Mya Montero*
Ero una donna ostaggio. Cercavo di non irritare il mio carceriere. Gli ostaggi, se si salvano, diventano eroi. Invece una donna che ha subito per anni violenza in casa è una che ha qualcosa che non va: ti viene appiccicata addosso una lettera scarlatta. Etichettarti come vittima compiacente serve a chi ti sta di fronte a esorcizzare la paura. Un giorno però ho detto basta: quando ho avuto una speranza di salvarmi la vita e ho pensato che lui non potesse più nuocere ai miei figli. Prima, loro piccoli, non avrei potuto: una persona può sparire, più persone no, di lasciarli non se ne parlava. All’ennesima violenza – un pugno in faccia, a freddo – ho capito che non era più questione di farcela o no: era un capolinea, mi poteva ammazzare, i figli si sarebbero trovati senza madre e con il padre in galera. Ho deciso: una città a caso, un treno, i miei risparmi. Non conoscevo nessuno, ma alla stazione c’erano le donne dell’associazione che mi avrebbe sostenuto. Oggi, dopo qualche anno, mi dicono: lei è fuori dalla violenza. Sinceramente non lo so: certo ho potuto dormire una notte intera, senza la paura di girargli le spalle. I primi giorni in questa nuova città avevo il terrore: ogni macchina mi sembrava la sua, eppure quando giravo per le strade, guardavo le vetrine, godevo di una nuova libertà. Ma la sera, nella casa segreta, mi chiedevo: “A cosa stai giocando? A fare la signora che va per negozi?” e tornava il terrore. Adesso non c’è quasi più, ma vivo sempre in clandestinità e ho nuovi problemi: il lavoro, la casa. Dopo l’uscita dalla violenza, non c’è una rete di sostegno: non ci sono affitti agevolati, il lavoro manca. Vivo, io che ho una professione, di lavoretti e dei miei risparmi. E resta la ferita: quant’è profonda lo scopri dopo. Quando ci sei dentro non riesci a vederla. Non sono ancora entrata, durante la psicoterapia, nella stanza oscura. Parlo d’altro. Non ce la faccio. E non ce la faccio, io che amo scrivere, a stare su una pagina più di mezz’ora: lascio perdere, è materia rovente. Gli avevo lasciato uno spazio emotivo grande: ero diventata quasi sua madre, volevo salvarlo. Anche se non ho subìto e mi sono sempre ribellata. Dopo pochi mesi di matrimonio, sono andata alla polizia. Mi hanno detto: “Ha un figlio, torni a casa”. Ecco perché mi fa soffrire essere additata come una donna quasi connivente con la violenza: non sono di una specie diversa dalle altre, ero solo molto giovane e innamorata. E ostaggio. Per i figli. Talvolta ho paura di soccombere proprio adesso che sono fuori, di essere segnata per sempre. Eppure sono gioiosa e grata per questa vita rinata. E fiera dei miei figli: sono sani, umani, di buon carattere. A volte sogno di prenderlo a schiaffi, mi sveglio urlandogli perché… Ma è rabbia, non odio. Non sono ancora del tutto salva: ma se non cado in quei pozzi oscuri riesco a vedere, domani, persino un amore possibile. Anche se, io, della solitudine non ho paura.
*È lo pseudonimo di una donna che è riuscita a uscire di casa e a denunciare le violenze subite. Il 25 novembre è la giornata internazionale contro la violenza sulle donne.