Marisa Forcina
Nella società contemporanea, la sostanziale indifferenza nei confronti del lavoro come fonte di riconoscimento e di trasformazione sociale e politica di un contesto – lavoro che, però, nella sua frammentazione e flessibilità diventa sempre più pervasivo – non consente il radicamento di alcun senso di appartenenza a strutture collettive (professioni, classi sociali, sindacati, Stato e, persino, identità di genere). Tradizionalmente sono state queste configurazioni sociali a introdurre o rendere stabili dei cambiamenti politici. La disgregazione contemporanea di questi raggruppamenti e una politica che si appella al lavoro flessibile (o precario) sembra comportare anche una sempre più difficile possibilità di cambiamento o anche di partecipazione, attraverso la mediazione del lavoro, al governo del proprio contesto di riferimento. Gli orientamenti legislativi e politici istituzionali sembrano andare in questa direzione, ma intanto le donne sono oggi così presenti nel mondo del lavoro, con così alte percentuali in alcuni settori (scuola, sanità, giustizia, e vedremo in seguito ciò che questo significa) e questo è già un modo per essere presenti nello “spazio pubblico” (come Arendt definiva l’ambito politico) e costituisce già una forma di cittadinanza femminile che ha delle grandi potenzialità ancora non sufficientemente interrogate, che hanno già orientato e possono continuare a orientare in maniera più radicale verso un cambiamento sociale e politico fruibile da tutti, uomini e donne.
Va ancora esplicitato e raccontato il modo in cui le donne che lavorano oggi nelle istituzioni hanno assunto consapevolmente su di sé il peso e il valore del proprio rapporto col mondo. Non si tratta di opporre il valore o i valori della femminilità o dell’essere donna ai valori maschili o dell’essere uomo. La differenza sessuale non è in questa contrapposizione schematica e oppositiva di valori, ma è segno di un limite e di una parzialità, e assume valore quando il limite è riconosciuto, accettato e, in un qualsiasi percorso, da situazione ed elemento paralizzanti, viene cambiato di segno e fatto diventare, in qualunque fase di stallo, via d’uscita positiva.
Dunque non c’è da opporre un valore maschile a un valore femminile, un governo maschile a un governo buono femminile; c’è, semmai, da opporre a visioni universalistiche di governi e di democrazie, dei modi parziali, contingenti e però efficaci che, significando la differenza sessuale, consentono un cambiamento di strada, che può essere anche improvvisato e inaspettato, ma che sa stare nel tempo e nel mondo, reggendo e governando un determinato problema.
Sappiamo che la differenza sessuale si manifesta, ad esempio, in una donna, quando lei rende possibile qualcosa che nella indifferenza degli schemi, delle norme e delle convenzioni sociali, non era previsto, e non quando quella si appella a identità predefinite che la vogliono salvifica o salvata. Nell’università abbiamo visto al lavoro questa differenza che ha portato a luce contenuti nuovi nel sapere, che li ha trasmessi, che ha reso possibili scuole estive, master e corsi e convegni e riconoscimenti altrimenti impensabili. Abbiamo ravvisato anche la povertà di isteriche rivendicazioni di diritti che si appoggiavano al ruolo svolto per avere riconoscimento.
Sappiamo che non è, pertanto, solo la quantità di presenza femminile che può, di per sé, modificare lo spazio pubblico, così come tutti sappiamo bene che la democrazia non è solo questione quantitativa, e che non è solo l’espressione della volontà della maggioranza. Ma la quantità è già un dato non indifferente.
Il rapporto donna-governo non può funzionare come strumento di cambiamento sociale nella cruda immediatezza dei numeri che si appoggiano al binomio, ma ha bisogno di mediazione per diventare efficace e trasformativo del mondo dato; ha bisogno di attraversare e di attivare dei percorsi femminili di riconoscimento e di valorizzazione e di stima (si tratta di una pratica più sfumata rispetto all’affidamento teorizzato sul finire degli anni ’70 in Italia). Questo non per un rispecchiamento nell’altra e per un trovarvi l’appoggio e la conferma della propria esistenza o della propria identità, ma per dare parola e rendere dicibile l’esperienza e il desiderio femminile del mondo.
Il lavoro è stato ciò che storicamente ha consentito di avviare processi di identità e di riconoscimento, che permettevano, specularmente, l’accesso e la modificazione dello spazio pubblico, e proprio il lavoro, ancor prima del riconoscimento formale dei diritti, ha consentito e messo in scena modelli di identità sociale, di consenso e dissenso politico e progetti di cambiamento sociale.
Nella società borghese la pratica e la teorizzazione della cittadinanza, come insieme di diritti che sono riconosciuti ai singoli entro un contesto sociale, è stata parallela al riconoscimento che ai singoli derivava dal lavoro. Oggi, l’erosione delle appartenenze che derivano dal lavoro è equivalente all’erosione della pratica della cittadinanza, intesa anch’essa come status che deriva da un’appartenenza. E tuttavia, il bisogno del riconoscimento che avviene sia attraverso il lavoro che attraverso la modalità giuridico-politica della cittadinanza, che definisce le condizioni formali dell’appartenenza politica alla comunità di riferimento, è ancora molto forte.
Vorrei analizzare brevemente come e perché lavoro e cittadinanza siano strettamente connessi, e in quali forme la questione della difficile cittadinanza femminile, se è capace di assumere su di sé ed esprimere coerentemente la differenza sessuale, possa portare suggerimenti e cambiamenti innovativi in una politica del lavoro attenta ai soggetti che partecipano realmente ai modi e ai fini della produzione e soprattutto al governo di sé e quindi della democrazia.
Il lavoro come operazione di costruzione e di trasformazione del mondo è stato, tradizionalmente, strettamente connesso all’attività del soggetto e alla configurazione di una società dispensatrice di benessere per tutti coloro che avessero avuto, appunto, l’accesso al lavoro. Soggetti e società trovavano la loro piena integrazione politica nella rivendicazione del lavoro come diritto per ogni membro di quella relazione (e già questo altro non è se non una relazione di cittadinanza). La cittadinanza non è, quindi, solo legata per la sua nascita e costituzione, come pure tante volte si è ripetuto, agli imperativi universalistici di uguaglianza proclamati della Rivoluzione francese, e ai suoi ideali che, giustamente, Maria Luisa Boccia definisce “impermeabili” a ogni differenza (1), ma anche alle possibilità e alle varie modalità del lavoro.
L’essere cittadini implica la possibilità di partecipazione a processi di trasformazione del proprio contesto, così come storicamente è avvenuto per l’essere lavoratori. In un caso e nell’altro è ed è stato in gioco il riconoscimento di sé e dei propri desideri, la fruizione di un certo benessere, l’esercizio di libertà, il godimento di possibilità, la possibilità di una propria realizzazione integrale, fino all’esaltazione della creatività. La mancanza, invece, di riconoscimento di cittadinanza, equivale alla mancanza di esercizio di attività pratiche, libere e gratuite, e ciò comporta una mancanza di pratiche aperture di senso, di conoscenza, di critica, una rinuncia persino alla possibilità di ogni forma di governo, ossia della distribuzione del potere.
Sino all’inizio del ‘900 il lavoro è stato ciò che ha consentito l’accesso allo spazio pubblico. L’analisi di Max Weber ne è testimonianza con la lettura dell’etica protestante che, attribuendo al lavoro un’importanza decisiva anche sul piano della salvezza, ne aveva fatto una pratica di vita non inferiore alle altre per rispondere alla chiamata. È superfluo ricordare l’analisi weberiana di Beruf che associa il significato il significato politico e religioso a quello di professione, vocazione, mestiere. Negli stessi anni in Francia, anche Charles Péguy aveva richiamato una valenza rivoluzionaria connessa al lavoro-ben-fatto, in grado di essere l’equivalente di una preghiera, e, come quella, in grado di essere anche l’equivalente di uno statuto di identità trasformativa del mondo. Inoltre, anche il marxismo e il neomarxismo ne avevano fatto (ad es. Lukács) ciò che costituiva l’integralità dell’uomo, che però nel modello di produzione capitalistico era scaduto a mezzo e a merce.
In definitiva, l’uomo del marxismo era ciò che il lavoro gli permetteva di essere. Il riscatto dall’alienazione sarebbe avvenuto attraverso l’emancipazione non del cittadino, ma attraverso l’emancipazione da alcune determinate forme di lavoro: quelle della proprietà privata e dall’assetto capitalistico borghese della società (vedi di Marx La questione ebraica). In tutta la tradizione rivoluzionaria, fino alla istanze dell'”autonomia operaia” degli anni 70 in Italia, ogni nuovo progetto di cambiamento politico è passato attraverso il progetto di una trasformazione degli assetti lavorativi. Ma già alla fine degli anni ’50 il lavoro rivelava una serie di contraddizioni e una società di consumatori, descritta magistralmente da Hannah Arendt, si sostituiva alla società dove il lavoro aveva costruito identità.
Il nostro clima di sostanziale indifferenza verso l’identità che deriva dal lavoro, ha identificato la libertà come “libertà di consumare il mondo intero” (2) e questo ha avuto una ripercussione anche sulla politica, dove si consuma il potere e si aprono sempre di più dei vuoti di legittimazione e di consenso sociale. Proprio il bisogno di legittimazione politica e di consenso fa sì che oggi si cerchino le condizioni per nuove conferme sociali e si cerchino i contesti in grado di esprimere delle progettualità orientate con consapevolezza politica verso il cambiamento.
La questione della cittadinanza (vedi anche nel lessico dell’associazionismo contemporaneo i richiami continui “cittadinanza attiva”, “democrazia partecipata”, il riconoscimento di quote del 50% per la rappresentanza politica femminile) sembra aprire le porte a queste aspettative; tanto più che, richiamandosi esplicitamente alla sua matrice che è la democrazia della quale essa costituisce il banco di prova, la cittadinanza sembra recare con sé promesse di libertà, di uguaglianza e persino di felicità (v. E. Balibar).
In particolare, molto ampie sono le attese politiche rispetto alla cittadinanza femminile: dalle donne ci si aspetta anche la realizzazione e la rappresentazione politica della uguaglianza realizzata. Le politiche di pari opportunità sono state pensate, infatti, con questo fine, salvo a nascondere un meccanismo perverso che, includendo, assimila e cancella ogni differenza e quindi ogni possibilità di riconoscimento e di costruzione di una soggettività capace di orientare verso un cambiamento in direzione della realizzazione dell’uguaglianza. Non solo, ma il meccanismo meramente distributivo che sostiene le politiche di pari opportunità, paradossalmente, implica una mancanza di democratica e paritaria partecipazione al governo, perché la possibilità stessa di distribuzione di poteri è impossibile tra soggetti assimilati e cancellati nella loro differenza. La distribuzione è possibile tra soggetti presenti e individuabili, capaci di conservare la propria soggettività.
Scissa rispetto alla questione del lavoro, la questione della cittadinanza femminile è ancora quasi un ossimoro, perché le donne non sembrano ancora essere soggetti politici a pieno titolo, nemmeno nei tempi più recenti che hanno visto formalmente riconosciuta la loro cittadinanza, ma non pienamente espressa. Anzi, la cittadinanza femminile appare sempre di più come una contraddizione in termini, e non come una istanza che col tempo troverà il suo compimento. Essa è soprattutto una problematica questione politica e di governo in senso tecnico: la bassissima percentuale di rappresentanza femminile persino nei paesi considerati tra i più democratici dell’occidente ne è testimonianza.
Inoltre, ancora integralismi religiosi condannano le donne a una vita politica e civile subalterna e tradizioni arcaiche infieriscono sui loro corpi. Tuttavia le donne, attraverso le loro storie e il loro lavoro, testimoniano una consapevolezza politica partecipe e cosciente anche in contesti in cui sono state maggiormente asservite. È avvenuto in ogni tempo quando la differenza sessuale si è manifestata. È avvenuto con le varie “Madonna Oriente” e con Guglielma e Maifreda, è avvenuto con “le amiche di Dio”(3), è avvenuto con alcune significative filosofe e scrittrici del Novecento, è avvenuto in Italia con le donne che hanno fatto la Costituzione, è avvenuto tante volte, persino con ciascuna di noi.
Questa consapevolezza politica, passa anche attraverso il lavoro delle singole e diventa consapevolezza della differenza sessuale ogni volta che tra sé e il mondo qualcuna pone la mediazione dell’esperienza femminile riconosciuta. Si tratta di una modalità che può essere assunta come paradigma per una concezione nuova della cittadinanza, a patto che, appunto, la differenza sessuale riesca ad assumersi come significante. Quando, ad esempio, tante donne tra Sette e Ottocento si dedicarono ad attività filantropiche e aprirono ospedali, ambulatori, ospizi, case per bambini e per altre donne “svantaggiate”, agirono la loro esperienza della differenza e, insieme, governarono un passaggio epocale attraverso una pratica filantropica che aveva cambiato di segno e che risultò essere innovativa politicamente tanto da essere molto più simile alle moderne forme di Welfare che alle vecchie pratiche di filantropia.
Fu quello un esercizio e una pratica di cittadinanza che, certamente, non avrebbe potuto essere così denominata, e non lo fu, se dal punto di vista giuridico la cittadinanza si riferisce alle condizioni formali che definiscono l’appartenenza degli individui ad uno Stato, e implicano un bagaglio di diritti. Ma se il contenuto della cittadinanza si esprime anche nella scelta tra possibili cose da fare, tra politiche possibili, se esprime responsabilità riguardo alle scelte, se esprime la qualità della partecipazione dei soggetti, allora certamente la piena cittadinanza femminile ha origini lontane nel tempo e può persino mostrare un modo di governare.
L’in-differenza della politica, incapace di riconoscere altre modalità, al di là dell’inclusione politica delle donne nei suoi meccanismi e nella moderna rappresentanza politica, non è senza colpe. Il mancato riconoscimento della differenza sessuale in politica serve a evitare accuratamente possibili cambiamenti nelle modalità di erogazione e gestione del potere in tutte le sue varie forme, quindi nessun cambiamento effettivo di governo. Al contrario, se la nozione e la pratica della cittadinanza sono in grado non di richiamarsi alla loro origine razionalistica e universalistica, che definì l’ideologia borghese, ma a un pensiero critico, come quello della differenza, anche la democrazia potrà assumere connotati concreti e non formali.
Questo pensiero critico ha posto come prima basilare questione il fatto che un effettivo esercizio di cittadinanza dipende non tanto dalla effettiva rappresentanza, ma dalla rappresentazione che si dà di qualcuno.
Delle donne la rappresentazione che si dà è contraddittoria e inquietante o è ancora quella legata comunque a un’appartenenza al nucleo familiare. Se quest’appartenenza produsse esplicitamente nell’Ottocento la contraddizione di un’assenza dell’esercizio dei diritti civili per le coniugate e il riconoscimento per le nubili, oggi produce confusione tra single e madri e non madri; qui nuove retoriche provocano desideri indotti e costruiscono inquietanti identità in conflitto.
Per quanto il pensiero della differenza si sia sforzato di decostruire i percorsi identitari, nella gente e soprattutto in ognuna di noi, permane il desiderio legittimo di un riconoscimento di identità, che, pur non essendo statica e definitiva, permette a chiunque di riconoscersi nei vari cambiamenti e nelle diverse fasi della vita. La rappresentazione, veicolata dai media, della donna di oggi, come single forte e rampante e dunque non bisognosa di nulla, o come immagine legata alla casa e a possibili figli, produce confusione anche nelle politiche sociali e in quelle per l’immigrazione, dove gli aiuti non sono finalizzati ai singoli soggetti, ma alle famiglie, il cui peso sociale e personale ricade però ancora, nonostante molti provvedimenti, e come attestano molti dati, ancora sulle donne.
Con l’accesso delle donne a tutte le professioni la piena cittadinanza si direbbe realizzata. E sembrerebbe che solo la politica istituzionale che, in tutto e per tutto, è da considerarsi un lavoro, rappresenti, stranamente, oggi un settore particolare del mondo del lavoro, il settore dove si trova la percentuale più bassa di presenza femminile. Ma questi dati bassi non possono essere considerati in maniera totalmente separata rispetto alle percentuali di presenza delle donne nel mondo del lavoro.
Analizzando le percentuali di personale femminile in servizio nei vari settori, troveremo dati interessanti:
nei Ministeri le donne sono 47,3%
Scuola 74,3%
Magistratura 33%
Carriera prefettizia 44,4 %
Enti pubblici non economici 51, 3 %
Università 40,8 %
Segretari comunali e prov. 35,4%
Servizio sanitario naz. 58, 6%
Enti di ricerca 37,5%
Regioni e autonomie locali 45,4%
Questi dati ci dicono non solo che dove si accede per concorso, ossia dove la preparazione dei soggetti viene sottoposta a valutazione quantificabile e comparativa, le donne accedono in percentuale alta: vedi scuola, sanità, magistratura, università e ricerca. Ma ci dicono anche che la presenza femminile è maggiore nei segmenti più importanti per una società, che sono, appunto, la scuola, la magistratura, la sanità. Il dato della magistratura, con la presenza femminile del 33% ci rivela ulteriormente che le donne sono fortemente presenti anche nei luoghi dove solo da poco tempo, relativamente, hanno avuto accesso (com’è noto la carriera di magistrato fu aperta alle donne solo con la legge 66/63). Questo ci permette un confronto con il dato della rappresentanza politica e dice che, quindi, non è questione di tempi.
In quarant’anni la presenza femminile nel mondo del lavoro, e più in generale nella società, ha avuto un’ascesa esponenziale. Segno questo che la bassa percentuale di presenza femminile nella politica istituzionale non è solo questione di professionalità che tradizionalmente si sono strutturate sull’esclusione delle donne e che ora stentano a decollare. Se consideriamo poi che nella scuola, nella sanità, nella magistratura, nell’università e nella ricerca, che, ripeto, sono i settori trainanti di ogni società, la percentuale di presenza femminile è notevole, dobbiamo dedurre che non solo le donne esprimono costanza e professionalità nel lavoro, ma che i settori trainanti della società sono in mano femminile.
Questo è la cosa più importante e significativa oggi. E da qui dobbiamo, credo, ripartire per ogni ulteriore riconsiderazione sulla nostra posizione di donne, cittadine, dopo la svolta che l’autocoscienza ci ha permesso di imboccare al passaggio degli anni Settanta. La parola responsabilità, anche quella di cittadine, dopo la stagione del separatismo, non ha più significato solo fatica e cura quotidiana volta agli altri, ma cura di sé, responsabilità di sé, per essere testimoni e garanti di un processo che aveva bisogno innanzitutto della nostra soggettiva capacità di ognuna di partire da sé, per sbloccare non solo la rigidità rassicurante ed escludente delle parole oggettive, ma per cominciare a governare davvero anzitutto i nostri bisogni.
Insegnare, curare, dire ciò che è giusto, ricercare non solo in maniera soggettiva, ma con la mediazione del nostro lavoro nelle istituzioni deputate, non è stato l’imprevisto bisogno teorico di una cittadinanza femminile, definita asimmetrica e incompiuta, perché nel governo istituzionale la percentuale di presenza femminile rimaneva sempre troppo bassa; è stato il modo concreto per prendere in mano la possibilità di governare un destino che ci avevano convinte fosse “naturale” e invece era storico anch’esso e legato a ruoli sessuali e a un corpo femminile descritto da altri in mille modi, e ancora non detto da noi stesse.
Certamente la scuola, la magistratura e la sanità non sono istituzioni senza difetti, tutt’altro; si dice che vi sia un indebolimento del livello generale, e ciò sembra essere il loro comune denominatore soprattutto negli ultimi anni che hanno registrato una forte presenza femminile. Possiamo rispondere che in quelle istituzioni, nonostante tutto, viviamo con grande agio e grande libertà, perché abbiamo imparato ancora da quella pratica che fu l’autocoscienza (definirei anche quella come forma di cittadinanza), che autonomia e autodeterminazione non sono pratiche che coincidono e che la libertà di scelta è una forma della soggettività, che esiste anche in presenza di eteronomia, cioè di leggi pensate da altri.
Pertanto, non abbiamo mai voluto a una scuola autonoma femminile o sessuata o una scienza sessuata o una sanità o una magistratura col fiocco rosa. Piuttosto, dopo Simone Weil e dopo Non credere di avere dei diritti, abbiamo capito che il diritto e diritti non valgono niente se non c’è qualcun altro che autorizzi quei diritti, una comunità di riferimento, una comunità femminile che li renda possibili ed efficaci.
La storia, e non solo Hobbes, ci insegna che il rapporto immediato tra sé e il mondo è un rapporto estremamente difficile e violento che espone ciascuno al dolore e alla morte. Per questo gli uomini hanno inventato le istituzioni che consentono un governo del mondo attraverso la mediazione di quelle.
Sino a qualche decennio fa, salvo delle eccezioni, la mediazione, anche per le donne, nelle istituzioni e nelle questioni di governo, è stata maschile; maschile la misura, e di segno maschile sono state le istituzioni e, con queste premesse, il cambiamento era proprio impossibile. Sino a quando è presente l’incapacità di riconoscere autorità ad un’altra, ad altre donne, la società rimanda specularmente un’immagine femminile svalorizzata, perché “la realtà esterna non manca mai di rimandarle indietro il giudizio che lei ha già pronunciato dentro di sé e cioè che quello che una donna pensa e vuole non ha valore”(4).
Invece, ritornando alla questione del lavoro e alla presenza delle donne nella scuola, nella sanità e nella giustizia, osserviamo quanto la loro presenza abbia già modificato quelle istituzioni. Più che le dichiarazioni d’impotenza ascoltiamo il nuovo che circola, ciò che le donne pensano, scrivono e insegnano e vedremo che già la differenza sessuale ha già iniziato un’operazione di governo.
C’è una coincidenza tra ordine sociale e ordine simbolico: da quando le donne hanno imparato a valorizzare il più elementare rapporto che le definisce socialmente, quello con la propria simile, anche la società non solo non mostra più scarsa considerazione, né usa le donne per la riproduzione dei suoi stessi modelli, ma è già stata modificata da esse.
La presenza così numerosa e a vari livelli, anche se mai ai vertici del potere, delle donne in istituzioni tanto importanti per una società, quali scuola, giustizia e sanità, ha già modificato una configurazione sociale e ha governato, attraverso il riconoscimento tra donne nelle istituzioni, un cambiamento che è ciò che ha consentito alla giovani ventenni-trentenni di oggi di essere e di sentirsi molto più libere nel progettare il proprio futuro, rispetto a quanto le erano le loro nonne.
È la stessa cosa che è già avvenuta in filosofia. Cito solo il titolo di un convegno internazionale indimenticato del 1992: Filosofia, Donne, Filosofie. Il termine donne, che posto in mezzo, fungeva da mediazione, richiamando e mostrando esplicitamente anche una differenza sessuale, governò allora un passaggio: la filosofia non fu più condannata a riprodurre la sua specificità ed essenza e quella di un unico logos, ma diventò plurale, nella libertà delle letture e dei racconti plurali. Aveva cambiato, ufficialmente, di segno.
Così il lavoro delle donne nelle istituzioni ha già cambiato di segno quelle istituzioni. In meglio? In peggio? Non è questo che ci interessa, perché dovremmo sempre chiederci rispetto a che cosa e a quali paradigmi di riferimento. Quello che è importante è che la mediazione sia stata femminile, e che, partendo da sé, abbia modificato il contesto, che in tal modo ha assunto una valenza di pluralità e nella pluralità c’è posto anche per l’espressione di un desiderio femminile(5); quindi in qualche modo quelle istituzioni oggi rispondono anche a ciò che noi desideravamo. E anche questo è un cambiamento in direzione di una esperienza di democrazia. Noi che siamo qui dobbiamo però ancora capitalizzare e significare i vantaggi della stagione della nostra storia, perché già un’altra mediazione, quella più neutra di tutte, quella del denaro, ci sta mettendo di fronte a un altro cambiamento e ci sta sfuggendo di mano il segno e il senso di ciò che abbiamo fatto e di ciò che sopraggiunge.
L’indifferenza della politica istituzionale nei confronti del valore identitario del lavoro, cerca di mettere tra parentesi, presentandolo come insignificante, il fatto che nelle istituzioni e in quelle più importanti e prestigiose, una sempre maggiore presenza femminile, con il proprio lavoro, abbia già governato e espresso un cambiamento, consentendo una pluralità di inserimenti femminili nello spazio pubblico e, di fatto, abbia già realizzato una maggiore governo democratico di quello spazio. Di fronte a questa vera e propria rivoluzione che è sotto gli occhi di tutti, una sorta di paura del cambiamento àncora il potere alla sua gestione tradizionale e il potere cerca tutti i modi per riprodurre se stesso, cooptando solo chi è omologo a sé: uomini e donne.
Ma noi sappiamo che la politica della differenza sessuale non può essere arrestata o promossa con meccanismi o giochi di provvedimenti presi dal potere, semplicemente perché essa è un dato della realtà e dipende solo da sé e non dagli altri, nemmeno dai poteri più forti.
Per questo è libera. E la sua libertà, praticata – anche attraverso il lavoro – come forma di cittadinanza e come funzione critica, è garanzia per la democrazia.
(1) Cfr. Maria Luisa Boccia, La differenza politica. Donne e cittadinanza, Il Saggiatore, Milano 2002.
(2) Hannah Arendt, Vita activa, trad. it., Bompiani, Milano 1989, p. 93.
(3) I riferimenti sono ad altrettante ricerche di Luisa Muraro, facilmente rintracciabili nella sua bibliografia.
(4) Libreria delle donne di Milano, Non credere di avere dei diritti, Rosenberg & Sellier, Milano 1987, p. 194.
(5) Lia Cigarini, La politica del desiderio, Pratiche Ed., Milano 1995.