Tiziana Plebani
Nel 2000, come si ricorderà, Karol Wojtila fece una pubblica confessione degli errori commessi dalla Chiesa e dai cristiani nel passato, dalle Crociate alla tratta dei neri, dallo sterminio degli Indios agli eccessi dell’Inquisizione sino all’Olocausto.
L’ammissione delle colpe è un evento assai importante nella storia perché interrompe un processo lineare, dà voce alle sofferenze e alle ingiustizie procurate e crea le basi per una riconciliazione col passato. Tuttavia essa non è sufficiente: l’ammissione degli errori dovrebbe provenire da un sincero accoglimento dell’esistenza e delle istanze degli altri, quelli a cui si sono inflitte le pene, e, conseguentemente, inaugurare la volontà di non percorrere più la strada che ha condotto a tali errori, che, val la pena di ricordarlo, ha lastricato la storia di guerre, morti, bruciati nel rogo, donne disprezzate e condannate, individui torturati nel corpo e nell’anima ed espulsi violentemente dalla società attraverso il potere della Chiesa.
Questo accoglimento si era palesato nella strada imboccata da Giovanni XXIII ed espressa nel Concilio Vaticano II, soprattutto in quella volontà di uscire dalla logica delle condanne e di aprirsi alla dialettica interna ed esterna alla Chiesa. Tale direzione è stata abbandonata con Giovanni Paolo II, che ha inoltre rafforzato, come ben si vede, la struttura di potere delle più alte gerarchie ecclesiastiche e negato la parola a comunità di base, teologi dissidenti e al per nulla uniforme “popolo della fede”.
La logica della condanna, arma di potere e di rafforzamento dell’autorità, impone norme rigide e punitive e cristallizza i rapporti tra i fedeli e il capo spirituale, istaurando un’equazione pericolosa tra la sua figura e la figura del giudice del potere secolare, in assenza tuttavia di processo e di strumenti di difesa da parte dell’accusato.
Sono una laica e dunque qualcuno potrà chiedermi perché mi interesso di tutto ciò e non mi accontento di ribadire i necessari confini tra gli ambiti del potere religioso e quelli dello Stato. Più di una ragione invece mi spinge a pensare che la pura difesa della separazione delle sfere sia insufficiente e che alle idee che animano una cultura – perché quando si parla di religione si parla di cultura che come tale non è statica e astorica – si deve controbattere con altre idee. E chi vive in questo paese, come me, sa che la separazione tra le due sfere non è né esistente nel presente, dato l’ancora permanente confessionalità dello stato italiano, né tantomento nel passato. L’influenza della cultura religiosa, nel complesso delle credenze che hanno un significativo peso nel plasmare i comportamenti e la mentalità degli individui (un’influenza che è cresciuta a dismisura, come ben si vede, in tutto il mondo attuale), e la presenza di una struttura ecclesiastica di potere, sono altre ragioni che spingono chi voglia occuparsi criticamente della propria cultura di appartenenza a non ripararsi dietro a confini più immaginari che reali e a prendere parte nel discorso. Inoltre, proprio perché le idee, le pratiche e le cornici di senso non sono statiche, e non lo sono state nemmeno nel passato, è necessario evidenziarne i cambiamenti e, in quanto studiosa di storia, sono attenta alle svolte di pensiero che condizionano o vogliono condizionare la nostra vita.
E quella che è sotto ai nostri occhi è una svolta autoritaria delle più alte gerarchie ecclesiastiche che si sta prepotentemente acuendo e a cui bisogna rispondere non tanto e non solo fissando i limiti dell’influenza della Chiesa (visto che abitiamo lo stesso paese e la stessa cultura) ma confliggendo in merito ai metodi, alle questioni e all’oggetto delle condanne.
Gettare condanne e non assumere su di sé le sofferenze del mondo, la fragilità dei viventi, respingere e non accogliere, non perdonare, fare della minaccia di peccato un’arma di potere è, a partire dalla critica ai metodi, davvero un percorso violento, non tollerabile e che si è allontanato dalla strada dell’amore che lo stesso Cristo indicava perdonando la meretrice, proteggendo i deboli e gli umili (tematiche che non appartengono solo ai credenti ma alla storia dell’etica).
E in quanto ai contenuti, ciò che mi colpisce profondamente è l’incapacità dopo tanti secoli, dibattiti, scontri e alleanze, di guardare alla corporeità dei viventi come a un bene prezioso e non a un luogo di smarrimento e di bassezza, bensì a ciò che ci fa umani, viventi, bisognosi, nati da un corpo di madre che insegna il valore e la necessità dell’amore e del suo corpo, sessuato, finito, reale.
Perché ancora questa Chiesa (come molti ambienti politici, culturali, religiosi) non riesce ad accettare la realtà dei corpi e la differenza sessuale come ricchezza? Perché quest’insistenza sul celibato e sul rifiuto di entrata alle donne (presenti invece nella storia della Chiesa con figure di rilievo), che fa dei sacerdoti delle figure emotivamente fragili, e in profonda difficoltà a gestire la propria sessualità? Perché queste alte cariche ecclesiastiche non si prendono carico della radicale misoginia culturale di cui sono imbevute e non ne disinnescano la carica esplosiva?
La loro irrisolta ossessione verso le pratiche corporee li conduce a guardare il corpo femminile, il corpo Altro in assoluto per il clero maschile, come l’emblema della vita di pulsioni, umori, cicli biologici, godimento e bisogno, scandita da fecondità, da cui tutti originiamo e dipendiamo. E la dipendenza, se non è accolta “culturalmente”, è fonte di oscure paure e repulsioni.
La risposta attuale alla radicale diversità del corpo femminile rievoca la misoginia dei clerici medievali, rinfocola drammi ed errori del passato, quelli stessi per cui Wojtila ha fatto ammissione di colpa.
E il dominio, il controllo attraverso dettami e prescrizioni della vita sentimentale e sessuale, pare voler tendere a depotenziare le donne e gli uomini delle loro energie vitali e a convincerli di lasciare il governo del proprio corpo e di pulsioni, desideri e necessità – l’insieme del “disordine” del corpo – in mano a uomini ordinati (sacerdoti, prelati ecc) che invece dovrebbero ammettere la loro debolezza e il loro difficile equilibrio. Non è un caso dunque che ad essere oggetto delle maggiori condanne sia la direzione della sessualità, (che le donne e anche gli uomini, hanno voluto separare dalla fecondità) schiacciando i fedeli tra l’impossibilità di agire la contraccezione e l’imposizione della maternità e rinviando all’intera comunità di individui, credenti o meno, un’immagine misera e sporca del proprio desiderio.
Tuttavia, sia perché gli individui sempre più costruiscono il senso e il valore della vita a partire dalle proprie esperienze e dai propri sentimenti sia perché l’oggetto della repulsione dei clerici, le donne, ha risposto con una propria elaborazione culturale e con autonome pratiche politiche, tale presunto dominio sui cuori e sulle camere da letto sta mostrandosi sempre più nudo ormai agli occhi del mondo. E visibile così com’è – privo di amore e povero di accoglienza – resta solo un linguaggio violento e rozzo, svuotato di quella profonda umanità e rispetto della soggettività femminile che si riscontra nella cultura religiosa più autentica e pulsante.
Ed è quindi, attingendo anche a quel patrimonio, valore universale anche per i laici come me, che io, rispondendo agli attacchi sulla libera scelta della maternità che abbiamo voluto e praticato, guardo a Maria e a quell’episodio centrale non solo nella sua vita ma nel Cristianesimo tutto, incentrato nell’Annunciazione, una scena che ci è stata consegnata solo dal Vangelo di Luca. Uno degli elementi cruciali e non a caso sottaciuto, riguarda, nel colloquio con l’angelo Gabriele, il consenso della Vergine: solo l’accettazione consapevole di Maria dà corso alla storia, apre la possibilità all’avvento. E’ solo il suo sì che accoglie nel corpo e nella mente la vita.
Dunque le materie sulle quali alcuni esponenti delle più alte gerarchie ecclesiastiche stanno emanando condanne, dettami e divieti non sono tematiche che appartengono solo al popolo della fede ma riguardano la vita di tutte e di tutti e i valori e i simboli della nostra cultura e di ciò dobbiamo essere pienamente consapevoli.