Un confronto tra passato e presente
Eleonora Martini
Esiste ancora in Italia l’aborto clandestino? La risposta, inaspettata forse, è sì. Non si muore più, per fortuna, perché si ricorre più ai farmaci che alla chirurgia, e le mammane rimangono solo un brutto ricordo del mondo precivilizzato. Ma il problema esiste ancora e riguarda sempre più donne immigrate e anche giovanissime italiane. Dati certi, ovviamente, non ce ne sono ma le ultime stime ottenute con differenti metodologie parlano di circa 15 mila casi l’anno, troppo pochi per essere presi in considerazione dalla relazione annuale dell’Iss. Nel 1998 erano invece circa 27 mila.
Che la legge 194 sull’interruzione volontaria di gravidanza abbia funzionato in maniera eccellente, è, come ha ricordato ieri il sottosegretario alla Giustizia Luigi Manconi, un dato «ampiamente noto e incontrovertibilmente dimostrato, avendo ridotto il numero di aborti di circa il 56%» dal 1980 ad oggi. Il sottosegretario si riferisce a quelli legali, secondo il ginecologo Silvio Viale del Sant’Anna di Torino: «La 194 ha ridotto dell’80% gli aborti clandestini che nel 1982 erano circa 130 mila». Una pratica non debellata, dunque, e anzi a quanto pare perfino un po’ in ripresa negli ultimi anni soprattutto tra le donne immigrate. Le quali, come ha sottolineato Manconi ricorrono all’aborto volontario e legale 3-4 volte di più delle italiane, arrivando a incidere per il 29,6% del totale nazionale. «La metà delle richieste di aborto da parte delle donne straniere – spiega il professor Mario Buscaglia, primario del San Carlo di Milano che ha studiato a lungo il tasso di abortività delle immigrate – avviene nel primo anno di permanenza in Italia e nel 25% dei casi nei primi tre mesi». Sono soprattutto le donne sudamericane e dei paesi dell’est europeo a ricorrere più facilmente all’aborto: «Dipende – aggiunge Buscaglia – dalla non conoscenza dei metodi contraccettivi e dalle gravi difficoltà economiche e di solitudine in cui spesso si trovano». A volte poi si aggiunge la paura, la mancanza di conoscenza e di fiducia nei servizi italiani, e così le donne preferiscono risolvere da sé. Il metodo più usato è l’assunzione di Citotec, un farmaco gastroprotettore per le ulcere e quindi prescrivibile dal medico (anche se con alcune restrizioni, introdotte ultimamente dell’Iss proprio per combattere questo tipo di utilizzo) ma che, come tutte le prostaglandine, viene venduto in molti paesi del mondo come farmaco abortivo. «L’Oms lo promuove al secondo posto dopo la Ru486», spiega il radicale Silvio Viale. «I cinesi invece, che usano la Ru486 dal 1988, spesso se la portano dietro clandestinamente – aggiunge Viale – Ma il fatto che sia illegale non vuol dire che questo tipo di aborto è anche insicuro, come è invece quello chirurgico a cui ancora alcune donne, soprattutto al sud, continuano a ricorrere clandestinamente. Il problema è che usano questi farmaci in modo errato». Viale racconta poi anche di donne italiane che «hanno vergogna e rifuggono il lungo iter stabilito dalla legge che le costringe a venire a contatto con decine di persone sconosciute». Oppure donne che si rivolgono al medico sbagliato: fanno la trafila, attendono l’appuntamento e solo dopo molti giorni, magari quando è troppo tardi, scoprono che si tratta di un obiettore di coscienza. «Provengono soprattutto dal sud Italia o da feudi del movimento per la vita come Pavia dove i medici sono praticamente tutti obiettori, ma abbiamo avuto notizie anche da donne incappate nel medico sbagliato perfino alla Mangiagalli di Milano». Viale ricorda che l’obiezione viene scelta ormai dai medici «solo per convenienza, o per stanchezza: non siamo tutelati dal sistema, per noi non ci sono indennità e abbiamo invece la responsabilità della vita della donna, al contrario di quanto avviene per chi lavora con le tossicodipendenze».
«Il problema è che in Italia esistono almeno due sistemi sanitari diversi: – aggiunge Carlo Flamigni, ordinario di Ginecologia di Bologna – quello del sud è pieno di medici obiettori e con poche strutture, mentre bisognerebbe investire sui consultori, agevolarne l’accesso, e far crescere la cultura del controllo della fertilità, come si faceva negli anni ’70 quando si andava nelle fabbriche, nelle scuole, e le donne del movimento parlavano con i medici». La chiesa, conclude Flamigni, «allora era molto più invadente e aggressiva di oggi». «Negli anni ’60 era proibito perfino parlare di anticoncezionali. Oggi è solo in difesa, munita non di un potere vero, personale, ma di un potere concesso dai politici».