Lanfranco Caminiti
Pietro Grivon è il marito di Olga Cerise, la donna che in un giorno di giugno ha provato ad affondare in un laghetto della Val d’Aosta tenendo in braccio un bimbo di ventun giorni. Le cronache lo raccontano così: «…Pierino è uno di loro, e tutti sono pronti a descrivere la sua laboriosità… Le aveva fatto la promessa di una casa loro e l’ha mantenuta: non importa quanti turni di notte gli è costata, alla Baltea Disk, la ditta informatica del gruppo Olivetti…». Valter Pasini, 49 anni, è il marito di Elisa Barbato, la donna che a Imola in un giorno di maggio ha ucciso a coltellate la figlia di sette anni e poi si è suicidata. La tragedia è stata scoperta dal marito della donna, di rientro dal lavoro. Le cronache lo raccontano così: «E’ considerato un gran lavoratore: oltre all’impiego come operaio all’Irce, grande azienda che produce cavi smaltati, coltiva anche un piccolo terreno a Dozza Imolese…».
Venanzio Compagnoni, 39 anni, operaio edile, è il marito di Loretta Zen, la donna che un pomeriggio di domenica ha afferrato la piccola figlia Vittoria e l’ha infilata nel cestello della lavatrice. Anche di Venanzio raccontano le cronache: «… lo conosce da sempre. `Un gran lavoratore’. Uno che per mantenere la famiglia e vivere con dignità si spacca la schiena in una impresa edile del paese, guidando gli escavatori…».
Mariti laboriosi, che si spaccano la schiena, nocciolo duro dell’Italia che lavora, che regge le crisi, che sta in trincea, in casamatte, in ridotti della vita, piccoli paesi con piccole fabbriche che punteggiano le valli, le pianure, le coste, dove la famiglia è ancora un vincolo potente e assillante e l’unico miracolo che si conosca è quello di una qualche madonnina che piange. E’ quello che si costruisce con le proprie mani. Ma impotenti di fronte alla crisi dentro le loro case. Fa impressione leggere la sequenza. 11 agosto 2000, a Castel del Sasso (Caserta) una maestra di 36 anni si uccide con le tre figlie di sei, due e un anno, saturando l’interno della macchina con i gas di scarico. 18 aprile 2001, a Inzago (Milano) un impiegato di 40 anni torna a casa e trova il figlio di 19 mesi morto e la mamma impiccata a una trave del soffitto. La donna si è suicidata dopo aver soffocato il figlio. 29 giugno 2001, a Cretone, una frazione di Palombara Sabina (Roma), una donna macedone di 36 anni, sposata con un italiano, uccide con 30 coltellate i suoi due figli di 5 e 6 anni. 12 settembre 2001, a Limidi di Soliera (Modena), un uomo di 43 anni, al rientro a casa, trova il figlio autistico di 14 anni ucciso, soffocato da un sacchetto di plastica stretto attorno alla testa e la moglie, Paola Mantovani, 39 anni, legata e gettata in piscina. La donna attribuisce la responsabilità ad una banda di rapinatori, ma il 16 ottobre è accusata di omicidio premeditato. 2 dicembre 2001, a Vittuone (Milano) una donna di 40 anni uccide lafiglia di 7 anni, infilandole un sacchetto di cellophane sulla testa e stringendoglielo al collo con i suoi collant di nylon. Poi si siede sul divano di casa, attendendo l’arrivo del marito. 19 febbraio 2002, a Novara, una donna di 21 anni uccide la figlia di poco più di un mese, cercando con violenza di farla smettere di piangere. E poi Loretta, Elisa, Olga. Donne che uccidono i propri figli, che uccidono o provano a uccidere se stesse, che non degnano minimamente di attenzione l’ipotesi di uccidere il proprio compagno. E’ questa la cosa che più mi impressiona. E pure: che odio puoi provare verso figure così sbiadite,insignificanti, «laboriose»? Attenti pure, a modo loro: Valter Pasini avrebbe proposto a Elisa una visita da uno specialista privato; Pietro Grivon si era accorto che Olga «… al cambio di stagione diventava depressa… non è mai andata da nessun medico, nonostante le avessi detto che l’avrei accompagnata per farsi visitare…». Preoccupati pure, a modo loro: chiederebbero aiuto agli specialisti. Una qualche medicina miracolosa ci sarà pure. I mariti, sempre increduli, non trovano di meglio che ripetere come un karma un concetto solo: «Io non capisco», patetiche figure di «razionale verità», del tentativo di salvare il salvabile mentre tutto si muove come una coperta gettata addosso un covo di serpenti, la casa è sbilenca, sta per crollare e tu cammini in piano sul pavimento inclinato: come quell’assurdità costruita e piantata nel cuore del giardino di Bomarzo.
Quella rivelazione. La casa sta prendendo fuoco. Quella casa costruita a prezzo di sacrifici, di turni di notte, distraordinari, di orari massacranti – condivisi o imposti dalla necessità alla propria compagna. Di lavoro. Quale prezzo sta pagando, ha pagato questo paese al benessere, ai modelli di consumo visti in tivvù? Dov’è l’amore? Ah, non ho proprio paura di dirlo: dov’è l’amore? Quale prezzo stanno pagando le donne a quel loro rifluire dentro casa, al non riconoscersi nelle paillettes e nelle luci rutilanti, nel successo del lavoro, nel cercare faticosamente altri percorsi per resistere, per esistere? Quali silenzi assordanti rimbombano nelle loro orecchie come insopportabili realtà, una vita che non vale proprio la pena d’essere vissuta così, che non vale la pena i nostri figli vivano così, che se la vivano quelli che ci credono, perché toglierli di mezzo?
Donne che tolgono il disturbo. Della loro inquietudine, della loro sofferenza, della loro irrequietezza che non si placa con la casa nuova dai bei tetti spioventi e le mura di mattoni a vista. Con rassicurazioni. Che non sanno che farsene di medicine e specialisti (quelli, mandateli tutti in tivvù a ciacolare e rimpinguare il conto in banca). Che non sanno che farsene dei loro uomini, dei loro mariti. Non sono buoni neanche per essere uccisi, questi. La casa brucia. Succede questo. Noi mariti, noi uomini, non lo capiamo. E’ già tardi. Ma resteremo in vita, per quel che vale.