Lea Melandri
Dell’aborto e delle questioni legate alla maternità – legge 194, pillola abortiva, consultori e movimento per la vita, adozione degli embrioni – parlano oggi all’impazzata le massime autorità della Chiesa, dello Stato, della medicina, della giurisprudenza, della cultura e dell’informazione. Tacciono le dirette interessate, le donne che si sono già trovate o che potrebbero trovarsi nella condizione di dover rinunciare a una maternità e quelle che, pur non avendo mai abortito o non avendo più questo problema, ritengono comunque di dover sostenere la scelta delle proprie simili.
Più le voci si alzano, da destra e da sinistra, in nome di Dio o della laicità calpestata, per rispetto di una “natura” immodificabile o della libertà delle donne di disporre del proprio corpo, più si allarga la zona d’ombra e di silenzio in cui va a cadere un’esperienza di vita e di relazione tra gli esseri umani che non a caso suscita un interesse così esteso, un così impellente bisogno di definire limiti, concessioni e divieti. Nel momento in cui il loro corpo, e le traversie che l’accompagnano, diventa “pubblico”, le donne spariscono dalla scena, come se si fosse concluso un millenario esilio nell’unica ricomposizione prevista dalle polarizzazioni della storia, tra maschile e femminile, cultura e natura, privato e pubblico, ecc., e cioè l’assorbimento del “diverso”, dell’“anomalo”, del “minaccioso”, dentro l’orizzonte del sesso che ha imposto il suo dominio, e quindi il suo modello di civiltà.
Ma come capita quando si è troppo assuefatti al rumore, è il silenzio che finisce per sorprenderci e per farsi ascoltare. E allora viene immediata la domanda: perché le donne tacciono? Perché, anche quando parlano, è così impercettibile la consapevolezza che dovrebbe distinguerle dallo sguardo oggettivante con cui la scienza, la politica, la cultura in generale, hanno guardato alla loro vita, natura senza storia, umanità minore da sottomettere o da proteggere?
Perché appaiono così lontane, perse nel mito di una stagione senza ritorno, le appassionate discussioni che portarono all’approvazione della Legge 194, le testimonianze di esperienze vissute, rese nei luoghi meno protetti dalla riservatezza, come le assemblee e le manifestazioni?
Ma, soprattutto, per quale inspiegabile ottenebramento, o rimozione, si parla dell’aborto come se le donne si mettessero incinte da sole, e per leggerezza o sadismo decidessero poi di sgravarsi di quel peso? Che si chieda a gran voce la loro ribellione, come ha fatto qualche illustre ginecologo, che si pretenda il rispetto della loro sofferta decisione, che si sostenga il diritto all’autodeterminazione in fatto di maternità, si tratta pur sempre di proclami che parlano di un soggetto considerato di per se stesso debole, bisognoso di tutela e di rappresentanza, e, soprattutto, di un soggetto che porta in solitudine quel potere e quella condanna che è la capacità biologica di fare figli.
Maternità e aborto sono, senza ombra di dubbio, legate a un modello di sessualità penetrativa e generativa, contrassegnata, all’interno del dominio storico dell’uomo, da un carico di violenza materiale e psicologica che non accenna a diminuire neppure in presenza di culture altamente civilizzate.
Come scrisse Carla Lonzi, in uno dei brevi saggi di Rivolta femminile del 1971, «la donna gode di una sessualità esterna alla vagina, dunque tale da poter essere affermata senza rischiare il concepimento. L’uomo sa che il suo orgasmo nella vagina la donna lo accoglie più o meno coinvolta emotivamente e fisiologicamente, sa che in conseguenza di questo la donna può restare incinta…ugualmente l’uomo fa l’amore come un rito della virilità e alla donna accade di restare feconda nel momento stesso in cui le viene sottratto il suo specifico godimento sessuale».
Non ci sono anticoncezionali né politiche famigliari che riescano a impedire a un atto d’amore di trasformarsi nella realtà drammatica di una gravidanza non voluta. Se va salvaguardata la scelta della donna di poterla interrompere senza incorrere in sanzioni penali, non bisogna tuttavia dimenticare la limitatissima libertà che sembra ancora esserci nel rapporto più intimo tra i sessi, sia che essa derivi da antica soggezione, ignoranza del proprio piacere, esitazione a esigerlo da parte femminile, oppure da violenza sessuale manifesta da parte dell’uomo.
Limitarsi ad affermare il primato della donna nella procreazione, il diritto a decidere su una vicenda che trasforma non solo il suo corpo, ma la sua vita intera, tanto più quanto più “naturale” si continua a ritenere la cura materna dei figli (oltre che di mariti, genitori, suoceri, ecc.), vuol dire mettere al centro della scena pubblica, dello Stato e delle sue leggi, i due protagonisti dell’origine, la madre e il figlio, e sfocare fino a farlo sparire in una nuova rimozione quel rapporto uomo-donna che i movimenti femministi del novecento hanno portato faticosamente alla coscienza storica. Ma significa anche, purtroppo, offrire un’occasione facile alla misoginia di ogni tipo, e alle paure infantili più profonde di ogni individuo, per affermare il diritto del bambino a nascere, sulla base di quel gioco di identificazioni che agiscono quasi sempre inconsapevolmente e in modo diverso nella vita di ognuno.
La svolta che le forze conservatrici, incoraggiate e sostenute, non solo nel nostro paese, dal rinnovato interessamento della Chiesa per questioni che spetterebbero allo Stato, persegue in modo esplicito la volontà di affermarsi sul terreno che la cultura laica ha esitato a far proprio, nonostante sia stata in tempi non lontani attraversata da movimenti che ne hanno fatto il centro delle loro pratiche politiche.
Tra i “valori” su cui le destre, cattoliche e ateisticamente devote, intendono impostare la loro campagna elettorale, campeggia, come già si può vedere, il corpo femminile, il suo “naturale” destino di continuazione della specie, di negazione di sé per il bene dell’altro, di cerniera immobile tra la famiglia e la società, di urna domestica depositaria di tutte le virtù che vengono sistematicamente disattese dalla vita pubblica.
Se ci fa orrore e ci riempie di indignazione che i più accesi sostenitori della guerra e della superiorità dell’Occidente siano anche gli zelanti San Cristoforo ansiosi di traghettare neonati fuori dalle infide acque materne, dobbiamo anche chiederci se, opposto e speculare a questo atteggiamento, non sia la difesa a oltranza della donna “vittima”, l’insistenza sulla figura materna e sull’aborto come “questione femminile”, anziché portare l’attenzione, come sarebbe logico, alla forma che ha preso storicamente il rapporto tra i sessi.