Alberto Leiss
“Chi regge davvero l’Impero d’Occidente che oggi si estende praticamente su tutto il globo? Un uomo e o una donna?” L’interrogativo è rimbalzato anche sulle prime pagine delle gazzette della nostra piccola provincia imperiale, incuriosita e eccitata dal “sexgate”. “Presidente Hillary” ha commentato “la Repubblica”. “Il Tempo”, quotidiano romano assai conservatore, si è scandalizzato del fatto che il destino del mondo sia stato in balia di “due donne”, la presunta amante e la moglie dell’imperatore, cui è toccato di raddrizzare per la seconda volta le sorti politiche del marito. Anche “l’Unità” ha affibbiato ad Hillary Clinton l’appellativo, senza virgolette, di Lady Macbeth. Insomma, da parte maschile, stupore, disordine mentale, istintiva misoginia.
L’evento con la sua risonanza mediatica globale, ribadisce – a poca distanza dall’esplosione del culto di Diana (Spencer) – che questa è l’epoca della rivoluzione tra i sessi (per iniziativa femminile, si intende) e che persino la politica non può che esserne contradditoriamente contaminata, e in qualche modo sovvertita. Gli unici a non vedere questo fatto sembrano essere rimasti i rappresentanti maschili del ceto politico italiano. Non solo Blair e Jospin, oltre a Clinton – con la sua personalissima pratica tra privato e politico- ma anche il signor Kathami, da non molto presidente dell’Iran, ha capito che un programma politico che voglia dirsi “innovatore” non è credibile senza il marchio di qualità dato dalla presenza di donne.
Che cosa succede invece in Italia? Che Mancino e Violante, chiamati a sostituire il vertice della Rai, dove la volta precedente avevano nominato tre donne, (la destra al governo aveva promosso addirittura una presidente: Letizia Moratti), preferiscono varare un Consiglio di amministrazione rigidamente monosex. Intanto il Pds, partito più grande della sinistra e del paese, si accorge (se ne accorge tramite il “comitato dei garanti” che ha un osservatorio sulle pari opportunità) di essere composto e diretto quasi esclusivamente da uomini. La norma statutaria che indica in non meno del 40% la presenza di ciascun sesso negli organismi elettivi e esecutivi non è rispettata quasi a nessun livello. Ci sono poi due dati macroscopici: solo quattro segretarie provinciali su 115 federazioni della Quercia. Nessuna segretaria regionale. Così il PDS marcia verso la costituzione della cosiddetta “Cosa 2”, il cui nome potrebbe essere qualcosa di simile a “Unione” o “Federazione” dei “democratici della sinistra”. Un’amica del Pds in vena di sarcasmi ha così commentato: ci sono due bugie e una verità. Non sono democratici e nemmeno di sinistra, però è vero che sono tutti uomini.
Con meno ironia e più preoccupazione il presidente del comitato dei garanti (unico organismo del partito in cui le donne fanno maggioranza), Giuseppe Chiarante, ha parlato di democrazia svuotata, giacché quasi cancella la rappresentanza della maggioranza della popolazione. La coordinatrice delle donne del Pds, Francesca Izzo, è dimissionaria proprio per segnalare la rilevanza del problema. Anche tra le donne del Pds è ormai all’ordine del giorno l’interrogativo: perché tutto questo succede?
Per quel che riguarda gli atteggiamenti mentali e pratici degli uomini della sinistra, posso rilevare che si tratta, in genere, di persone, almeno fino alla generazione dei quarantenni, dotati di un certo grado di cultura politica, nella quale non manca l’aspetto del rapporto tra questione femminile, politica e democrazia. . Il Pci, dal quale in grande numero provengono, fu un partito fortemente emancipazionista, e attraversato negli anni ’80 anche dalla cultura della differenza sessuale, sia nella ricerca dell’ultimo Berlinguer, sia nell’esperienza vissuta attorno alla “Carta delle donne”, sia nella posizione espressa, durante la “svolta”, dal documento di donne “La libertà è nelle nostre mani”.
Come mai, allora, si assiste a una rimozione così radicale di questo aspetto della elaborazione e della pratica politica, in un momento che viene vissuto e definito, per di più, come rifondativo e “costituente” del sistema dei partiti e delle istituzioni democratiche?
La risposta più semplice potrebbe essere trovata nella peculiarità della “transizione” italiana. Il ceto politico italiano, dopo lo sconquasso prodotto dall’89 in un sistema fortemente ideologizzato e condizionato dalla logica dei due blocchi, e poi con l’esplosione di Tangentopoli, ha conosciuto un trauma profondissimo. Ha visto di fronte a sé il baratro di una crisi irreversibile, e in molte delle sue articolazioni in questo baratro è effettivamente precipitato. Questo ha probabilmente ha stimolato un istinto di autoconservazione che ha messo a nudo la natura eminentemente omosessuale del sistema dei codici e di relazioni che ha sempre governato la politica dei partiti e delle istituzioni. L’istinto, con ogni probabilità, continua a prevalere anche oggi, quando il peggio è passato, (ma non del tutto: lo spettro della galera incombe ancora su alcuni protagonisti di primo piano, e la dialettica politica-giustizia resta il punto dolente di tutta la situazione), e le energie si vorrebbero concentrare nell’opera di ricostruzione.
Continua a vincere, quindi, una sorta di riflesso condizionato, in cui prevale la logica astratta della competizione tra maschi, esacerbata dalla paura che tutto possa ancora crollare ed enfatizzata dal leaderismo, dal personalismo e dalla spettacolarizzazione che segnano sempre più i modi della politica.
In questa politica al maschile ci sono buoni propositi – per la sinistra, assolvere il compito di ricostruire e salvare il paese portandolo in Europa, vocazione genetica che risale al miglior Togliatti – ma albergano anche sentimenti cattivi o futili. Un certo pessimismo, sottile e inconfessato, ma radicale, per la caduta dei vecchi ideali. Un gusto vacuo del gioco politico in sé e per sé. Vari risentimenti incrociati per quel che non è stato. Se è così, si potrebbe pensare che l’assenza e la rimozione del femminile, in questi luoghi della politica, sia un difetto transitorio.
Però è anche possibile che il monosex un po’ triste della politica italiana (impagabile Alessandra Mussolini: con uno come Prodi – ha osservato – non ci divertiremo mai come con Clinton) annunci qualcosa di più radicale, vissuto più o meno consapevolmente dai politici-intellettuali di casa nostra. E cioè una crisi più profonda dei modelli politici e istituzionali della democrazia, così come si è venuta maschilmente modellando negli ultimi tre secoli, crisi d’altronde ancora incapace di confessarsi a se stessa.
Le amiche di “Via Dogana” hanno parlato di un “cambio di civiltà”, e penso anch’io che l’intreccio tra rivoluzione sessuale, salto tecnologico e globalizzazione nel nome del mercato, stia disegnando un mondo in cui le culture politiche che hanno dominato il secolo, inclusa quella liberaldemocratica, si trovano assai spiazzate.
Un apologeta del libero mercato globale , Francis Fukuyama, ha seguito nei suoi ultimi libri un percorso significativo. Prima ha annunciato la “fine della storia” e l’avvento nietzschiano dell'”ultimo uomo”, affermando che mercato e liberaldemocrazia risolvono il problema del “riconoscimento” del conflitto teorizzato da Hegel nella dialettica servo-padrone. Poi si è accorto che, per tenere insieme la società globale capitalistica, c’è bisogno di qualche valore sociale condiviso in più, e ha auspicato l’avvento di “relazioni di fiducia” tra le persone in grado di assicurare legami sociali e efficienza economica più di quanto non sappiano fare le leggi e gli stati e le regole della competizione. Infine, ha recentemente scoperto che la “fiducia” di uno dei due sessi, quello femminile, segue -ahimè – percorsi imprevedibili e rischia di minare alla radice il nuovo “ordine” auspicato. Che guastafeste, queste signore!
Può darsi che la determinazione dei politici italiani a passare sotto silenzio l’altro sesso derivi da questo oscuro presentimento. Gli uni si danno da fare per razionalizzare l’ordine del mercato. Le altre magari finiranno per contrastarlo o aggirarlo, mettendo in campo altre modalità di scambio, con la mente formata da un diverso ordine simbolico. Questo silenzio, allora, sarebbe un linguaggio quasi profetico.