Monica Benedetti
Sono un’insegnante, lavoro nella scuola con bambine e bambini e nuoto come tante nell’insensatezza di riunioni, progetti, POF (piano dell’offerta formativa), burocrazia…tutte invenzioni perverse di cui Vita Cosentino racconta con maestria da anni su V.D.. L’anno scorso, appoggiata da due colleghe, ho aperto un conflitto durissimo con il nostro dirigente, un uomo di sinistra, ex-sessantottino, con fama di “illuminato” -potrei proseguire…-, pieno cioè di tutte quelle caratteristiche che lo renderebbero in teoria più propenso all’ascolto, al dibattito e alla messa in discussione della situazione data. La proposta che portavo riguardava la modificazione della gestione delle risorse e della progettualità della scuola, per lasciare più spazio alla creatività e all’iniziativa di maestre e professoresse, che svolgono con troppo zelo sia il lavoro ritenuto spesso inutile previsto dal POF sia quello in cui credono veramente -in classe, con alunne e alunni- vivendo una situazione schizofrenica, improduttiva e sfiancante. Il mio dirigente, di fronte ad una proposta pacifica ma determinata, in un primo momento ha fatto buon viso a cattivo gioco: non ha bloccato l’iniziativa (che si stava allargando in altre scuole dell’istituto), anzi, ha promosso la divulgazione del documento scritto da noi, ma contemporaneamente l’ha boicottato banalizzandolo e ridicolizzandolo in tutte le sedi a disposizione.
Di fronte ad una manovra di questo genere, la rabbia mi ha dato alla testa; una rabbia lucida, l’antidoto migliore che io abbia mai sperimentato contro la mia personale paura di confliggere. Ho colto il mio dirigente a sorpresa nel suo studio e alla presenza di altre due persone l’ho ricoperto di critiche e di insulti, senza preoccuparmi di quello che sarebbe potuto succedere “dopo”.
E cosa poteva succedere, “dopo”? All’inizio di quest’anno mi aspettavo il proseguimento del conflitto, anche più duro dell’anno scorso, e soprattutto attacchi personali e professionali. Niente di tutto questo. Il dirigente ha manifestato stima nei miei confronti sia in pubblico sia in privato, ha accolto una parte delle proposte avanzate, ma in modo tale da non modificare in maniera sostanziale l’assetto del suo caro POF, ha continuato a menar il can per l’aia, a temporeggiare, a discutere falsamente, senza cambiare nulla di sé e del suo modo di lavorare con me e con altri/e.
Tutto questo avveniva nei giorni dell’attacco agli USA, ed è proseguito parallelamente all’inizio di questa guerra di cui mi sembra si parli molto senza un reale pensiero che mi spieghi il senso profondo di quanto sta avvenendo. Infatti, mentre il mio dirigente indietreggiava di fronte ai miei “attacchi” di parola e di richiesta di un pensare insieme qualcosa di nuovo, non manifestava alcuna paura o inquietudine e presa di posizione rispetto a quanto accadeva nel mondo.
Quest’esperienza mi ha insegnato cose per me sbalorditive. Mi sono trovata di fronte ad un uomo di potere che evitava il conflitto con me, proprio nel momento in cui io, vinta la mia personale -e forse tipicamente femminile- reticenza al conflitto, ero disposta a combattere. Mi sono trovata di fronte ad un uomo che aveva paura e, peggio ancora, non sapeva nulla della propria paura: quindi non si è nemmeno reso conto di aver spostato il problema così lontano da perderlo di vista, annullandolo.
Leggendo il numero scorso di V.D., riflettevo sulle relazioni tra uomini e donne nei contesti pubblici.
E’ vero che le donne possono avere paura di confliggere. Ma so che sanno anche farlo molto più di quanto sembri. Non auspicano la lotta, ma se la intraprendono la sanno condurre; la consapevolezza politica aiuta a distinguere il momento in cui il conflitto rischia di diventare lotta contro e distruttività allo stato brado. Quelle che hanno questa consapevolezza a quel punto spesso abbandonano perché sanno che la distruzione dell’avversario/a non porta a nessuna vittoria.
Perché il mio dirigente, come molti uomini che ho conosciuto, hanno paura di confliggere con una donna senza potere ma non hanno paura di pensare e veder accadere e magari appoggiare una guerra come quella che si sta combattendo? A furia di parlare della paura delle donne, abbiamo smesso di vedere quella degli uomini, e soprattutto abbiamo smesso di collegare la loro paura “in situazione”, il che li spinge a spostare i conflitti relazionali che dovrebbero affrontare in prima persona, carnalmente e a partire da sé, al luogo dove la spostano: il mondo, gli eserciti, la tecnologia militare, le popolazioni sconosciute e lontane che per loro sono assolutamente altro da sé.
Quindi mi sembra che ci sia una differenza fondamentale tra uomini e donne il cui discrimine non è né la propensione a combattere (più forte negli uomini, meno nelle donne), né la modalità (relazionale per le donne, lotta contro per gli uomini). Mi sembra piuttosto che una donna inizi a combattere quando sente di poter mettere in gioco il proprio corpo, la propria intelligenza, la propria emotività e sapienza; le guerre di una donna, politiche relazionali e anche militari che siano, vengono combattute impugnando armi e guardando in faccia l’avversario/a, senza fughe e prendendo molto sul serio la questione, che diventa veramente questione di vita o di morte, reale o simbolica che sia. Forse è per questo che le donne ci pensano sù di più, prima di iniziare una guerra, perché sanno che saranno loro in carne e ossa a doverla poi combattere, quindi resta l’ultima via possibile cui ricorrere.
Gli uomini no. Sono abituati a non combattere le guerre che contribuiscono a scatenare. Le creano, ma poi credono di non dover essere loro a combatterle, fermo restando che a volte il gioco sfugge loro di mano, e di qui i risvegli amari di quelli che si sono poi ritrovati a pagare in primis per situazioni che si dimenticano aver voluto a patto che ricadessero su altri. Gli uomini mi sembrano maestri a spostare i conflitti, per cui sembrano sempre più disposti a intraprenderli, e spostandoli su altro (e quasi sempre sulle altre) evitano così di pensare a quello che le donne invece sanno pensare: la paura per la propria vita, il proprio corpo, la perdita di coloro che amiamo, delle cose che abbiamo e di ciò che desideriamo per noi stessi/e e per il mondo.
I conflitti delle donne partono dalla loro incapacità di dimenticare il corpo, e con il corpo, mi viene da aggiungere, l’amore per la vita e la sua cura; quelli degli uomini partono dalla rimozione del corpo, dei legami, delle relazioni e quindi anche di sé1.
Per questo, per una donna come me, senza potere, è impossibile confliggere con un uomo come il mio dirigente, che pure ha potere. E’ anche impossibile imparare l’uno dall’altra/o, ascoltarsi e trovare la soluzione migliore ai problemi concreti e reali della nostra scuola, che sarebbe il senso del fare politica assieme. Mentre i cosiddetti Occidentali lottano contro un nemico invisibile (e bombardano il visibile), io mi trovo paradossalmente nella stessa situazione: il nemico/amico c’è, ma anche se sembra sempre al centro del mondo, non “si” vede.