7 Ottobre 2004
Carta

Conoscenza, bene comune

Bruno Amoroso

La «società della conoscenza», lo slogan di cui sono pieni i manuali della globalizzazione e i documenti dell’Unione europea, è per noi un indirizzo sbagliato, lo scherzo di un amico o la stupidità di un nemico. La «conoscenza», nei discorsi dei paladini della globalizzazione e di ogni falsa «rivoluzione», è al massimo una innovazione del linguaggio, e, nella mente di chi ha escogitato furbescamente questo slogan apparentemente innocente, è un qualcosa che si acquisisce, si apprende da chi sa. Presuppone delle verità raggiunte o da raggiungere con la ricerca «avanzata» degli «illuminati» nei «centri di eccellenza». Noi comuni mortali dobbiamo sforzarci di «apprendere» e di «adattare» il nostro modo di pensare, di vivere e… di morire. Il problema, per loro, è che a noi non serve una «società della conoscenza», alla quale, comunque, non apparterremmo, ma una conoscenza della società, della quale siamo parte. In questo secondo significato, la conoscenza diviene un’altra cosa: non la causa della nostra alienazione, lo strumento della nostra omologazione ai cloni della scienza prodotti nel laboratorio del «villaggio globale», ma la capacità di pensare oltre il contingente e il «reale», di interrogarci sulle ragioni della distanza tra le nostre aspirazioni e il «mestiere di vivere». Se per conoscenza intendiamo la valorizzazione e la diffusione dei saperi esistenti e pazientemente accumulati nel corso della fatica quotidiana di donne e uomini in tutti i «villaggi del mondo», parliamo non di conoscenza ma di conoscenze, plurali dunque come lo sono le persone, le comunità, i paesi, le società che li hanno prodotti.

 

Immaginare
I saperi, dunque, sono altra cosa. Anzitutto sono nostri, di ciascuno e di tutti. Per questo diciamo che la conoscenza è un bene comune. Non è una definizione giuridica sulla proprietà o titolarità, e neanche un problema di distinzione tra «pubblico» e «privato». Dire che è un bene comune significa affermare che si origina, trasmette e applica da tutti verso tutti, pur restando legato alle specifiche di ciascuno, ai suoi luoghi di origine. È il prodotto di pratiche e relazioni sociali largamente condivise. Nasce dall’esperienza e dalla fatica quotidiana, lievita sui mille percorsi dell’esistenza.
Al contrario, la «conoscenza» di cui si fregia la nostra società, come la scienza, è considerata il risultato di un esperimento controllato e sempre riproducibile. Come la clonazione, appunto, ma non come la vita che è invece sempre diversa, unica perché vera. Saggiamente ci ammonisce Raimon Panikkar che 2+2 non sono mai uguali a quattro e se lo fossero, allora vuol dire che 2 e 2 non significano nulla dal punto di vista umano. Quindi, per noi la conoscenza è l’insieme dei saperi che nascono dal racconto e dalla riflessione di ciascuno sulle proprie esperienze. Esperienze che non si possono sommare, dividere o riprodurre, ma, proprio perché uniche e irripetibili, ne dobbiamo fare tesoro per capire meglio il valore della loro unicità e del nostro percorso. Il sapere esiste in ogni persona, è l’essenza della propria storia, esistenza mai solitaria, sempre condivisa.
Gli individui, invece, clone giuridico del diritto borghese, esistenze virtuali, non hanno storia, vivono una solitudine collettiva, possono solo apprendere. I saperi crescono grazie alla nostra capacità di immaginazione, al bisogno e alla volontà di andare oltre, in un presente e futuro diverso, migliore. L’unicità del sapere, il suo grande valore, nasce dunque dalla capacità di immaginare che, per ciascuno di noi, un’altra vita è possibile.

 


Condividere
Il sapere, al contrario della «conoscenza», è modesto, riservato, umano; nasce sulle orme dei nostri piccoli passi che, insieme a quelle di altri milioni di viventi, esprimono il fiume della vita e della storia. Nei saperi non parliamo di «flussi», di «moltitudini», «di masse critiche», ma di dialogo, di sinergie, di condivisione. Da questi incontri, scambi, non nasce il «mercato della conoscenza» ma i luoghi dell’incontro e i laboratori del sociale. I saperi non si brevettano, si offrono in dono, in una relazione sociale nella quale la gratificazione maggiore è essere ascoltati, riconosciuti, scoprire di essere parte di un mondo reale, autentico, impegnato come noi a risolvere problemi non uguali ai nostri ma, forse, simili. La conoscenza non ha qui luoghi separati da quelli della vita quotidiana, non richiede sperimentazioni in quelle «cattedrali» della conoscenza che sono le scuole e le università. Richiede, semmai, che le «cattedrali» vengano aperte a tutti, ridiventino un’appendice del vivere quotidiano che comprende anche la cultura, la ricerca e l’educazione. Il problema di riciclare i «maestri» dentro meccanismi di educazione e apprendimento diversi, diffusi, esiste ma è risolvibile.
L’apprendimento nasce anzitutto dalla propria esperienza. I saperi insegnano a ciascuno che si può imparare con gli altri, non dagli altri. La conoscenza come bene comune non affonda nel diritto, ma nei saperi che sono comuni poiché sono di ciascuno e, essendo particolari, di tutti. Nella «società della conoscenza», nella sua illusione di saperi codificati, esistono «insegnanti» e «allievi», «sacerdoti» e «fedeli», i tecnici e gli esperti della comunicazione. In questi insegnamenti, il mezzo diviene il fine come qualcuno aveva sapientemente anticipato negli anni sessanta. La «società della conoscenza» è molto impegnata alla ricerca di fondi, di spazi nuovi da occupare, di commesse da soddisfare.
Dateci più euro e noi cambieremo il mondo! è la domanda che viene espressa dalle università e dai centri di ricerca. Non interroga da dove vengono i fondi e dove andranno i risultati delle ricerche. Nessuno parla più di quale idea di educazione e di società sia alla base di tutto ciò. Il punto più alto di annichilimento culturale è quello raggiunto dai cantanti: mobilitati per non farsi ascoltare dai più interessati alle loro storie, e per farsi «comprare» dai pochi che possono pagarle anche se non apprezzarle. Il tutto, naturalmente, in nome dei «diritti di proprietà» e dei «diritti acquisiti».

 


Agire
Si tratta anzitutto di individuare presto e insieme i limiti della conoscenza che si vuole produrre con la «società della conoscenza». Un sistema di potere al servizio di un progetto di apartheid che la «conoscenza» dovrebbe legittimare. Paradossalmente il limite maggiore è più pericoloso di questa conoscenza è di non riconoscere limiti al proprio dispiego e alla propria investigazione. Il problema non si è mai posto per i saperi che nascono sui bisogni e l’esperienza umana quotidiana, sono naturalmente intrecciati con fattori culturali e religiosi [valori], non divengono mai un fine in sé ma sempre per qualcosa e per qualcuno. I saperi nascono e si trasmettono tra le persone nei luoghi della loro esistenza e convivenza dai quali, quindi, per definizione non prescindono. La «conoscenza» invece nasce nei luoghi «separati» del «mondo scientifico», ha un proprio sistema di valori, di valutazione e di governo che godono di grandi immunità.
Il passaggio dai saperi alla conoscenza produce sulle culture e le comunità gli stessi effetti devastanti che la supremazia della moneta e della finanza hanno prodotto, rispetto ai beni, sui mercati e sulle economie. I limiti di quantità, di qualità e di buon senso inerenti ai secondi sono estranei ai primi. La conoscenza non riconosce e non accetta limiti. È l’avvio di una spirale alimentata dalla sete di sapere e di potere fuori del tempo e dello spazio e come tale inesauribile. Ai saperi è connaturale il senso e la direzione dell’agire. L’obiettivo di rendere migliore il proprio cammino. Di rendere più agevole il raggiungimento degli obiettivi che ci si propone. I saperi non danno gli obiettivi, ma aiutano a trovare i sentieri migliori per arrivarci.
L’umanità dei saperi è in ciò: nell’essere dei docili, anche se faticosi, strumenti a nostra disposizione. Per questo, acquisire e diffondere i saperi significa anche avere un progetto da realizzare, agire. Il progetto ovviamente esiste sempre, ma il nostro è diverso. Il progetto della conoscenza nella «società della conoscenza» è un progetto di apartheid, il progetto della globalizzazione [solo e sempre capitalistica]; i progetti dei saperi sono quelli delle comunità umane [siano esse organizzate in villaggi, città, società, stati, ecc.]. Il primo è un progetto élitario, di «eccellenza», altamente competitivo. I secondi sono i «progetti degli uomini comuni», di risveglio delle comunità, di condivisione e solidarietà.

 

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