Franca Fortunato
Elena De Filippis è la nuova dirigente del Liceo classico “Galluppi”, che ha raccolto il testimone del preside Armando Vitale, andato in pensione. Vi è arrivata dopo anni di insegnamento e di dirigenza in altri Istituti. Napoletana d’origine, sposata e madre di Sandra ed Eugenio, vive da molti anni a Catanzaro, anche se la sua terra se la porta nel cuore e nella lingua materna, il napoletano, che non ha mai abbandonato. Napoli, in particolare, è il suo intenso legame d’amore con la madre, che traspare nel racconto che ci dà di sé e della sua vita.
Chi è Elena De Filippis?
«Sono napoletana, nata nel 1954. Sono venuta a Catanzaro nel 1975 e non mi sono più mossa. Ho una storia, pertanto, più antica in questa città che a Napoli, anche se le mie radici sono partenopee. La radice della mia esperienza umana e intellettuale è la mia città. Mio padre e mia madre erano napoletani. Mio padre è morto prematuramente e ha voluto essere sepolto qui, a Catanzaro. Sono unica figlia femmina di una professoressa di italiano. Mia madre era una delle docenti più stimate. Era una grande letterata ed aiutava un po’ tutti. Aveva raccolto attorno a sé una quantità enorme di ragazzi, che frequentavano la casa. Con loro discuteva, insegnava, li aiutava. Piccolina, io andavo a questi incontri, cenacoli, per ascoltarla. I miei due fratelli erano meno inclini a partecipare. Mia madre era una donna di grandissimo spessore umano, intellettuale, e ritengo che sia stata davvero la mia maestra. Lei mi ha insegnato, innanzitutto, l’amore per la lettura e per lo studio, come modo in cui ognuno di noi ritrova se stesso. La casa di mamma era il rifugio di tutti i nostri amici. A casa c’erano sempre ospiti, persone che ruotavano intorno a papà, che era molto ospitale, e a mamma. Quando mia madre è morta ha voluto che le sue ceneri fossero sparse davanti al golfo di Napoli.»
È a Napoli, perciò, che è cresciuta ed ha studiato?
«Ho frequentato i primi due anni della scuole elementare alla scuola “Ravaschieri” di Napoli. Poi ci siamo trasferiti al Vomero ed andai in un’altra scuola dove feci il salto dalla IV elementare alla prima Media. La maestra che è rimasta nel mio cuore è quella dei primi due anni. Ricordo di lei l’estrema dolcezza. Ci aiutava a crescere. Io ero legatissima a mia madre. Io e i mie fratelli non avevamo fatto l’asilo. Avevamo una persona in casa, una domestica che era anche tata, e quindi da piccoli, quando la mamma lavorava, noi eravamo con lei. Il distacco dalla casa, per me, era una tragedia. Ricordo l’incubo della scuola. Questa maestra grandiosa mi disse: “Senti, non ti preoccupare. Se tu soffri tanto, andiamo insieme da tuo fratello”. Io non ci credevo, pensavo mi ingannasse. Invece un giorno mi portò da lui, la cui classe era distante dalla mia. Mi vergognai tremendamente perché c’erano tutti i suoi compagni. Questa cosa mi aiutò a superare il trauma dell’abbandono.»
E al Superiore?
«Frequentai due Licei prestigiosi di Napoli. I primi due anni al “Jacopo Sannazaro” e poi mi sono diplomata al “Giovanbattista Vico” nel 1971. Erano gli anni della contestazione. Era un momento in cui grande era il movimento studentesco e forte il desiderio da parte di noi giovani di cambiare la realtà in cui vivevamo.»
Come ha vissuto quegli anni?
«Ho vissuto questo periodo direttamente, ma sempre stando dalla parte dei moderati, nel senso che io ho sempre osteggiato ogni forma di estremismo. Mi sembrava che uno dei rischi che correvamo era l’idea di radicalizzare i conflitti. Ho sempre creduto al dialogo. Partecipavo con i miei compagni a tutte le riunioni che potessero aiutarci a crescere, a comprendere. Io volevo capire fino in fondo cosa stesse avvenendo. Sapevo che molte ragioni erano valide, sapevo anche che alcune modalità erano assolutamente inaccettabili, e quindi ero sempre in una posizione di dialettica e di contrapposizione. La mia partecipazione, insomma, era attiva, ma non totale, anche perché dedicavo molto allo studio.»
Amava in particolare qualche materia?
«All’epoca, per noi, lo studio era selettivo, nel senso che studiavamo per forza alcune cose e per amore altre. Di questo mi sono un po’ pentita nel corso della mia vita, nel senso che il Liceo classico tradizionale offriva poche occasioni per approfondire le matematiche, la scienza, la chimica che studiavamo in modo superficiale. Mentre eravamo veramente vocati allo studio della classicità e dell’umanesimo. L’amore per lo studio di alcune discipline ha segnato profondamente la mia vita.»
In che senso?
«Nel senso che, diplomata, mi sono iscritta alla Federico II alla facoltà di filosofia. Quello è stato, per me, il momento di completa adesione a quello che facevo. Finalmente studiavo le cose che amavo, molta filosofia e molta storia. Avevo grandi maestri, quelli che hanno segnato la storia culturale del Mezzogiorno, come Villari e Galasso. Negli ultimi anni di università ho incontrato quello che sarebbe divenuto il compagno di un’intera vita. Un calabrese, di Catanzaro.»
E così che arrivò a Catanzaro?
«Lui viveva a Napoli con la madre che, rimasta vedova a 33 anni con quattro figli, si era trasferita da Catanzaro per stare con la madre. Vivevamo nello stesso quartiere. Ci siamo incontrate in un gruppo di persone con cui si discuteva, si dibatteva, si andava al cinema insieme, si organizzavano grandi dibattiti di idee. Ed è stato un grande amore, che ha investito l’intera Calabria. Quando vinse un concorso per funzionario del Tribunale di Catanzaro, ci sposammo e siamo venuti a vivere qui, pensando a una tappa transitoria. Qui ho trovato un’umanità vera, non mi sono mai sentita sola, anche se ho mantenuto sempre il legame con la mia terra, dove vivono miei parenti e anche mia figlia e mio figlio. Laureata, ho scelto di fare la mamma e di rinunciare alla carriera universitaria. Non ho alcun rimpianto.»
Quando è entrata a scuola?
«Tardi. Nel 1984-85, dopo aver vinto il concorso per materie letterarie alla Scuola Media. Poi ho vinto quello di filosofia e storia per le Superiori ed iniziai, così, questa nuova avventura in varie scuole, fino a quando ho fatto il concorso per dirigente.»
Perché l’ha fatto?
«Per migliorare le mie condizioni economiche per quando andrò in pensione e perché ho capito che quando un preside ama il proprio istituto e segue da vicino i docenti, le scuole funzionano meglio. Mi manca l’insegnamento, che è quello, io dico, che ci rende “indenni dalla vecchia”. Mi manca il rapporto con gli alunni e, quando ho un po’ di tempo, vado nelle classi per parlare e discutere con loro. Sono giovani che hanno bisogno di persone che dimostrano loro la possibilità di credere e sperare nel futuro.»
Quest’anno, senza Vitale, ci sarà il progetto Gutenberg?
«Mi lasci dire che mi ha molto commosso l’idea di prendere il testimone di una persona di così grande spessore culturale, come il preside Vitale, mio grande amico. Penso che i tesori non vanno sprecati, e Gutenberg lo è. Quest’anno il tema sarà “Vedi alle voci: amore e libertà”.»