Renata Puleo*
In Sicilia, quando insegnavo alle elementari, spesso mi capitava di sentirmi definire maestra di «scola vascia», di scuola «bassa». L’espressione conteneva più di una sfumatura spregiativa, resa ancora più evidente dal fatto che gli insegnanti maschi erano chiamati «professori», come i colleghi delle superiori. Alto e basso, metafore spaziali che mostrano, con evidenza fisica, un sistema di valori applicato ai saperi che in qualche modo perdura nella mentalità, nell’immaginario.
La scuola elementare ha una storia affondata in un sistema culturale classista, ma anche nel pregiudizio per cui ciò che è infantile è semplice, banale.
Se cerchiamo in un vocabolario il significato di «elemento» e di «elementare» ci troviamo al centro di un paradosso linguistico e culturale. L’elemento è il principio primo, costitutivo, basilare di un fenomeno, l’essenza, definita in filosofia «quel che è». Ma è anche il rudimento, il frammento grossolano. C’è qui la traccia di una credenza, oggi considerata priva di credibilità scientifica, che vuole che i bambini imparino muovendo dal semplice verso il complesso, per via di successive aggiunte e complicazioni di esperienze e di nozioni. La prima smentita anche intuitiva ci viene dalla lingua materna che si apprende immersi in un mondo linguistico adulto, in un bagno di acque profonde e torbide in cui imparare a stare a galla.
La Madre, che non a caso viene definita «porta-parola», usa una lingua fatta anche di gesti, di oggetti mostrati e nominati, di giochi che enfatizzano, sottolineano, guidano. Ma è solo un orientamento per una traversata complessa, non riducibile ai suoi elementi. La lingua si apprende dentro discorsi, dentro relazioni sensate, e già le prime parole-frase sono questo abitare un desiderio e una necessità.
Le «Indicazioni Nazionali», fornite a sostegno della Riforma Moratti, sembrano rifarsi proprio a quel pregiudizio sulla elementarità. Le competenze e i saperi personali e sociali sono oscurati, le cosiddette enciclopedie infantili azzerate. Sembra bastare il vecchio alfabetiere, il libro delle prime letture, gli schedari ortografici, la tecnica delle quattro operazioni. Forse gli estensori non sanno che già alla scuola di infanzia i bambini ragionano sulla funzione dello zero, sul concetto di uguaglianza, di differenza, di rapporto. Che praticano la lingua e la matematica come strumenti per osservare il mondo.
Ecco allora ritrovato il cuore dell’elementarità: è la dimestichezza che un buon insegnante deve avere con i fondamenti. Quindi, con i «fondamentali» di una disciplina, con le premesse senza le quali non si affronta nessun problema, quando sappiamo che i problemi umani, i problemi di conoscenza, del «comprendere», sono sempre complessi. Si dà il caso che le competenze siano la messa in campo di un saper fare trasversale, sincronico, per cui non c’è una attività, una modalità che è solo matematica, o solo linguistica. Esistono grandi «temi concettuali» da dipanare attraverso quello che se ne può dire in quel momento, in quel contesto, che è la classe, la relazione specifica.
Ecco allora emergere due «elementi» che caratterizzarono la scuola di base al suo nascere come una debolezza, e che oggi ne costituiscono l’aspetto più felice: l’unitarietà delle esperienze – non il maestro unico!- e la possibilità di scambiare parole costruendo pensiero collettivo. Penso al fare scuola frutto delle fortunate intuizioni e degli attenti studi dei nostri insegnanti migliori dentro la storia, la pratica politica del Tempo Pieno. Articolare il tempo per «fare matematica occupandosi d’altro», per dare fiato a una discussione intorno all’uso di una busta di plastica, per ragionare intorno a un paradosso linguistico che i grandi chiamano sillogismo. Dove non c’è distinzione fra apprendimenti alti e bassi, perché si tratta di mettere in forma le esperienze dirette, i cosiddetti fatti. «Elementare» è ciò di cui non si può fare a meno per comprendere.
Credo che la stagione di lotta non conclusa a difesa della nostra scuola sia nata anche da questo orgoglio per la sua elementarità. Per la forza che viene dal lavorare sui fondamenti affettivi, cognitivi. È una caratteristica visibile, trasparente, in questo senso pubblica.
* Direttrice didattica