di Christian Raimo
La coincidenza quasi disgustosa di due dibattiti paralleli di questi giorni – quello sul processo per stupro per Ciro Grillo e i suoi amici a Porto Cervo polarizzato dal video di Beppe Grillo e quello della calendarizzazione della legge Zan – mostrano un vuoto teorico clamoroso: la riflessione sul maschile, e sulla violenza del maschile.
Un articolo del 2005 di Diotima ricordava il solco fondamentale del pensiero della differenza:
«La differenza sessuale rappresenta uno dei problemi o il problema che la nostra epoca ha da pensare» (Luce Irigaray).
Il femminismo giuridico – lo vogliamo far cominciare almeno con Olympe de Gouges? – non ha prodotto in Italia una minima alfabetizzazione che sia utilizzata nel dibattito pubblico? Chi si prende questa responsabilità? Alla fine di Femminismo giuridico (2019) c’è una bibliografia di almeno cento autrici, qualcuno le ha lette? Le ha insegnate a scuola?
Questa differenza non solo continua a non essere pensata (figuriamoci discussa), ma continua a non esserne capita nemmeno l’impostazione teorica. Nel 2014 Luisa Muraro doveva per l’ennesima volta rispiegare le basi di una prospettiva teorica:
«La differenza non è tra. Essa è in me, mi è interna e immanente, mi impedisce di identificarmi con quella che sono, mi mette in relazione con quella che non sono. Non c’è un’identità sicura e stabile nell’essere chiamata donna, e in questo si comincia finalmente a vedere un pregio».
Oltre la relazione teorica iniziale con Derrida e Lacan (che misinterpretano alle volte in modo clamoroso la novità teorica di questa prospettiva) sulla differenza in senso filosofico, quello che ha prodotto il pensiero della differenza nel contesto femminista sembra non aver toccato quasi per nulla la riflessione sul maschile. Eppure sono passati cinquant’anni.
Eppure la decostruzione di Irigaray di una tradizione del pensiero fallogocentrico sarebbe sembrata a chiunque si occupi di discorso pubblico il primo passo per affrontare il tema di quello che chiamiamo patriarcato.
Il pensiero della differenza ci lascia bibliografie preziose come L’ordine simbolico della madre, e oggi non abbiamo a disposizione – nel guardare il video di Grillo – una riflessione minimamente paragonabile rispetto al maschile e al paterno (da Zoja a Recalcati troviamo delle fenomenologie, al meglio descrizioni storiche, facciamo prima a rivolgerci a Zambrano).
Anche qui, persino nella prima metà del Novecento sembravano esserci stati dei pensatori che ci avevano aiutato a uscire da quello che non sapevamo ancora chiamare patriarcato e che chiamavamo almeno ontologocentrismo: dal Rosenzweig della Stella della redenzione a Levinas di Totalità e infinito o Altrimenti che essere, il riconoscimento dello sguardo dell’altro come principio di soggettivazione:
«Noi chiamiamo Volto il modo con cui si presenta l’Altro a me […] questo modo non consiste nell’assumere, di fronte al mio sguardo, la figura di un tema, nel mostrarsi come un insieme di qualità che formano un’immagine. Il Volto dell’Altro distrugge ad ogni istante e oltrepassa l’immagine plastica che mi lascia nella mia mente».
Il femminismo continua a darci ogni giorno esempi di riflessioni e pratiche rispetto alla costruzione di una soggettivazione situata, e rispetto al maschile non riusciamo minimamente a concepire la fecondità di un pensiero della differenza rispetto a questo tema così cruciale dal punto di vista politico? Come è possibile che Ciro Grillo possa accettare un ordine simbolico del padre che lo definisce “un coglione in mutande” senza prendere parola?
Come è possibile vedere nell’atteggiamento di Grillo solo il familismo amorale e persino la comprensione rispetto al dolore di un padre?
Come è possibile che Simonetta Sciandivasci scambi la presa di parola pubblica di Non una di meno, “Sorella io ti credo”, per una dichiarazione di colpevolezza già comminata? In Non credere di avere diritti (1987, la prima pubblicazione, 2017 la riedizione) si esamina l’importanza della filosofia della differenza legata a una sfera del diritto solo apparentemente universalistica.
Davvero Gipi ha fatto una vignetta così scema, dopo aver scritto uno dei più bei romanzi sul maschile in LMVDM, misconoscendo che non è la parola pronunciata da una donna in sé che va creduta in sé, ma l’importanza della “sorellanza”? Ossia di un confronto di esperienze, pratiche, riflessioni su di sé. Il personale è politico significa esattamente che non può esistere riflessione che non comprenda una relazione e una relazione significativa, e un pensarsi come differenza in questa relazione.
È lo iato tra uno vale uno rispetto a una vale molte.
Cosa ne viene alla riflessione sul maschile? Potrebbe essere molto: il riconoscimento di una non aderenza tra sé e l’idea di sé, tra la propria soggettivazione e il proprio corpo sessuato, una nuova riflessione sulla fratellanza o sullo sguardo del padre, per esempio. Non è chiaramente un campo inesplorato, ma lo è molto soprattutto dal punto di vista sociologico, pochissimo dal punto di vista filosofico. Anzi l’idea stessa di un pensiero della differenza del maschile sembra a molti una forzatura.
Qualcuno potrebbe trovare feconda una riflessione teorica che declina al maschile le parole di Muraro?
«Essa è in me, mi è interna e immanente, mi impedisce di identificarmi con quello che sono, mi mette in relazione con quella che non sono. Non c’è un’identità sicura e stabile nell’essere chiamato uomo, e in questo si comincia finalmente a vedere un pregio».
E questo non vuol dire abolire una dialettica fertile tra differenza e universalismo. Vuol dire finalmente attraversare quella dialettica, a partire però dalla critica delle tradizioni filosofiche che hanno al centro le identità.
Così veniamo, brevemente, alla questione complessissima del ddl Zan. La legge appare, come ribadisce spesso Giorgia Serughetti in maniera chiara un ottimo compromesso al rialzo; o come scrive Ida Dominijanni riconosce pure nel suo pezzo critico:
«Questa legge, si dice, colma un vuoto: nomina e riconosce gay, lesbiche, transessuali come soggetti particolarmente vulnerabili, dunque meritevoli di una tutela specifica, e codifica come specifiche fattispecie di reato la propaganda e l’istigazione a delinquere per motivi discriminatori basati sull’orientamento sessuale e sull’identità di genere (casistica poi allargata anche al sesso e al genere), aggiungendole alle analoghe fattispecie su base razziale, etnica e religiosa previste dalla legge Mancino. L’intenzione, ovviamente del tutto condivisibile, è antidiscriminatoria ed egualitaria, e punta a realizzare “quella pari dignità che la costituzione riconosce a ciascuna persona”, oltre che ad allineare la legislazione italiana a una risoluzione contro l’omotransfobia del parlamento europeo»
Qual è il rischio di questa legge? Che sia inutile. Non solo per quello che scrive Dominijanni: non è utile pensare di compensare un vuoto politico con un pieno giuridico. Le leggi su stupro e aborto furono compromessi, ma partivano da eccedenze che oggi non si vedono. Oppure sì? C’è sicuramente una sensibilità sociale che sta cambiando molto in fretta – e per fortuna – sulle discriminazioni di genere; dargli una dignità normativa potrebbe essere non solo il minimo riconoscimento, ma anche fertile di un attivismo politico?
Quello che continua a non cambiare è un dibattito pubblico in cui la riflessione sul maschile e la violenza del maschile non si riduca a un’imitazione quasi grottesca della pratica femminista, tipo gli uomini con le mascherine rosse contro la violenza di genere. Meritiamo tutt* di meglio.
La fecondità simbolica della differenza sessuale rimane ancora una promessa.
(minima&moralia.it, 27 aprile 2021)