Stefano Ciccone
La cronaca delle nostre città è di nuovo segnata dalla violenza contro le donne, l’ultimo caso a Roma. Donne picchiate e segregate dai mariti, donne violentate per strada, nelle loro case, nei locali notturni “bene”, donne provenienti da altri paesi ridotte in schiavitù e costrette a prostituirsi, donne sottoposte a ricatti sessuali sul lavoro.
Nessuna area della nostra società è esente da questa tensione distruttiva e oppressiva. E’ possibile continuare a relegarla in cronaca nera? O non è necessario farne il centro di un’iniziativa politica e culturale? Dico politica perché credo che la violenza sulle donne sia espressione di un sistema di valori, di un modello di relazioni, di un’idea della sessualità, che deve essere posto al centro di una pratica collettiva di trasformazione. Se la politica non è solo gestione delle istituzioni ma conflitto nella società è necessario aprire nelle nostre scuole, nelle nostre città, nei luoghi collettivi di partecipazione un grande conflitto per una diversa civiltà delle relazioni tra donne e uomini. Un conflitto che come uomo sento non come una minaccia ma come un’opportunità, uno spazio per aprire anche per me occasioni di libertà. Per questo con altri uomini abbiamo lanciato un appello ad una presa di parola maschile sulla violenza contro le donne che non si fermi alla denuncia e per sabato prossimo, a Roma, proponiamo un incontro nazionale per rilanciare questa ricerca e l’iniziativa collettiva.
Al contrario la risposta emergenziale a queste violenze ha l’effetto di marginalizzare il fenomeno, di occultarne il carattere strutturale e pervasivo, di rappresentarlo come frutto di devianza, di patologie da porre sotto controllo, da reprimere. La violenza contro le donne dimostra così radici talmente profonde nella nostra cultura, nelle forme di organizzazione della nostra società, nel nostro immaginario che anche le strategie istituzionali, le nostre reazioni indignate, le nostre condanne rivelano una inconsapevole complicità con l’universo che la genera.
L’allarme porta il governo e i comuni a una rincorsa a iniziative basate sul controllo e la repressione, videocamere nelle strade, sistemi di allarme per le donne, inasprimento delle pene. Ma considerato che in Europa la violenza dei partner è la prima causa di morte e invalidità delle donne tra i 25 e i 44 anni e che più del 90% delle violenze avviene nelle nostre famiglie, è evidente come queste iniziative risultino, non solo per molti versi inutili, ma fuorvianti e anzi tese ad alimentare un clima che condivide lo stesso universo culturale in cui la violenza si genera.
Quando la cronaca scopre il velo sulla storia di una donna picchiata per anni dal marito che si sente in diritto di imporle di non avere rapporti con altre persone, di tenere gli occhi bassi al ristorante, di non leggere riviste a lui sgradite, tutti inorridiamo all’ascolto di anni di violenze e sevizie: si tratta di una gelosia patologica, è un malato o un immaturo incapace di stare in una relazione percependo il proprio limite e riconoscendo l’altra. Eppure non è così. Non è frutto di una patologia. Non è una storia estrema, isolata.
Il desiderio maschile segna quotidianamente gli spazi sociali, oggettivizza i corpi delle donne e riduce il loro diritto di cittadinanza nei luoghi pubblici. E’ un motore che muove montagne e attorno al quale ruotano miliardi di dollari l’anno. Si fa leva sul desiderio maschile per vendere auto, bibite, settimanali di politica ed economia. Per soddisfare il mercato indotto dal “desiderio” maschile nelle città dell’occidente, ogni anno migliaia di giovani donne vengono ridotte in schiavitù. Quando leggiamo della ragazza rumena portata con l’inganno in Italia, spesso da un amico di famiglia che la violenta, la costringe a prostituirsi per poi venderla, rimane in ombra il fatto che se i “gestori” sono stranieri i “consumatori” sono italiani. E italiani di tutte le classi, di tutte le età che pagano per poter fare sesso senza la “fatica” di una relazione, per sentirsi forti, per chiedere e ottenere quello che vogliono, per complicità col gruppo di amici con cui si passa insieme la serata, per un’idea di sesso che è bisognoso di uno sfogo frettoloso, in una strada di periferia.
Ma non solo la violenza contro le donne è sessuata. Anche le esplosioni di violenza che segnano la cronaca quotidiana delle nostre città parlano di uomini che uccidono per un banale diverbio, che sterminano la famiglia dopo un licenziamento o per un conflitto economico. Anche in questo caso si tratta di una violenza fatta da uomini strettamente legata al loro essere uomini. Un uomo che subisca un’offesa, perde l’onore su cui si fonda la sua virilità. Non può sopportarlo, come non può sopportare una donna che gli dica di no o che lo lasci.
Ogni storia ha una svolta quando quella donna smette di essere e di percepirsi vittima, la donna picchiata che chiede il divorzio, la ragazza rumena che denuncia il suo “protettore”. Eppure la legge, l’immagine televisiva, il senso comune continuano a vederle vittime: donne e bambini bisognosi di tutela più che portatrici di diritti. Le donne vittime e gli autori di violenza ridotti a marginalità, devianza, patologia. Resta invisibile il sottile filo che lega tutti alla comune appartenenza a un universo maschile, comune nella sua variabilità.
Che immagine del maschile emerge da queste storie? Uomini incapaci di stare in una relazione con una donna riconoscendone l’autonomia e la libertà e portati a esprimere la propria frustrazione in una violenza che paradossalmente diviene misura della propria passione o del proprio dolore.
Non basta denunciare la violenza, non basta stigmatizzarla, ridurre in una prospettiva di “civilizzazione dei costumi” quella che è invece, per me, una domanda di senso sulle relazioni tra le persone e degli uomini con se stessi. Non possiamo combattere la violenza con il richiamo a una virilità che ne è stretta complice ridefinendo un ordine che interdica il “naturale istinto predatorio maschile” o ne regoli l’espressione, ma esplorare, reinventare e rivivere questo desiderio, senza rinunciarvi. Costringere una donna ad un rapporto sessuale, comprare sesso lungo un viale di periferia, vivere la sessualità come il portato di un bisogno fisiologico “basso” e per sua natura predatoria: cosa mi dicono queste cose, oltre alla dimensione di violenza che le segna e all’inscindibile legame col potere, se non una desolante miseria? Dobbiamo riuscire a leggere questa miseria e proporre a noi e agli altri uomini un’altra vita, un’altra qualità delle relazioni e della sessualità. Per uscire dalla violenza, ma anche per noi.