Ciò che scrivo di seguito ha come cornice questo secondo convegno organizzato dal Cesp, un tempo di riflessione e di confronto che si propone non come parentesi tra le lotte, ma come parte di esse, e naturalmente il grande movimento che ha preso forma in questi ultimi mesi a partire dalle scuole elementari, per cui mi sento ora ancora più orgogliosa di essere una maestra.
L’argomento del convegno, Non abbiamo tempo pieno da perdere, invita a pensare in più direzioni – per esempio quella del rapporto tra tempo e crescita, tra bambini e bambine e tempi di esperienza, tra noi adulti che ci occupiamo di loro e ciò che possiamo fare accadere nelle classi; io scelgo di seguirne una, e cioè di dare voce agli intrecci tra le maestre che siamo e la scuola che abbiamo fatto finora.
Scelgo di parlare al femminile, le maestre, perché le maestre sono il novantacinque per cento della scuola elementare, senza nulla togliere a Gianluca, Gabriele, Andrea e Franco, maestri che ho conosciuto e che stimo, e agli altri che fanno questo mestiere con grande impegno e investimento emotivo e intellettuale. E dovendo più a loro che a noi l’essere qui in un contesto pubblico a parlare di scuola elementare, perché come maestre non abbiamo mai amato dialogare con la scena pubblica. Ma voglio che la lingua esprima quello che è, sapendo che ciò è importante sempre e soprattutto quando si vuole riflettere.
La prima vera preoccupazione che io abbia mai avuto da che ho iniziato a insegnare – una sorta di sentimento di incertezza, precarietà, non corrispondenza, e di lutto, per la scuola come è stata e come io l’ho fatta finora – l’ho provata alcuni mesi fa, quando mi sono resa conto che la nuova proposta di riforma scardinava alcune di quelle condizioni che negli ultimi trent’anni hanno fatto sì che noi maestre elementari abbiamo potuto fare una buona scuola. Tutor, frantumazione dei tempi e forse anche del gruppo classe, anticipo, abrogazione del tempo pieno: ciò che portano con sé queste “novità” sono un’atmosfera di fondo, un’idea di base, una prospettiva che taglia con ciò che abbiamo fatto fino a ora. Taglia senza indugi, come se niente fosse, come se non ci fosse nessuno veramente nelle scuole elementari, non veramente donne per la maggior parte, e uomini, che spendono la loro vita dedicandosi a questo mestiere, non veramente bambini e bambine che ancora oggi sono quello che sono e cioè appartenenti a quella fase della vita che ha delle caratteristiche tutte e sue e non si può ridurre ad altro, se non a costi umani altissimi.
Il tempo pieno è lo strumento che abbiamo accordato in questi trent’anni per fare una buona scuola e per vivere bene a scuola. Così è, molto semplicemente.
A me ha permesso di attraversare un periodo storico, quello degli anni Ottanta e Novanta, esercitando un mestiere che non presupponeva grandi fratture con la mia vita personale, non presupponeva una scissione problematica tra il mio desiderio di lavorare bene, di fare cose con senso, di partecipare alla vita della società contribuendo al bene comune, nonostante la tornata cognitivista e gli “attacchi” a un’organizzazione sensata, per esempio il dimezzamento delle ore di contemporaneità. Mi ha permesso di stare nell’eredità delle grande sperimentazioni degli anni Sessanta e Settanta da cui deriva il modello di scuola del tempo pieno, di starci imparando il senso della condivisione, della collegialità, del fare pratico, del fare immaginativo, del lasciare spazio al corpo.
A partire da quell’eredità negli anni ho visto le maestre che siamo continuare nella scelta della condivisione, della collaborazione, di grandi eventi culturali, legati all’interculturalità, alla pace, alla presa di consapevolezza di chi si è e chi sono gli altri e cosa possiamo fare insieme, insieme ai nonni e alle nonne, agli anziani del paese, agli extracomunitari, ai nostri vicini compagni delle scuole materne e delle medie. Tutti eventi organizzati coinvolgendo decine e decine di bambini e genitori, non più io credo per adesione a una visione del mondo che aveva una traduzione in un movimento politico, ma per risonanza.
Risonanza a che cosa? Io credo che abbiamo sentito risonanza con il nostro compito di stare vicino all’inizio.
Se lo dico così il mio mestiere, e quello di chi lavora nella scuola materna-d’infanzia, prende la forma che io sento che ha, di un mestiere di grande respiro, un mestiere che porta con sé un profondo significato simbolico sociale e culturale.
Stare vicino all’inizio sembra facile, ma non lo è. Perché? Perchè presuppone di rimanere in contatto con le cose essenziali, di base. Significa accompagnare le bambine ei bambini in un percorso in cui si giocano cose elementari, ma che appartengono all’ordine delle fondamenta, cose intorno alle quali tutto si ordina, prende senso e progredisce. Cose da poco? Chi ha il coraggio di dirlo… eppure per la nostra società sapere stare vicino all’inizio è tutto fuorché interessante.
Stare vicino all’inizio significa stare nel contatto, è dal contatto col corpo culturale dei bambini che le maestre sanno, sanno cosa fare, se di mattina o di pomeriggio, sanno quando aspettare perché qualcuno è assente, sanno quando è necessario dare una mano, o chiedere consiglio quando le vicende si complicano. Sanno dialogare con le loro passioni legandole alla didattica, che è un oggetto duro, in mezzo a tutto quel ben di dio che è l’intelligenza morbida, sfumata, sfrontata, leggera e spietata dell’infanzia, quella didattica che a volte sfugge, e sfugge via anche dai corpi bambini.
Saper stare vicino all’inizio: all’inizio c’è affetto e conoscenza, affetto e sentimento, affetto e emozioni. Stare nel movimento che si produce nella vicinanza a tante piccole creature e al loro esserci affettivo, quell’esserci nel sentimento della conoscenza, è questo che ha imparato chi fa bene la maestra. Per stare lì, stai in contatto con la tua vita, con te stessa, prima e di più che con le competenze tecniche.
Noi maestre e maestri ora siamo scesi in piazza, abbiamo invaso la Rete, penso qui a quello che sta succedendo nel sito di Rete Scuole, abbiamo tenuto assemblee, per dire no a questa riforma e insieme alle bambine e ai bambini e ai loro genitori stiamo dicendo pubblicamente in varie situazioni perché la scuola elementare funziona.
Io lo dico così: la scuola elementare funziona perché le maestre non praticano il mestiere ad arte, lo praticano con arte.
Le maestre non c’entrano quasi niente coll’essere professioniste. Le maestre sono molto di più. E molto di meno. Ed è attraverso questo più e questo meno che le maestre lasciano passare gli entusiasmi, i coinvolgimenti e l’esserci che distingue l’essenza del nostro lavoro da quello di chi insegna negli altri ordini di scuola. Le maestre sono donne che vanno e vengono da corsi, letture e partecipazioni a eventi sociali e culturali: vanno – ricevono, prendono, si infervorano – e vengono-tornano a scuola filtrando tecniche e approcci e specialismi attraverso l’intelligenza dello stare in presenza dell’infanzia.
Ma per praticare un mestiere come il nostro con arte abbiamo bisogno di uno spazio simbolico e concreto. Lo spazio che ha tutte e due queste caratteristiche è quello che si crea intorno all’essere in due, alla collegialità, alla collaborazione, alla corresponsabilità, all’avere un tempo generoso a disposizione. Quello spazio ora è messo completamente in discussione dalla nuova Riforma.
Ma i bambini non chiedono a noi un portfolio, o attività opzionali, o di essere tutorati: chiedono a noi di esserci, prima di tutto, stando lì al loro fianco, presenti con tutto il carico e la leggerezza della nostra e della loro storia. Quell’esserci è un elemento strutturale della relazione a scuola con i bambini e le bambine. Sentirsi chiamate in causa: è questo che per noi ne consegue, e di questa chiamata a esserci fa parte anche la fatica del fare la maestra. Per esserci a fianco dell’infanzia, abbiamo fatto scuola finora sporcandoci le mani, nei laboratori, nelle attività teatrali, nelle invenzioni del momento, nei pasticci dei bambini.
Le maestre sono donne che si sporcano le mani. Si sporcano le mani per il sapere. Per accompagnare le creature piccole a padroneggiare alcuni strumenti della nostra cultura. E’ indispensabile sporcarsi le mani se si è maestre, perché la materialità, la corporeità, la fisicità – della materia, in senso lato e duplice, della voce, del contatto, dello sguardo – sono la dimensione delle bambine e dei bambini con cui stiamo per quattro o sei ore al giorno per cinque anni. Il pensiero si muove dentro di noi e circola fuori di noi molto diversamente se la partenza è la mente, il ragionare, l’intellettualizzare, o se si parte dal corpo, e quindi dall’esserci affettivo, emotivo, con sentimenti e intuizioni e sensibilità…. Con le mani manteniamo un contatto intelligente con l’esperienza, e ciò che guadagniamo dall’esperienza lo manipoliamo subito dopo per farlo diventare di nuovo materia, come quando si cucina. Ed è di questa pasta che è fatto il nostro sapere.
Le nostre voci ora stanno contribuendo al passaggio che si può avere dall’esperienza diretta al sapere, e cioè al passaggio dall’esperienza di stare vicino all’inizio (all’inizio dei percorsi, all’inizio della vita, all’esperienza più che alla teoria) al sapere che può derivarne e di cui potrebbe fare tesoro la società, una società interessata al rapporto tra generazioni, non dimentica che il mondo è fatto ogni giorno da noi bambini-adolescenti-adulti, che siamo un po’ tutto, un po’ tutto assieme.
Gregory Bateson conclude uno dei suoi libri con una domanda: come insegnanti siamo saggi?
Io dico che sì, come maestre siamo sagge.
Cara Ministra, cara società, per dare una buona nuova forma alla scuola, non avete che da ascoltarci.