Lea Melandri
Che tra amore e odio, amore e morte, ci sia un legame che li fa apparire inseparabili, è una di quelle evidenze che sono rimaste per lungo tempo “invisibili”, poco interrogate e di conseguenza non soggette a cambiamenti. Ciò che li accomuna, infatti, è innanzi tutto il loro carattere di “invarianti” o “permanenze”: azioni che si riproducono quasi inalterate nel tempo e nello spazio, come se avessero una vita propria, fuori dalla storia. Nel Disagio della civiltà, Freud parla di una “coppia antagonista” di pulsioni originarie -Eros e Thanatos- che spingono in direzioni opposte: verso la conservazione e l’allargamento della vita, il primo, verso la distruzione e il ritorno all’inanimato, l’altro. Barbara Ehrenreich (Riti di sangue, Feltrinelli 1998) vede nella guerra un “modello di comportamento autoreplicante”, dotato di un proprio dinamismo interno, un’ “unità culturale” contagiosa e dotata di una forte capacità riproduttiva. Ciò che la civiltà torna a mettere in scena, in quel “rito sacrificale” cruento che è la guerra, avrebbe a che fare con il “trauma originario”, il passaggio dell’uomo da preda a predatore, dalla posizione di chi è minacciato all’esercizio della violenza, sia pure in difesa del gruppo. James Hillman ( Un terribile amore per la guerra, Adelphi 2004) considera la guerra una “forza archetipica”, una componente primordiale dell’essere, ubiquitaria e senza tempo. Astorica sarebbe anche la congiunzione con l’amore, la bellezza, la spettacolarità. In tutti e tre i casi, si conferma la tendenza diffusa a vedere in queste passioni umane il segno di una “fatale necessità”.
Un’altra ipotesi è che la coppia amore e violenza abbia a che fare con tutti i dualismi che conosciamo -natura e storia, individuo e società, ecc.-, e prima di tutto con quello che ha diviso, come poli opposti e complementari, il maschile e il femminile. L’ “enigma della guerra”, di cui parla Einstein nel carteggio con Freud del 1932, l’ “enigma del sesso” su cui va a urtare la ricerca psicanalitica, l’ “enigma del dualismo” che Otto Weininger mette al centro del pensiero filosofico occidentale, e, si potrebbe aggiungere, l’ “enigma della storia” di Marx, lo sfruttamento dell’uomo sull’uomo, rivelano parentele inequivocabili, se solo si scosta il velo di misteriosità che li ha fatti precipitare in una natura immobile e sconosciuta.
La differenziazione che ha collocato su sponde opposte la donna e l’uomo, la famiglia e la civiltà, ancorandoli nel medesimo tempo a logiche d’amore, di armonioso ricongiungimento, e di ostilità, rifiuto e cancellazione del diverso, non poteva che venire dall’interno della storia, come sdoppiamento di quell’unico sesso che se ne è fatto protagonista. Quando si definiscono le figure del maschile e del femminile, si può pensare che la donna, nel suo essere reale, sia già sparita dall’orizzonte, che sia già avvenuta quella riduzione al medesimo che ha permesso all’uomo di proiettare su di lei aspetti contrastanti della sua umanità: minaccioso deve essergli parso il corpo con cui è stato tutt’uno, in un rapporto mai estinto di dipendenza e attrazione, salvifica la possibilità di farne il custode di tutti i valori che non riusciva a trovare in se stesso e nei suoi simili. Sul luogo che è rimasto a rappresentare il “modello di ogni felicità” -la madre, l’origine, l’infanzia- convergono nostalgia e violenza dominatrice, idealizzazione e svilimento, bisogno di appartenenza e di fuga.
Se l’amore ha conservato così a lungo il suo carattere di “anelito originario”, sogno di “comunione” con un altro essere, riconoscibile nell’innamoramento, ma anche nell’Ideale che ogni volta trasforma una pluralità di individui in un’organismo unico e omogeneo (nazione, etnia, classe, ecc.) –“l’essenza dell’Eros, dice Freud, “è di fare di più d’uno uno”-, è anche perché la comunità storica degli uomini si è lasciata a fianco, separata, sottomessa ma pur sempre disponibile, la sua infanzia: una donna destinata a restargli per sempre madre, una casa, una famiglia, un luogo di appartenenza intima . Ma è proprio questo aspetto fusionale dell’amore, che arriva a spingersi fin dentro le faticose costruzioni della società, a muovere sentimenti contraddittori, di amore e odio.
Pierre Bourdieu (Il dominio maschile, Feltrinelli 1998) si chiede se l’amore sia una sorta di “tregua miracolosa”, uno stato di comunione che non esclude il riconoscimento reciproco, la sola eccezione alla legge del dominio maschile, una messa tra parentesi della violenza simbolica, “o la forma suprema, perché la più sottile, la più invisibile, di tale violenza”. Forse la distruttività è già dentro la diade amorosa, quell’unità sociale elementare che da millenni rivaleggia con la vita pubblica. Sàndor Ferenczi (Thalassa, Cortina 1993) vede nel coito una sorta di agguerrita reinfetazione, “la felice vittoria sul trauma della nascita”, “una festa commemorativa che celebra la liberazione da una situazione difficile”. Le immagini guerresche non sono solo metafore. Il privilegio del ritorno al corpo materno sarebbe l’esito di una lotta tra i sessi che vede il trionfo del maschio, del suo modello di sessualità penetrativa e generativa, per cui alla donna non resta che subire l’atto sessuale e ripiegare su piaceri compensatori: l’allattamento, il parto, l’identificazione con l’uomo
“vittorioso”.
Ma dove le contraddizioni legate alla persistenza del modello originario dell’amore appaiono più evidenti, è nell’analisi che Freud fa del “disagio” della civiltà. Dopo aver tentato di idealizzare la coppia madre-figlio come “esente da ambivalenze”, Freud è costretto a riconoscere che “l’uomo non è una creatura mansueta”: “Ne segue che egli vede nel prossimo non soltanto un eventuale aiuto e oggetto sessuale, ma anche un invito a sfogare su di lui la propria aggressività, a sfruttarne la forza lavorativa senza ricompensarlo, a sostituirsi a lui nel possesso dei suoi beni, ad umiliarlo, a farlo soffrire, a torturarlo e a ucciderlo”. Se Eros appare inizialmente come il fondamento di sempre più ampie aggregazioni umane, dall’altro è impossibile non accorgersi che esso entra presto in conflitto con la civiltà. Una volta che è riuscito a “fare di più d’uno uno”, a costruire unioni ideali, l’amore non vuole andare oltre, e ogni esterno gli appare minaccioso o superfluo: “La coppia degli amanti basta a se stessa”. Famiglia e vita pubblica, non solo non si pongono su una linea di continuità, ma finiscono per rappresentare l’una per l’altra un pericolo: “La civiltà si comporta verso la sessualità come una stirpe o uno strato di popolazione che ne abbia sottomesso un altro per sfruttarlo, e che vive perciò nel timore costante dell’insurrezione.”
La raccolta in un gruppo chiuso, omogeneo, è strettamente imparentata con la separazione da tutto ciò che dal di fuori sembra ostacolarla. Niente come la figura di un nemico serve a stringere aggregazioni forti e compatte. “L’essere vivente protegge, per così dire, la propria vita distruggendone un’altra”. Sotto questo profilo, che vede insieme apparentemente indistricabili amore e odio, conservazione e distruzione, si può leggere anche la nascita della comunità storica degli uomini, il bisogno del sesso dominatore di darsi una genealogia in proprio, una discendenza di padre in figlio, cancellando quell’origine “eterogenea” che lo lega al corpo della donna. Prima, o insieme alle “pulizie etniche”, l’umanità ha conosciuto una “pulizia sessuale”, l’espulsione del primo “diverso” che ogni vivente incontra nascendo e con cui è stato, sia pure per un breve tragitto, in una stato di assorbimento o di indistinzione. Ma nella spinta ad ingrandire la sua famiglia sociale, era inevitabile che l’uomo conoscesse altri movimenti analoghi, di accomunamento e chiusura, inclusione e settarizzazione. I legami che lo hanno visto nel privato come marito, padre, figlio, amante, si trasferiscono, a volte con accresciuta intensità, nelle sue relazioni pubbliche, in particolare là dove la vita del gruppo appare più minacciata. “L’intensità dell’amore di guerra – scrive Hillman- nasce dal crollo di tutti gli altri…la disperazione di una vita vissuta insieme comprime tutto l’amore umano in questi pochi con cui faccio la ronda, oltre a mangiarci, pisciarci, dormirci insieme.”
Là dove si costituisce una comunità/persona, quasi fosse un’unità organica, in guerra ma anche nei nazionalismi, nelle costruzioni identitarie, negli arroccamenti etnici, nell’assolutizzazione delle differenze, si può ipotizzare che si riattualizzi, come replica cieca o come ripresa aperta a nuove soluzioni, l’unione originaria con la madre, un modello d’amore immaginario, esclusivo, che vede l’apertura e la diversità come un pericolo. Nel libro curato da Maria Bacchi e Melita Richter, Le guerre cominciano a primavera .Soggetti e genere nel conflitto jugoslavo (Rubbettino 2203), il legame tra differenziazione dei sessi e pulizia etnica, costruzioni di genere e nazionalismi, è al centro di un interrogativo ricorrente e della elaborazione originale che ne hanno fatto le associazioni femministe, in modo particolare le Donne in nero di Belgrado, strette tra l’attivismo e la solidarietà richiesti dalle ferite della guerra, e il bisogno di capire perché, a parte una stretta minoranza, le donne abbiano dato il loro appoggio a un’ideologia così dichiaratamente patriarcale e guerriera.
Il nazionalismo, scrive Tanja Rener, fa leva sulla comunità e sul sentimento, sulle categorie premoderne della terra, del sangue, della famiglia. Le donne, relegate da sempre in queste zone di frontiera della storia, ma pronte a riemergere in ogni crisi o mutamento della civiltà, vengono sollecitate a riprendersi antiche prerogative, quelle che le hanno viste come custodi della casa, della prole, ma anche dei valori più alti della comunità: madri di eroi e baluardo delle virtù della nazione.
Negate sempre e comunque come individui, tuttavia, osserva Rener, mentre lo stato socialista le aveva considerate solo come “soggetti sociali”svantaggiati, da proteggere ed emancipare, i nuovi stati nazionali le riportano a quella “differenza specifica” che è stata contraddittoriamente il loro asservimento e la loro esaltazione immaginaria. “Le metafore nazionaliste della famiglia parlano di uomini come figli, padri e amanti della casa, patria, nazione…regressione, ritorno al seno materno del figlio che nella ‘fratellanza fra le nazioni’ aveva perduto la vera madre.” Se la nazione è un’idea tutta maschile, e la sua nascita è coincisa con il dominio di una comunità “omogenea”, in quanto fondata su una genealogia patriarcale, è innegabile, tuttavia, che il richiamo alla patria come “coesione organica”, rimanda al corpo materno e a quella irripetibile “fusione” di cui resta, amato e temuto, protagonista.
La coscienza che ha sottratto a una rovinosa millenaria naturalizzazione il rapporto tra i sessi, oggi può tentare di riportare alla storia –e cioè alla cultura e alla politica- altri enigmatici indicibili annodamenti, primo fra tutti quello che imbrigliando vita e morte, amore e violenza, ha impedito finora una messa in discussione radicale dell’uno e dell’altra, e quindi la presa di distanza dall’immaginario che li sostiene. Anche se ancora lontana, comincia a profilarsi la fine di una parentela (dialettica?) rovinosa.