3 Gennaio 2005
Liberazione

Il nodo dell’autorità politica femminile

Maria Luisa Boccia

I segnali di una grande e diffusa insofferenza femminile rispetto all’ennesima offensiva sull’aborto sono molti; da quelli direttamente politici, le tante e affollate riunioni nel paese alle reazioni personali. La manifestazione del 14 gennaio a Milano, riunendo corpi e voci plurali, sarà una messa in scena teatrale di questa insofferenza, come l’ha definita Rosetta Stella alla Casa internazionale delle donne di Roma.
Prima e dopo c’è la politica, la tessitura di un discorso e di un percorso tra donne differenti, per esperienze, per pratiche, per saperi, ma che concordano sull’essenziale: contrastare la pretesa di controllare il corpo femminile, dettando norme, etiche e giuridiche, in nome di principi e valori assoluti. In realtà gli antiabortisti sono i primi a sapere che non vi è modo di sottrarre la decisione alla donna, nell’esperienza prima che nella legge. Il loro intento è quello di stravolgerne il significato: negando autorità politica alla parola femminile, svilendo la responsabilità della singola donna, rendendo più onerosa e condizionata la sua scelta.
E’ evidente che il conflitto più aspro è quello sull’autorità politica della parola femminile. Perché tra gli anni ’70 e l’oggi non c’è stato affatto silenzio. Al contrario. Se all’invito “usciamo dal silenzio ” abbiamo risposto in molte, riempiendo da un giorno all’altro spontaneamente le sale, è perché in questi anni, abbiamo continuato a fare politica tra donne, giovani e meno giovani, femministe e non, mettendo in parola l’esperienza femminile, cambiando noi stesse e i rapporti privati e pubblici. Il problema, allora, non è il nostro silenzio, ma quello altrui su questa politica. Silenzio di uomini su come e cosa è cambiato anche per loro; silenzio delle istituzioni, dei media, della cultura su questi cambiamenti, e su come debbano, quindi, mutare i temi, le priorità e i modi della politica, per non scollarsi dalla realtà.
E’ un silenzio non innocente, poiché rovescia su noi donne la crisi di autorità maschile, inevitabile conseguenza della nostra sempre più forte e diffusa autonomia. Per romperlo non serve visibilità, come spesso sento dire nelle nostre riunioni. La rappresentazione pubblica della nostra insofferenza, per me benvenuta, potrà soltanto interromperlo. Molto di più ci servirà, come ha scritto Lea Melandri su Liberazione (18 dicembre), consolidare i rapporti politici “tra le realtà diverse in cui le donne si trovano a vivere”, per “operare da qui in avanti insieme e separate”. Abbiamo iniziato a farlo in occasione dei referendum sulla legge 40 e le molte iniziative di questo periodo sono anche effetto di quel lavoro.
Molte di noi avevano facilmente previsto che la sconfitta nel referendum avrebbe portato ad una nuova, più arrogante, offensiva sull’aborto. In quell’occasione abbiamo preso parola contro una legge proibizionista.
Ma ci siamo anche opposte all’appello a valori astratti: da un lato la libertà della ricerca scientifica ed il progresso dello sviluppo tecnologico, dall’altro la sacralità del concepito e del legame biologico a fondamento della famiglia. Sono convinta che questa contrapposizione era distante dalle domande di donne ed uomini, e dunque abbia favorito l’astensione dal voto. Per contrastare il proibizionismo della legge 40 c’era e c’è bisogno di un discorso critico sulle tecnologie. Infatti il paradosso di questa legge è che assume in pieno, legittimandolo, il nocciolo essenziale del discorso scientifico-tecnologico, quello del riduzionismo biologico. E’ in nome di una verità biologica, scientificamente accertata, che vengono affermati i diritti del concepito: alla vita, all’identità genetica, ai genitori biologici. Ed è su questo che si è avuta la convergenza sulla tutela della Vita fin dal suo inizio; la stessa Chiesa cattolica ha adottato argomenti scientifici più che teologici, nei quali potessero riconoscersi laici e cattolici, di destra o di sinistra, con l’intento di allargare lo schieramento politico proibizionista.
In realtà il dibattito sulla Vita ed i diritti del concepito non è affatto nuovo, si ripropone identico da quando si è posta la questione dell’aborto. Il fatto nuovo è che il concepimento avviene fuori dal corpo femminile. Poiché l’embrione in provetta appare del tutto autonomo dalla donna, su questa apparente autonomia si fa leva per dare un fondamento oggettivo alla tesi che vi è persona etica e giuridica fin dal concepimento. Con la conseguenza inevitabile di negare la libertà e responsabilità femminile, nell’aborto come nella fecondazione assistita. Poiché è suo il corpo, suo il desiderio, non può che essere lei a decidere se accettare o no un concepimento come inizio, non solo biologico, di un essere umano. Questo è il nocciolo, etico e politico che lega la riflessione femminista degli anni ’70 sull’aborto a quella più recente sulle tecnologie riproduttive.
Se la legge sulla fecondazione assistita configura un vero e proprio dovere di maternità, sottoponendo la donna ad interventi invasivi e obbligati, per fare di ogni concepimento una nascita, riguardo all’aborto, caduto il divieto penale, si afferma da più parti che il vero scopo della legge 194, fino ad oggi disatteso, è dare valore alla maternità. Chi sostiene questa posizione nega che possa trattarsi di una scelta consapevole. Una donna abortisce, perché è costretta da cause esterne alla sua volontà, o perché quest’ultima è deviata dalla sua naturale, autentica, disposizione. E abortire è comunque una ” colpa ” da stigmatizzare: ieri giuridica, oggi etica.
L’etica della Vita dai cieli della metafisica dei valori assoluti precipita così in picchiata nella retorica sul dramma sociale di donne che vorrebbero ma non possono essere madri. Prevenire è insomma la parola magica che autorizza a sottoporre la donna al controllo sociale e dello Stato, con l’evidente conseguenza di ridurre l’ambito nel quale legalità dell’aborto significa autonomia della scelta, e di allargare il ricorso alla clandestinità.
L’impegno a non lasciare “sole” le donne, dissuadendole con attiva ingerenza, può essere perseguito con ogni mezzo: dall’incentivo economico, all’adozione prenatale, alla pressione psicologica e riprovazione morale, aprendo i consultori pubblici all’attività dei diversi, solleciti, portatori di “aiuto” alla donna.
Se è certo che la vera posta in gioco è quella delle tecnologie, del loro ruolo nel governo e nel controllo dei corpi sessuati, femminili e maschili, dettare legge sull’aborto è, in questa prospettiva, un nodo cruciale. Ed è altresì certo che per noi donne non è in gioco soltanto la possibilità di scegliere se e come abortire. Non si tratta, allora, di difendere una legge e neppure un principio, quello dell’autodeterminazione, per garantire la possibilità di scegliere se e come abortire. Contro la pretesa di controllare i nostri corpi, e contro la riduzione della differenza femminile a funzione materna dovremo far valere l’autorità del nostro punto di vista, non solo su procreazione e sessualità, ma sulla politica.

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