Marco Bersani
La partita sulla direttiva Bolkestein rimane aperta, ma tra le squadre in campo, a differenza di quanto scrive D’Argenzio sul manifesto di domenica 8 ottobre, ci sono anche i movimenti sociali. Perché se è vero che il rinvio a novembre della discussione in Commissione mercato interno del Parlamento europeo è stato dovuto ad un tentativo di “colpo di mano” da parte di destre, liberali e popolari verso un’interpretazione iperliberista della direttiva, è altrettanto vero, ed empiricamente dimostrabile, che ogni volta che sale la mobilitazione sociale in Europa, le istituzioni entrano in fibrillazione e finiscono per non trovare accordo anche tra forze che condividono lo stesso obiettivo. E’ stato così il 19 marzo scorso, quando una manifestazione di 150 mila persone ha riempito le strade di Bruxelles. Lungi dall’essere un provvedimento specifico, per addetti ai lavori, la direttiva Bolkestein è un disegno complessivo dell’Europa dei poteri forti, un unico mercato liberalizzato di forza lavoro e di servizi a disposizione delle multinazionali e del capitale finanziario. Una direttiva che tenta di sacrificare sull’altare della competitività internazionale un intero sistema di diritti del lavoro e di protezione sociale, di beni comuni e di servizi pubblici, azzerando nel contempo tutte le possibilità decisionali di qualsiasi ente locale. Una gigantesca messa in concorrenza di due Europa, quella storica con un ancora discreto grado di protezione sociale e del lavoro con quella di nuova entrata, dove si registra una caduta verticale del sistema dei diritti.
E’ l’Europa sognata da Blair. Quella che sul piano internazionale è fedele alleata politico-militare degli Usa, sul piano interno è un unico mercato indistinguibile per caratteristiche da quello d’oltre Atlantico e sul piano della cooperazione affida a eventi mediatici di “beneficenza” le proprie politiche e il proprio consenso. Un’Europa da respingere. Ma l’alternativa a questa può essere il cosiddetto modello franco-tedesco, come sembra leggersi nell’articolo di D’Argenzio? Perché “il compromesso Ghebardt”, sostenuto da socialisti e verdi in Commissione mercato interno, a questo allude. Un’ipotesi che lasciando totalmente inalterato l’impianto liberista della direttiva Bolkestein, tenta di temperarne gli effetti con alcune correzioni sul piano sociale, peraltro non arrivando neppure ad eliminare il famigerato “principio del paese d’origine”. Il modello franco-tedesco vuole un’Europa forte e in diretta competizione con gli Usa, ma sullo stesso terreno, quello del dominio sul sud del mondo (vedi accordi Gats e Nama, in sede Wto) a livello internazionale, e quello del dogma competitivo sul piano interno.
Lo scontro interno fra le elites europee e fra le grandi famiglie politiche continentali continua a non tenere conto di un terzo soggetto, da tempo affacciatosi sulla scena politica e sociale europea. La doppia vittoria del no in Francia e in Olanda al referendum sul Trattato costituzionale, così come le recenti elezioni tedesche (dove vengono punite le politiche liberiste del governo Schroeder ma anche quelle promesse dall’opposizione di centrodestra), ha messo in chiaro l’indicibile: i popoli europei resistono alla distruzione del welfare, alla precarizzazione del lavoro e della vita; i cittadini del continente non vogliono vivere nell’orizzonte della solitudine competitiva offerto loro dal libero mercato autoregolantesi. Continuano invece a pensarsi come comunità, ritengono beni comuni e servizi pubblici la vera sostanza del contratto sociale per vivere assieme. E li difendono.
Per questo l’obiettivo del ritiro della direttiva Bolkestein, su cui convergono i movimenti europei, i sindacati di base, ma anche consistenti parti del sindacalismo confederale europeo è tutt’altro che velleitario o testimoniale. Si situa al contrario dentro una consapevolezza ormai diffusa: la crisi della “strategia di Lisbona” e del processo di integrazione europea non può essere superata con uscite a “destra”, né con la riproposizione di politiche di governance della globalizzazione. Si supera partendo dal riconoscimento della possibilità di un’altra Europa. Un’Europa di pace, alternativa alla guerra globale permanente di Bush; un’Europa ponte verso il Mediterraneo e verso chi bussa alle sue frontiere con in tasca solo il desiderio di futuro. Un’Europa che riconosce uno spazio pubblico come spazio dei diritti universali, non negoziabili e indisponibili alle leggi del mercato. Per questo saremo in piazza. Con lo sguardo in Europa, ma con i piedi saldamente nel nostro Paese e nello scenario politico-elettorale che si apre. E qui una domanda finale è d’obbligo: dopo l’approvazione, nel gennaio 2004 in qualità di presidente della Commissione europea, può continuare l’assordante silenzio di Romano Prodi sulla direttiva Bolkestein?