Piero Colaprico e Franco Vanni
Il sussurro della “salat el mout”, la preghiera islamica della morte, si propaga sin nelle scale di questo palazzone di Cernusco sul Naviglio. La fede aiuta, anche se le lacrime non se ne vanno: “Speriamo che qualcuno ci aiuti davvero a capire”, ripetono gli amici, anche se capire questa Milano insanguinata non è facile.
Abdoul detto Abba non aveva neanche diciannove anni ed è morto a bastonate, sotto il cielo grigio e piovoso di ieri mattina, al termine di una notte passata a sentire hip hop, e a muoversi in tram, in un lungo sabato senza ansie, con gli amici al fianco e la musica in testa.
Poi quel bar aperto e deserto. L’idea di prendere una scatola di biscotti chissà di chi è stata, ma è lui che la paga cara. I baristi, padre e figlio, scaricavano un furgone. L’hanno inseguito e raggiunto, avevano le spranghe. Hanno lasciato sull’asfalto lo “sporco negro” che sanguina dalla testa. Lo vedono là rannicchiato sull’ asfalto e girano le spalle. Chiudono la saracinesca. E se ne vanno a casa.
“Sì, siamo stati noi”, diranno nel pomeriggio di ieri, quando vengono rintracciati dai poliziotti della squadra Volante. Hanno avuto i loro nomi grazie ai vicini del bar, persone che si sono svegliate per le grida, gli insulti, le botte, le sirene. Per quei due baristi, con qualche piccolo problema giudiziario alle spalle, che alle 6.30 si sono trasformati in assassini.
Via Zuretti non è l’Alabama degli anni Sessanta, Milano non è una metropoli con i quartieri ghetto dove la polizia non entra e Abdoul, detto Abba, tutto era, meno che un criminale. Non lo dicono gli amici, lo raccontano le cose e le persone che si vedono là dove abitava questo ragazzo dall’ “eterno sorriso”. A cominciare dal padre, un operaio corpulento, in tuta blu anche di domenica, mentre la casa – stanno all’ultimo e ottavo piano – si riempie di gente, con le donne in cucina, gli uomini in salotto, dove campeggiano gli arazzi dorati con la Mecca. Invece, dove dormiva il ragazzo, ci sono i poster: quello grande di “50 cent”, il rapper nero, scoperto e lanciato da Eminem, il rapper bianco, e poi ecco la foto del neo-milanista, il Ronaldinho con le treccine.
Religione e sport, tradizione e vita moderna, tutto si fonde guardando la mano callosa del padre, il signor Assane Guiebre, 53 anni, dalla quale scivola via la manina di un bimbo di cinque anni, l’ultimo nato in questa famiglia con cinque figli. Un bimbo che amava quel fratello maggiore estroverso, mai stanco quando c’ era da giocare. Se il piccolo è senza parole, il padre ne è prodigo: “Chiedo al sindaco Letizia Moratti di organizzare i funerali di mio figlio, di trasformarli in una manifestazione sulla sicurezza, perché Milano non è una città sicura se dei ragazzi di diciannove anni vengono abbattuti come animali. Bianchi o neri non importa, quello che importa è che in questa città si possa vivere. Chiedo allo Stato, a Berlusconi, a Bossi di spiegare agli italiani che gli stranieri non sono delinquenti, perché qualcuno fa presto a prendersela con noi”. Tiene i nervi saldi, questo padre: “Mio figlio – ripete – era bravo, lo dico io, ma chiedete in giro, a chiunque. Anche l’ultimo mio bambino sarà educato come ho educato gli altri, come ho fatto con Abba. Gli dicevo di non avere paura. “Non farti spaventare, sei italiano”, ma bisogna rispettare per primi se si vuole essere rispettati, anche al piccolo dirò lo stesso”.
Forse qualche milanese vedendo la foto di Abba lo riconoscerà. Se ne stava talvolta al “muretto del Duomo”, nella zona pedonale di corso Vittorio Emanuele dove si concentrano alcuni rapper nostrani. Scuola media, due anni al Cfp comunale di Gorgonzola, poi l’iscrizione a un’agenzia di lavoro interinale, tanti lavori e lavoretti, le difficoltà di tantissimi ragazzi: ” Io ero un uomo-macchina, andavo al lavoro tornavo a casa, anni e anni sempre così, è stata questa la mia vita. Sono da trenta anni in Italia, sono tra i primi ad essere arrivato, lavoro in una fabbrica di ascensori, la Siag qua a Cernusco e il 23 luglio mi sono fatto male.
Sono del Burkina Faso, di un posto chiamato Gnagho, ma mio figlio – dice papà Assane – è italiano. Ed era giovane, qualche volta usciva, ma non fumava, non beveva, aveva una ragazza. E sapete – chiede scuotendo la testa – di che cosa abbiamo parlato alle 23, l’ultima volta che l’ho visto? Di lavoro. Di che cosa avrebbe dovuto combinare… “,in un mondo confuso, che per questa famiglia, e anche per gli assassini di un ragazzo nero che amava il rap, non sarà mai più quello di prima: “Per la prima volta – dice una sorella – ci siamo accorti di essere negri”.