Maria Luisa Boccia
In una situazione segnata dalla guerra in Iraq, ho sentito, da parte di donne impegnate da decenni in una politica non centrata sul potere e sulla legge, formulare un dubbio sfiduciato sulla possibilità che la loro pratica riuscisse ad affermarsi rispetto a quello che appare un irresistibile, e sempre rigenerato, predominio della forza. Per lo più queste donne non sembrano disposte a ricorrere a metodi e linguaggi basati sulla forza. Tendono però a considerare troppo ampio il divario tra le loro pratiche e quello che appare il nocciolo aspro ed ineludibile della politica istituzionale, fino a ritenerle tra loro incommensurabili.
Viceversa da parte di molti uomini il netto ripudio della guerra si accompagna ad un esplicito richiamo alla forza. Il problema è quale forza opporre a quella scatenata dal potere dominante, e non già se si possa agire, e come, una diversa politica. In particolare Pietro Ingrao ha richiamato il valore di resistere “nel concreto dello scontro armato e della prova di forza”: “amo la pace – scrive – ma bisogna pur rispondere alla violenza”. Se questa è la priorità, agire politicamente richiede di pesare “sulla trama dei poteri che variamente pervadono il pianeta”, sapendo, tuttavia, che di questa trama la dottrina della forza è “ancora parte: una parte armata, violenta, ma tuttora controversa ”. Incidere sul nesso stringente tra forza, potere e politica è, per Ingrao, il problema lancinante e urgente del “che fare”, non affrontato dal movimento della pace e sul quale manca una riflessione pubblica.
Significativamente il discorso si chiude con un richiamo alla possibilità, indicata da Luisa Muraro, di “cercare salvezza in un altro ordine di rapporti”, strappandosi dal terreno dei rapporti di forza. “E’ un altro orizzonte”, osserva Ingrao, che “scavalca ”, ma non modifica i suoi ragionamenti e che gli fa annotare “la diversità (e forse il limite) della mia esperienza di maschio”.
Questa presa d’atto della differenza, come di due orizzonti, mi appare speculare alla sfiduciata constatazione, di parte femminile, del divario tra la propria pratica politica e quella, rispondente al maschile, che struttura il sistema dei poteri. Entrambe segnalano una difficoltà di relazioni nella differenza. Come se, tra uomini e donne, non potesse infrangersi la regola della complementarità di sguardi ed orizzonti, di identità e compiti, di appartenenze ed ambiti di vita e di mondo. Eppure non è più così, dal momento che le donne tagliano ed attraversano, con il gioco libero della differenza, tutte le identità ed appartenenze, tutti gli orizzonti possibili e tutti gli ambiti di esperienza.
La difficoltà tuttavia c’è e si fa sentire e impedisce di vedere che c’è altro dalla legge della forza, e questo altro è l’essenziale, proprio per la politica. Anche per contrastare la dottrina della guerra preventiva. Mi ha aiutato a misurarmi con quella difficoltà una frase, più volte ripetuta nelle corrispondenze dall’Iraq: “la vera posta in gioco è la conquista dei cuori e delle menti”. Per la quale conquista, si lasciava intendere, le armi possono essere controproducenti.
1 Settembre 2003
Via Dogana n. 66