritto”. Ma, come tutte le frasi belle, anche in questa potrebbe annidarsi la trappola dell’enfasi di una verità apodittica, come vorrebbe una dottrina ecclesiastica, ben rinverdita nell’attuale stagione culturale . In ogni problema umano, soprattutto quando sono in gioco il concetto di vita e fattori esistenziali, dovremmo astenerci dalle definizioni; ma anche dagli aggiustamenti retorici nei quali si “confondono” pseudo-definizioni opposte alle prime. Abbiamo un bel dire tutte e tutti: ” nessuno vuole l’aborto, ma la legge che impedisca discriminazioni, frustrazioni e nuove violenze legali a donne già violentate, il terribile “fai-da-te” di ci non può pagarsela clinica all’estero”. Tutto giusto; ma non ci preoccupiamo che la legge possa essere percepita come un lasciapassare facile, che può diventare mentalità abortista: “facciamo l’amore, tanto c’è la pillola del giorno dopo; volevo questo figlio, ma ora non mi sento di affrontare la gravidanza”, e tante, proprio tante espressioni di un’idea di concepimento semplicistica ad uso di soggetti non sempre e non solo ingenui.
La legge che vuole rimediare certi scompensi prodotti dalla modernità, non sfugge alla stessa. Mai come oggi essa divide su due fronte: laicisti ed “ortodossi”. Oscillazione funesta, perché la vera esclusa è una sana laicità, in grado di ricostruire valori prima agganciati ad un credo. A mio modesto parere, è scoraggiante l’odierna mancanza di ricorso a realtà di carattere trascendente, come dovrebbero essere i principi iscritti nella coscienza umana. Quest’ultima vacilla sulla pretesa autosufficienza della ragione ; non riesce a scavare in se stessa, e perciò sono più facili i cedimenti di fronte alla contemporaneità, anziché la volontà di ri-costruzione di principi orientativi forti.
E’ possibile una conclusione?
Il clamore, da ovunque venga, serve solo a stordire. Certamente, se tutto il problema dell’aborto inclina verso l’eugenetica – figli desiderati, sani e senza problemi – restiamo nel guado dell’ideologia. Già l’utopia di un mondo perfetto ci ha fatto intravedere, nella letteratura, lo squallore di una felicità assicurata attraverso programmi elaborati a perfezione. L’aurora di una giornata piena di incertezze e di attese è più stimolante di un’altra che ci consegni alla noia di certezze ripetitive senza sorprese.
Ma non voglio eludere le domande in bianco e nero che la “gente” si aspetta perché vuole tutto semplificato. Affronto dunque questo scoglio con domande secche e risposte crude (ma con un finale migliore):
D. Aborto sì o aborto no?
R. No.
D. Dunque un crimine?
R. Commesso dalla società che lascia sola la donna: costretta a tenersi in pancia il feto, o costretta alla libertà di scegliere ciò che non può scegliere, per mancanza di punti saldi e concreti di appoggio.
D. Aborto terapeutico, aborto condizionato, aborto assistito eccetera, sì o no?
R. Mai.
D. Non c’è altra via di uscita?
R. Una possibilità: de-condizionarsi dai cattivi maestri .
Ben venga una legge con tutta la sua provvisorietà; discussa tra i sì, i no, i ni: è sempre meglio che lasciare incancrenire situazioni sconcertanti. Ma che la legge non basti! Mettiamo in moto una coscienza non addomesticata da parole ambigue; una coscienza carica di responsabilità, e soprattutto permeata di “pietas”, che non sia stucchevole compassione. Che sia in grado di abbracciare il dolore del mondo, senza deturparlo con la spudoratezza di negarlo a tutti i costi; di affrontarlo con fortezza d’animo, con fede, con speranza, con amore.
Ausilia Riggi (donnecosi@virgilio.it)
i La vita appartiene sempre ad una singolarità. A ragione Heidegger pensava all’esserci (qui ed ora) come la vera realizzazione dell’Essere.
ii A volte penso che non rendiamo un bel servizio a Dio chiamandolo infinito, perché in tal modo egli sarebbe uguale al suo contrario, il Nulla. Il suo Essere è vero nella misura un cui è un Esserci nella sua Singolarità, o se vogliamo esprimerci in altro modo, nella sua Totalità. Il che vuol dire: Lui non si identifica negli attributi che gli diamo; è Se stesso.
iii “Si invoca il concetto di persona, come termine che identifica la piena dignità umana, e ci si chiede se ogni essere umano sia per ciò stesso anche persona. Nel feto c’è in potenza la razionalità, ma manca l’esercizio della razionalità; eppure ciò vuol dire che l’individuo è in grado, nelle dovute condizioni, di esercitare la razionalità, cioè di parlare, di fare discorsi intelligenti, di capire, di amare, di volere, ecc.” (cfr. C. Navarini, Procreazione assistita? Le sfide culturali: selezione umana o difesa della vita, Portalupi, Casale Monferrato 2005).
iv Una nuova vita è fin dall’inizio un tutto in cui è iscritto l’intero universo singolarizzato. Secondo la visione olistica la singola cellula nata dalla fusione delle due cellule genitoriali non è pura materia, dal momento che è vita. Che il pensiero scientifico debba andare oltre la semplice materia e tener conto anche della visione spirituale del mondo, lo ha sostenuto anche Albert Einstein, convinto che tutta la materia non è altro che energia vibrante con diversa intensità e frequenze. La visione olistica la troviamo anche nello studio dell’atomo da parte del fisico Wolfgang Pauli, premio Nobel nel 1945, che riuscì a dimostrare l’esistenza di una reale comunicazione dell’atomo come totalità, come se gli elettroni che lo costituiscono fossero costantemente a conoscenza l’uno della posizione dell’altro o della situazione in cui si trovano (Gabriele Bettoschi).
v Sandro Magister , in “Lobby benedetta, L’espresso 5 febbraio 2008”, afferma che la chiesa “non esige che diventi legge ciò che solo per fede può essere accettato e capito. Si batte a difesa di comandamenti che dice scritti nei cuori di tutti gli uomini, siano essi cattolici e no”; che essa “crede di saper rappresentare il comune sentire di una larghissima parte della popolazione italiana molto più di quanto sappiano fare i partiti, la cultura e i media dominanti”. Io mi permetto una nota nella nota: noi laici dobbiamo saper ascoltare PENSANDO. Diceva il cardinale Martini: “non si tratta di credere o non credere , ma di essere pensanti o non-pensanti”.
vi L’attuale papa, da teologo, vuole ridare vigore al connubio tra ragione e fede. In questo spazio limitato riduco la “vexata quaestio” ad una semplificata sottolineatura: volendo egli contrapporsi ai “mali” della modernità senza negare il valore della razionalità umana, si adopera a riconoscerne l’autonomia nel suo radicamento nella natura umana (dove per “natura” intende la legge divina iscritta nella creazione), sicché ragione e fede non potrebbero mai dissociarsi..
I Cattivi maestri non sono solo i permessivisti, ma anche gli insensibili e i ciechi osservanti di un credo e/o di una legge, che non sappiano interrogare il cuore e la mente della donna. La donna dovrà emanciparsi dalle schiavitù, e l’uomo dovrà ricostruire la sua umanità sotto il segno della paternità.