I libri di Saskia Sassen sono disponibili alla Libreria delle Donne di Milano nel settore “Economia Politica” ( si veda anche il “Catalogo” nella nostra home page)
Intervista a Saskia Sassen
Benedetto Vecchi
Le spiegazioni della guerra degli Usa e dell’Inghilterra contro l’Iraq sono molteplici. Qualcuno ritiene Saddam Hussein un dittatore, pericolososo per il suo paese e per la stabilità internazionale, ragione sufficiente per cacciarlo via con ogni mezzo. Altri sostengono che la guerra serve agli Stati uniti per appropriarsi delle riserve petrolifere irachene; altri ancora ritengono che l’obiettivo di Bush sia molto più ambizioso: creare un ordine mondiale cucito su misura degli interessi statunitensi. Per te invece?
La terza che hai detto. Ma prima di risponderti, voglio fare una premessa per me
importante: questa guerra è illegale dal punto di vista del diritto internazionale e
ingiustificata dal punto di vista della minaccia reale rappresentata da Saddam
Hussein. Detto questo, sono convinta che l’intervento militare in Iraq fa parte di un
progetto più ampio che va ben al di là del mutamento degli assetti politici a Baghdad.
Bisogna però capire chi vuole questa guerra e quali saranno i benefici per gli
statunitensi. Per noi americani, il bilancio sarà disastroso. Costerà un mare di soldi.
L’ultima stima ufficiale è che la guerra all’Iraq costerà 75, 80 miliardi di dollari in più
di quello previsto in precedenza: una cifra enorme che peserà sul già enorme deficit
di bilancio. Sono convinta inoltre di quanto sostengono la maggior parte degli analisti,
che sono persuasi che questa guerra non porterà benefici all’economia. Magari andrà
bene alle imprese scelte due settimane fa dal governo statunitense per ricostruire
l’Iraq. Al di là del fatto che Bush ha preso questa decisione quando all’Onu era ancora
aperta la discussione sull’intervento militare o meno, va sottolineato che anche in
questo caso solo alcune imprese participeranno alla spartizione della torta. Quindi
possiamo dire che la guerra la vuole solo una parte dell’establishment economico.
Stando ai sondaggi, sembra però che gli americani la adorino: per loro è uno
spettacolo grandioso – e in effetti le immagini sono drammaticamente sbalorditive.
Un vero evento mediatico. Ma è una guerra dichiarata in un contesto in cui il governo
ha posto un’alternativa secca: o con noi o contro di noi. L’amministrazione Bush ha
fatto dunque leva sul patriottismo. I media si sono poi dilungati sulla notizia che Bush
e la Rice pregano insieme in ginocchio nello Studio ovale, evocando il profondo
puritanesimo della società americana e ingigantendo l’immagine di una nazione unita
dalla preghiera. A tutto ciò, possiamo aggiungere una variabile che sta pesando
molto nelle decisioni di George W. Bush e che riguarda un sentimento di intolleranza
dell’establishment neo-conservatore verso tutto ciò che potremmo definire «diversità
su scala globale». Gli Usa hanno costretto gran parte delle nazioni a diventare
neoliberiste, cioè a intraprendere politiche di privatizzazione, di apertura dei mercati
interni agli investimenti esteri, anche se questo significava lasciar morire di fame le
rispettive popolazioni. Credo, però, che gli Stati Uniti stiano abusando del proprio
potere. Storicamente, quando questo è accaduto abbiamo assistito alla fine dei
grandi imperi. È forse un’ironia della storia, ma quando un potere è assoluto,
vengono a mancare alcune condizioni che lo disciplinano e questo porta alla sua crisi.
[…]
Il movimento antiglobalizzazione è stato uno dei protagonisti dell’opposizione alla guerra in nome di un’alternativa al neoliberismo. Il New York Times ha parlato di un’altra superpotenza nel mondo dopo gli Usa, il movimento antiglobalizzazione. Come valuti le mobilitazioni di questi ultimi mesi contro la guerra?
Credo che il movimento antiglobalizzazione svolgerà un ruolo cruciale nel ridisegno del mondo. E’ infatti un movimento globale che propugna una cittadinanza globale, fattore che gli consente un protagonismo politico impensabile solo fino a pochi anni fa. In un’intervista con il manifesto (Marco d’Eramo, 22/04/2001) avevo affrontato il tema delle “micropratiche della cittadinanza”. Potremmo dire che ora ci troviamo di fronte a pratiche di cittadinanza transnazionale. Nel caso dell’Europa, questo è quanto sta emergendo con forza nel movimento contro la guerra in Iraq. Mi sembra cioè che i cittadini europei stiano andando oltre i propri leader nazionali, visti alternativamente come eroi (Chirac) o come farabutti (Blair), e stiano incominciando a costruire una pratica di cittadinanza europea che supera gli stati nazionali e i partiti politici nazionali.
I cittadini, e uso questo termine nel senso più ampio, non solo formale, dei paesi europei i cui governi sono storicamente rivali (Francia e Regno Unito, Francia e Germania), ora si uniscono attraverso le frontiere. Le immagini delle manifestazioni contro la guerra veicolate dai media globali alimentano questo sentimento politico che potremmo definire universalistico. Un senso di “europeità” sta nascendo ed è molto più sofisticato di quello che misura la Commissione europea per aumentare la partecipazione dei cittadini. Chi manifesta la sua contrarietà alla guerra mette l’accento su questa cittadinanza transnazionale e non sul conflitto fra Blair e Chirac. Così, gli inglesi vedono Blair un leader politico che mette in pericolo l’Europa e Chirac un po’ come un eroe. Allo stesso modo, i francesi pensano che Chirac debba gestire il conflitto con Blair in vista del rafforzamento dell’Europa e non solo in funzione della difesa degli interessi nazionali.
La guerra non ha solo degli effetti nei luoghi dove si combatte, ma anche all’interno dei paesi che l’hanno voluta. Dopo l’11 settembre, l’amministrazione Bush ha emanato delle leggi che limitano la libertà di movimento per i migranti e alcuni diritti civili…. Le città globali diventeranno delle fortezze presidiate militarmente?
Certamente. Non c’è alcun dubbio che la guerra in Iraq avrà delle ripercussioni globali e quindi anche negli Stati uniti. Il Patriot Act, la legge approvata dal parlamento dopo gli attacchi dell’11 settembre, ha ridotto i diritti legali dei migranti e di alcune minoranze. La paura degli attacchi terroristici porterà a una militarizzazione degli spazi pubblici, dei sistemi di trasporto. Questo è un elemento potenzialmente fascista all’interno degli Stati Uniti che prima o poi ci toccherà tutti, cittadini o migranti, minoranze sospette o meno, poveri o ricchi.
A proposito delle città globali che diventano fortezze ci sono alcuni dati interessanti del Dipartimento di Stato sugli anni Novanta che mostrano come, dopo il 1998, le città siano diventate il principale obiettivo degli attacchi terroristici. E’ inoltre molto probabile che la guerra contro l’Iraq avrà quello che alcuni studiosi chiamano un “ritorno di fiamma”, cioè spingere un numero impreciso di “indecisi” alla scelta terrorista e che le metropoli diventeranno sempre più “obiettivi sensibili”.
Da quando Bush e Blair hanno iniziato a parlare di guerra, abbiamo assistito all’aumento del livello di allerta in città come Londra o New York. Con il mio gruppo di studio sulle città globali abbiamo fatto una ricerca sui giornali Usa per vedere se dall’11 settembre ci fosse stato da parte dell’amministrazione Bush una qualche ammissione relativa due fatti: a) se il dipartimento di stato avesse mai diffuso questi dati; b) che andare alla guerra con l’Iraq avrebbe aumentato le possibilità di attacchi alle città americane più che ai militari ammassati nel Golfo. Non possiamo diventare paranoici e pensare che le città diventeranno stati-fortezze. Considerato quanto odio e disperazione ci sono nel sud del mondo, considerato la violazione del diritto internazionale e le sofferenze per i civili rappresentate dal bombardamento dell’Iraq, è sorprendente quanto poco terrorismo contro gli Stati Uniti ci sia. Ma da oggi, forse, la situazione cambierà, visto che gli Usa stanno offrendo molti incentivi per spingere molti giovani a varcare quella soglia oltre la quale c’è la scelta di morire combattendo contro il mio paese.
Le metropoli di una nomade
Mai una definizione come «la circolazione di cervelli» si addice a Saskia Sassen.
Olandese di nascita, ha passato la sua prima giovinezza in Argentina, trasferendosi
poi in Italia per approdare, infine, negli Usa, dove insegna all’Università di Chicago e
alla Columbia University di New York. Ma il suo nomadismo intellettuale la porta
spesso in Italia, in Francia e in Inghilterra. Attivista da sempre nella «nuova sinistra»
è però poco incline al dogmatismo che caratterizza spesso il pensiero critico
statunitense. Il suo nome è divenuto famoso per un saggio sulle Città globali, una
analisi particolareggiata del ruolo di New York, Londra, Tokyo nell’economia globale (il
libro è stato pubblicato dalla Utet). La tesi centrale del volume è che in alcune città si
sono concentrati alcuni servizi finanziari, legali, di progettazione organizzativa, di
ricerca e sviluppo che sono indispensabili, per coordinarlo, a un processo produttivo
disseminato potenzialmente in tutto il pianeta. Proprio per questi motivi, nelle città
globali la «polarizzazione sociale» raggiunge il suo acme. Saskia Sassen ha in seguito
applicato questa griglia analitica a molte altre città, come San Paolo, Miami,
Singapore, Honk Hong nel libro Le città nell’economia globale (Il Mulino).
Oltre a questo tema, uno degli argomenti da lei studiati è la crisi della sovranità
nazionali nell’economia mondiale (Losing control, Il Saggiatore) e le conseguenze
sociali della globalizzazione economica (Globalizzati e scontenti, Il Saggiatore). Ed è
all’interno di questo argomento che è maturato il suo interesse per il ruolo delle
migrazioni nello sviluppo economico europeo (Migranti, coloni, rifugiati. Dall’emigrazione
di massa alla fortezza Europa, Feltrinelli), dove il migrante diventa la figura simbolica
della globalizzazione economica. B. Ve.