Alba Sasso
Fuoco incrociato sulla scuola, pubblica naturalmente. Purtroppo sulla scuola in questi ultimi anni – e la campagna elettorale spinge a accentuare le semplificazioni – si è soliti intervenire con troppa leggerezza, con un deficit di cultura istituzionale e di conoscenza dei processi reali. Nel chiacchiericcio mediatico spuntano come funghi ricette e soluzioni. Ne cito alcune.
«Apriamo le scuole alla concorrenza», secondo l’idea che il sapere è qualcosa che ognuno si compra a seconda del denaro e del potere che ha. E ci sarebbe poi da chiedersi, se ci fossero delle scuole nettamente «migliori» delle altre – ma quali i parametri di questa misurazione? – chi avrebbe la possibilità di frequentarle? «Azioni di questo tipo» – ci dice un rapporto Ocse del 2003 – «si sono rilevate inefficaci». Né qualcuno è riuscito a dimostrare che la competizione tra scuole, anche in paesi di tradizione liberista, riesca a migliorare la qualità degli apprendimenti per tutti. Valga l’esempio del sistema statunitense, che ha prodotto e produce un alto grado di analfabetismo di ritorno o di illetteratismo.
Un’altra proposta che va in giro e vi prego di credere che non è uno scherzo (cfr. Andrea Ichino, Il Sole24ore, 22febbraio) è quella di multare con 50 euro al giorno gli insegnanti (definiti tout court assenteisti), anche in caso di assenza per malattia. E con quei soldi, data la pessima abitudine degli insegnanti di ammalarsi o addirittura di avere dei figli, pagare di più i «più bravi».
Buon ultimo Walter Veltroni. Che parla di svecchiare una scuola di tipo ottocentesco, arretrata, non al passo con i tempi, e fa l’esempio del tema in classe. Niente a che fare, pare, con una visione moderna e efficientista della scuola. Il dibattito sul tema ci riporta agli anni Settanta, a un percorso avviato da Tullio De Mauro, che ha sollecitato profondi cambiamenti nella didattica. Da tempo per esempio le tracce degli esami di maturità prevedono diversi strumenti di verifica della capacità di scrittura: dal saggio breve, all’interpretazioni del testo, etc. Oltretutto, se il tema servisse in alcune situazioni a imparare meglio a scrivere, che significa imparare a pensare e a documentarsi andrebbe bene anche quell’esercizio. Oppure dobbiamo chiamarlo report?
Nella scuola italiana, insieme a tante difficoltà, ci sono esperienze straordinarie, c’è capacità di ricerca, voglia di cambiare e di sperimentare. Semmai, è pericolosamente arretrato il livello dei finanziamenti nella formazione e nella ricerca. Il volume degli investimenti che il nostro paese fa in questo settore ci colloca saldamente ai livelli più bassi delle classifiche internazionali. Investire nella conoscenza vuol dire lavorare al futuro del paese, il più produttivo degli investimenti: solo ai sostenitori delle privatizzazioni questo non è chiaro.
I sistemi scolastici sono in difficoltà un po’ in tutto il mondo, ma il tema non è la misurazione di un presunto tasso di modernità. Questa è una discussione provinciale e senza respiro. Il dibattito internazionale è un altro, e cioè se il sapere è bene comune da garantire a tutti, come diritto alla crescita culturale e civile dei singoli o è un bene di consumo, dove è la domanda del cliente a decidere e a definire appunto l’offerta.
Sono convinta che i sistemi scolastici e non solo quello italiano, sono di fronte all’esigenza di costruire le condizioni per un miglioramento qualitativo dell’intero sistema e di aumentare il numero dei laureati e diplomati. Per rendere l’istruzione strumento di mobilità sociale, senza arrendersi all’idea di certificare percorsi di vita già decisi, già precostituiti. Per riconoscere davvero il merito in qualsiasi famiglia, in qualsiasi territorio si nasca. Il recente rapporto di Alma laurea – consorzio interuniversitario che fornisce la più ampia banca dati dei laureati in Italia – rileva proprio questo. Che i figli dei farmacisti fanno i farmacisti, i figli degli avvocati gli avvocati, i figli dei docenti universitari i professori, e così via, mentre i figli degli operai difficilmente prendono la laurea e – se la conseguono – guadagnano meno degli altri. Tutta questa propaganda su privatizzazioni, efficientismi, concorrenza, svalorizzazione della scuola pubblica è una resa a tutto questo. Si salva chi può. Come diceva Don Milani, si vorrebbe tornare a fare della scuola un ospedale che cura i sani e espelle i malati. Ecco, penso che l’istruzione nelle società moderne non possa essere solo un servizio a domanda individuale, ma un diritto e un bene da garantire a tutti, se non vogliamo – come diceva Paolo Sylos Labini – precipitare a rotoloni lungo la china di un paese a civiltà sempre più limitata. E che nel nostro sistema scolastico, dove il 93 per cento degli studenti frequenta una scuola statale, e dove i risultati delle paritarie (come ci ha documentato l’ultimo rapporto Ocse sono peggiori persino di quelli non brillanti delle altre scuole) questo sia il compito della scuola pubblica.
Per fare un vero passo avanti, bisognerebbe lasciarsi alle spalle questo chiacchiericcio, che punta a importare ricette che hanno avuto esiti fallimentari lì dove sono state sperimentate, e scegliere – innanzitutto – di prestare maggiore attenzione sociale alla scuola. Poi, di modificare conseguentemente la sua collocazione nelle scelte di investimento del paese, destinando alla formazione e alla ricerca almeno le stesse risorse (in percentuale sul bilancio pubblico), che vengono impegnate mediamente in Europa. Infine, scegliere di espandere la scolarità, a partire dalla scuola dell’infanzia, consolidare l’obbligo d’istruzione a scuola e non in percorsi di formazione professionale, e dotare il paese di un efficace e questo sì «moderno» sistema di educazione degli adulti. Solo se in modo visibile si rilancia la sua funzione strategica, sarà possibile infatti raccogliere le migliori energie culturali presenti nella scuola, ma non solo in essa, e affrontare il nodo di una riforma del sistema, ineludibile, che sappia affrontare il problema irrisolto di una crescita qualitatitiva della «scuola di tutti».