Pietro Bianchi*
Da uomo, penso che la questione posta dalla manifestazione del 24 novembre contro la violenza sulle donne non stia tanto, per noi uomini, nel dilemma partecipare-non partecipare. Quanto piuttosto nella povertà della parola maschile quando si arriva sulla soglia dell’inestricabile intreccio che lega politica e sessualità. Diceva Lacan che l’Altro rimanda al mittente il suo messaggio in forma invertita. Ecco, un articolo come quello di Tamar Pitch sul manifesto del 24/11, o la scelta «separatista» delle organizzatrici della manifestazione, rimandano al mittente la figura di una parola maschile assente, muta, incapace di esprimere qualcosa di più che solidarietà verso un Altro da sé separato e vittimizzato. E quindi comprensibilmente esclusa e relegata nel fondo del corteo. Dalla scelta separatista personalmente dissento (il dibattito a riguardo su siti e mailing list è stato significativo), tuttavia poche volte mi è capitato di vedere nella configurazione di una manifestazione un’allegoria così carica di senso. La parola maschile sulla violenza maschile – e più in generale sulla relazione tra i sessi, perchè è di questo che si parla – non c’è. E’ un problema politico e soggettivo enorme, che è sempre più urgente affrontare.
Concordo con Ida Dominijanni (24/11) che nelle forme contemporanee di violenza e appropriazione del corpo della donna non ci sono solo persistenze patriarcali. Né penso che si tratti solo del backlash di un dispositivo culturale messo in crisi dalla libertà femminile. Il fenomeno ha una sua specifica pregnanza contemporanea. Qual è precisamente il problema? L’altra faccia della libertà? O la crisi del rapporto tra i sessi?
Lo stato del rapporto tra i sessi parla di un’asimmetria strutturale e di una crisi del dispositivo di soggettivazione, non solo della competizione tra due identità di genere bell’e fatte, o delle velleità narcisistiche dell’uomo che stentano a morire. Nel suo contributo al volume Si può sulla legge 40 pubblicato da manifestolibri, Stefania Giorgi analizzava le tecnologie riproduttive come figura del desiderio mancante che sempre più spesso tormenta il rapporto tra i sessi: «La coppia generativa è sempre meno generativa e le tecnologie riproduttive possono essere interpretate come una necessaria ‘stampella’ per rendere fecondo un incontro altrimenti sterile, mancato. Riparo e copertura di una ‘incompatibilità’ non solo fisiologica fra maschi e femmine, di un desiderio sfasato, non coincidente, o inesistente e dunque da surrogare, di conflitti sul terreno della libertà…. in una economia di coppia dove sempre più spesso la sessualità resta un tassello mancante». Bisognerebbe cominciare ad indagare perchè nella relazione fra uomini e donne la sessualità sia sempre più un tassello mancante o mancato, che più viene mancato e più si esprime inversamente con la violenza appropriativa.
Se però confrontiamo questo «mancamento» della sessualità nella relazione tra i sessi con il dispositivo sessuale che abita l’immaginario contemporaneo, i conti non tornano del tutto. La coppia desessualizzata vive infatti in un mondo che invece è totalmente sessualizzato, dove la pornografia non è più una trasgressione marginale ma è il veicolo per eccellenza dello scambio di merci. C’è una strana coincidenza degli opposti tra deseussalizzazione e nudità, tra l’esposizione del sesso e il suo ritrarsi. La psicoanalisi ci dice (e il boom delle relazioni su portali come MySpace lo confermano) che viviamo in un tempo sempre più caratterizzato dalla sconnessione tra desiderio e godimento, dove il secondo è sempre più esposto e onnipresente ma non è più mediato dal primo. E cosa succede quando il godimento si separa dal desiderio, e il desiderio non incontra la parola dell’Altro? La pulsione si fa acefala, si chiude in se stessa, non trova parole per dirsi, si blocca in un nodo che non riesce a iscriversi in una storia e in un progetto soggettivi.
Le mille forme in cui la sessualità oggi si mercifica e si esprime la rendono dunque al contempo muta, pura ripetizione di un godimento pulsionale. La «libertà» sessuale ci riconsegna dunque una sessualità deprivata del desiderio, una sessualità da incubo dove il corpo è «solo corpo» e non si fa segno di nessuna relazione intersoggettiva, dove il desiderio dell’Altro non ha bisogno di essere attraversato, perchè la soddisfazione del godimento è a portata di mano. E’ in questo senso che dobbiamo leggere la proliferazione della miriade di identità/comunità sessual/perverse che popolano l’immaginario sessuale collettivo: come un modo per evitare di interrogare il desiderio, che con le sue aporie e impossibilità ci espone al baratro dell’incontro con un’Alterità irriducibile, e per questo inquietante. Scriveva Ilaria Bussoni su DeriveApprodi più di dieci anni fa: «Ecco l’oscenità del sesso, che non ha l’esempio più alto nelle riviste porno, ma in quell’esposizione senza sosta di nudi corpi senza più nulla di erotico né sensuale, che rimandano come segni del potere alle misere esistenze che li abitano. L’ars erotica è lasciata ai giornali femminili che insegnano come far godere il partner toccando le zone erogene come fossero pulsanti di una lavatrice».
Il desiderio è ciò che viene sacrificato nelle forme contemporanee delle relazioni sessuali deprivate dalla mediazione dell’Altro, e quindi strutturalmente masturbatorie e in definitiva solitarie, e forse abitate perfino da una vena di disperazione. Forse c’è molto di questo nel fantasma di appropriazione del corpo femminile che sta dietro le violenze sessuate. E c’è molto di un immaginario affollato dal boom dei rapporti con le prostitute di maschi di ogni dove, dei matrimoni fatti per procura in Tailandia, a Cuba, nell’Europa dell’Est: tutte manifestazioni di un desiderio che ha paura di aprirsi all’Altro e trova la scorciatoia nella mediazione del denaro o nelle relazioni telematiche.
Quanto ha di propriamente «maschile» questa forma della soggettività, e quanto invece è sempre più trasversale, disincarnata come la sessualità che la connota? Ogni movimento che voglia mettere a tema il desiderio (e tutti i movimenti lo fanno, esplicitamente o no) non può non focalizzare innanzitutto la soggettività sessuale. Partendo ciascuno da sè, se questa formula non significa la rinuncia a ogni universale ma l’ implicazione soggettiva nell’oggetto del proprio discorso. Di che forma di soggettività vogliamo farci portatori come uomini e donne che incarnano la strutturale asimmetria della differenza sessuale? Forse, per ri-pensare politicamente queste domande, dovremmo farci aiutare dalla psicoanalisi, gettandola nei sentieri tortuosi dell’immaginario collettivo.
* Associazione «Millepiani» di Bergamo