Stefano Ciccone
Se la rivista marea mi ha chiesto un intervento sul tema dei conflitti non è in riferimento a mie particolari competenze ma ad una frammentaria esperienza che in tempi e forme diverse ha riguardato alcuni uomini ed a cui ho partecipato.
Il tema dei conflitti mi fa pensare immediatamente alle notizie di conflitti in cui il corpo degli uomini (un corpo dunque come il mio) è usato per violare i corpi delle donne del nemico, come strumento di guerra e di aggressione. Lo stupro etnico come modo per far precipitare il nemico in quell’abisso che da sempre minaccia l’identità maschile, quello della precarietà e dell’incertezza nell’evento della nascita e della riproduzione. Più volte in questi anni mi sono domandato di fronte agli stupri etnici, a cui stiamo di nuovo abituandoci, come sia possibile pensare un uso del corpo maschile che sia contemporaneamente strumento di violazione, tortura e degradazione e veicolo di relazioni d’amore. Di come quegli uomini potessero usarlo per violare i corpi delle donne di altre etnie e, tornati a casa per incontrare e amare i corpi delle proprie donne. E non posso pensare (come spesso paiono proporre le rappresentazioni di quei conflitti) che quei territori non siano umani e frequentati anch’essi dalle relazioni d’amore che conosco nel nostro mondo. Ne’ posso pensare che il mio corpo sia altro dal loro e la storia del mio corpo e della nostra civiltà sia diversa dalla loro. Non è una domanda retorica. E’ proprio che mi chiedo quale percezione gli uomini abbiano del proprio corpo per farne allo stesso tempo strumento di offesa e veicolo di relazioni d’amore. Di che qualità siano quelle relazioni e che corpi vengano messi in gioco in esse. Che corpi amino le loro donne e come trovino in essi conforto e tenerezza. C’è un solo corpo maschile? Possiamo prescindere da ciò che i corpi maschili sono e sono stati prima di noi?
Ma la forma particolare di conflitto di cui vorrei tentare di parlare è quella ingaggiata con il proprio sesso o il proprio genere da parte di uomini che non riescono più o non vogliono più riconoscere una “genealogia” maschile. Uomini con cui in questi anni ho provato a costruire una riflessione comune. Non è distante dal tema del possesso di (o dell’appartenenza ad) un corpo che indissolubilmente mi accomuna ad un universo maschile drammaticamente fatto anche di violenza.
Non mi addentro nella diatriba tra sesso e genere: sento quanto mescolati assieme siano dato biologico e dato storico culturale e quanto lo stesso corpo nella sua materialità sia inscindibilmente legato alla stratificazione storica di elementi simbolici e sociali che lo hanno plasmato.
Ed è questo che mi accomuna agli uomini: un corpo che ha una storia, la stessa storia con cui tento di creare una rottura, anzi con la quale tento di “agire” una rottura che sento già irrimediabile, con cui percepisco una distanza e nello stesso tempo un'”internità”.
Proprio nella polarità tra “natura” maschile e “maschilità” storicamente e socialmente determinata si sviluppa la ricerca avviata ormai molti anni fa nel tentativo di decostruire e rideterminare un’identità maschile. Riconoscere un universo maschile comune non rimovibile ma del quale assumere responsabilità e storia e nel quale ricercare un percorso diverso.
Un elemento che ha sempre contraddistinto e che mi pare segni ancora la ricerca maschile in questo campo è infatti la spinta volontaristica. Il tentativo cioè di rompere, in ragione di una scelta etica e solidale, con una identità maschile di cui si percepisce la connotazione oppressiva nei confronti delle donne. Ascoltando le prese di posizione degli uomini su questi temi, anche le più interessanti, mi pare restino sempre segnate dal vizio di una motivazione quasi esclusivamente etica. Si rompe con la solidarietà maschile in nome di un dovere etico di denuncia della violenza contro le donne, di rottura di un ordine oppressivo. Motivazioni da non sottovalutare e che sento tutte mie. E che credo siano una ricchezza da valorizzare. Ma vorrei capire quanto non lo si faccia anche per se stessi.
Qual è insomma la ragione di questo conflitto con il proprio sesso, di questa “diserzione” dalla solidarietà maschile? Una scelta di rinuncia di privilegi acquisiti per un atto di disinteressato “altruismo” o la ricerca dell’opportunità di esperire una ricchezza possibile della propria identità? Un atto solidale di cessione di potere e privilegi o anche un tentativo, usando una parola impegnativa, di “liberazione”?
Gli elementi di ricchezza che a distanza di anni ritrovo nel testo pubblicato da marea sono proprio nella critica di questa motivazione volontaristica e nell’intuizione di individuare la “miseria” della sessualità maschile come nodo fondante dell’identità che vogliamo destrutturare. La natura maschile non come dato definitivo ma come risultato di una stratificazione che, a partire da dati biologici ineludibili , come la disparità tra i sessi nel processo riproduttivo, ha prodotto una tensione oppressiva e distruttiva.
E quand’anche nella riflessione sull’identità maschile si è tentato di superare la molla puramente volontaristica e si è affacciato il tema della ricerca di una identità più ricca lo si è fatto assumendo una polarità essenzialistica tra “qualità” maschili e qualità femminili (magari determinate in funzione dei ruoli riproduttivi: tendenza delle donne alla cura e all’accoglienza) e invitando gli uomini a “scoprire” gli “elementi femminili” dentro di se e rimossi in nome della costruzione sociale della virilità.
Io credo che la nostra ricerca debba invece mirare al maschile come universo dal quale non si può tentare di prescindere: un universo non dato una volta per tutte e nel quale produrre conflitti che rompano l’ordine della complicità virile ma che non è possibile rimuovere pena l’autenticità di un percorso.
Accettare di porre dei limiti alla natura maschile in nome di convinzioni etiche o ragioni di convivenza tra i sessi (una natura ferina del maschile da irreggimentare nei canoni del convivere civile), mi pare di un approccio che, contrariamente all’apparenza, rischia di non “sovvertire” un modello che vede gli istinti maschili come una “naturalità” da reprimere o da governare, con una razionalità, altra dote virile che si qualifica proprio come capacità di regolazione di un corpo maschile per propria natura predatorio e violento. Lo schema apparentemente tradizionale dell’uomo razionalità e la donna “natura” che certamente trova molti riferimenti nei modelli culturali che segnano la nostra identità ha su questo terreno uno scarto e assegna all’uomo la detenzione di istinti e desideri insopprimibili determinati dal corpo e che la donna deve imparare a regolare, contrattare, mediare.
Si tratta di qualcosa non lontano dalla esperienza quotidiana di migliaia di ragazzi e ragazze che torna nei luoghi comuni di un desiderio maschile insopprimibile da regolare attraverso il legame affettivo con la donna o con la capacità di autocontrollo maschile.
Una sessualità maschile scissa dai sentimenti e dalle relazioni; semplice sfogo di pulsioni fisiche
Come abbiamo già scritto la rappresentazione del desiderio maschile come tensione parossistica discende dall’assunzione del maschile come unico soggetto desiderante che segna di sé il mondo e in ultima analisi come unica soggettività.
Non si tratta di un riferimento astratto. Il desiderio maschile segna quotidianamente gli spazi sociali, oggettivizza i corpi delle donne e ne riduce il diritto di cittadinanza nei luoghi pubblici. Si tratta di uno schema che molto meglio delle mie parole è spiegato da due belle e famosissime foto di giovani donne che camminano estranee in una città definita dall’incrocio di sguardi maschili. Che natura ha il mio sguardo? In cosa è diverso dallo sguardo degli altri uomini che incrocio comunemente sui corpi delle donne che guardo? E’ possibile uno sguardo diverso?
Scoprire il desiderio femminile e quindi la libertà e la soggettività femminile vuol dire anche fare una nuova esperienza del corpo maschile in cui la scoperta di un limite (l’esistenza di un’altra soggettività e di un altro desiderio, quello femminile) è un dato che non limita la mia esperienza ma mi rivela nuove potenzialità del mio corpo, mi offre una nuova esperienza di me non solo come soggetto desiderante ma anche come oggetto di un desiderio altro che non è semplice specchio del mio, non risponde ad un gioco delle parti in cui la donna simula la specularità del piacere e del desiderio maschile ma afferma la propria autonomia.
Da questo punto di vista, a proposito del tema dei conflitti, la lettura della violenza sessuale come risposta conflittuale maschile all’affacciarsi della libertà femminile nella società non ci è mai sembrata uno strumento efficace di lettura vedendo anzi nell’espressione della libertà e della soggettività femminile una leva per rompere uno dei meccanismi profondi che producono la violenza sessuale e che attiene alla percezione del corpo maschile. Il desiderio maschile come unico desiderio esistente ed il corpo maschile come un corpo da imporre, il piacere femminile sempre dissimulato e comunque speculare ai meccanismi di quello maschile. In ogni caso rimosso.
In questa rappresentazione della “miseria maschile” il desiderio è al centro: un desiderio rappresentato spesso come connotazione “bassa” della sessualità maschile che ne segue l’indipendenza se non l’antagonismo con i sentimenti e le relazioni ed il desiderio maschile come tentativo di segnare il mondo con la propria soggettività, una soggettività fondata come tentativo di superamento della sterilità di un corpo che non genera e che ha bisogno di “segnare” un altro corpo e di possederlo per affermare il proprio ruolo in quel processo riproduttivo che lo vede accessorio e marginale.
Come agire un conflitto contro un grumo così profondo e fondante che scopriamo dentro di noi? E soprattutto come costruire un percorso collettivo maschile di ricerca quando il conflitto principale che si vuole agire e proprio nei confronti del proprio sesso e con ciò che pare accomunarci con altri uomini?
Proprio il desiderio è tra gli elementi meno razionalizzabili nella nostra esperienza quotidiana e troppo spesso il nostro rapporto con esso ricalca modelli arcaici di virilità basati sulla sua normazione e non sulla sua “riscrittura”.
Si può corrispondere al proprio corpo? Questa domanda l’ho trovata in un noto testo sul transgender e sull’identità cyber, ne sento la potenza ma la piego ad una ricerca che non è invenzione di un’identità oltre l’appartenenza di genere ma tentativo di costruire un immaginario del maschile diverso da quello estraneo e nello stesso tempo pervasivo che le generazioni precedenti e la norma quotidiana mi rimandano. Si può essere in conflitto con il proprio genere senza essere in conflitto con il proprio corpo che della storia di quel genere è il prodotto? E’ possibile costruire un percorso politico di rottura con la storia e la quotidianità del proprio genere e con le corrispondenze che il nostro corpo ci rimanda che diventi anche occasione per reinventare un uso ed una percezione del nostro corpo e spazio, per nuove relazioni tra uomini? Nel mio immaginario e nelle cose che abbiamo scritto c’è l’invidia di una solidarietà femminile costruita a partire dalla comune appartenenza di genere dal condividere lo stesso sesso, oltre condizioni sociali disparate: un esempio che ho fatto molte volte e che posso scrivere è quello delle lotte per i consultori che hanno accomunato studentesse dei collettivi femministi e casalinghe delle periferie. Fatico a pensare un percorso parallelo di relazioni con i mariti di quelle casalinghe a cui mi accomuna spesso proprio quel corpo storicamente e simbolicamente connotato con cui tento di costruire una rottura.
La domanda sulla costruzione di una nuova relazione tra i sessi è per me una domanda relativa a come frequentare il corpo ed il desiderio maschile, senza rimuoverlo o negarlo ma tentando di reinventarlo.
Proprio nell’esperienza maschile la corrispondenza al proprio corpo ed al proprio genere è un dato mai archiviabile come acquisito, sempre frutto di un agire sociale in cerca di conferme. Il nostro corpo(portatore di pulsioni che richiedono governo e controllo) è nello stesso tempo silenzioso e rimuovibile e non ci assegna un’identità certa per sempre. La nostra virilità trova conferma sempre fuori di noi, nel confronto con gli altri maschi, nel possesso del corpo di una donna o nel desiderio che esprimiamo. L’esperienza dell’identità maschile è insomma tutta sociale nel senso che si costruisce nell’accesso nel mondo dei pari, nelle verifiche di virilità, nelle continue verifiche a cui è sottoposta.
Se anche il desiderio è infatti un prodotto di quella complessa stratificazione di materialità e storia ed in questo un terreno di libertà ma nello stesso tempo segnato dall’appartenenza ad un corpo; frequentare il desiderio maschile, scoprirne un’altra natura possibile è un percorso su cui superare l’alternativa tra la ricerca di una astratta natura fuori dalla storia del genere maschile o l’impossibile rottura con il proprio corpo in nome della ragione illuminista o della morale.
E’ soprattutto la tensione che può garantire autenticità ad un percorso così accidentato e disseminato di ambiguità e contraddizioni (rompere con la solidarietà maschile e con privilegi allo stesso tempo concreti ma percepiti come gabbie, “rubare” strumenti interpretativi e parole costruite dalle donne per esprimere la propria domanda, tentare un percorso collettivo che nasce non da una condizione materiale che produce solidarietà ma con cui anzi si vuole rompere…)
Un percorso che porta ad agire questo conflitto da una posizione ben descritta dal titolo di un libro di Christa Wolf che appare sulla libreria della stanza dove scrivo: “nessun luogo da nessuna parte”. Si potrebbe aggiungere: da nessun corpo.