Andrea De Benedetti
Succede in Brasile. Un uomo di 38 anni strangola il padre in seguito a una violenta lite familiare. Movente del delitto, una prolunga elettrica, che il giovane reclamava per poter guardare in tivù la partita della Nazionale ma di cui la sorella aveva altrettanto bisogno per allacciarvi il cavo del ferro da stiro. Nel perorare con fervore la causa della figlia, l’anziano padre avrebbe dato un calcio al televisore, scatenando l’ira del suo erede che lo ha dapprima colpito in testa con un boccale di birra e poi strozzato con una cravatta. Da che calcio è calcio, il Brasile è sempre stato portatore di un fanatismo sui generis, che si esprime non solo e non tanto ai danni dei rivali di tifo, ma anche e soprattutto in atti di violenza solipsista commessi contro l’io (a ogni eliminazione ai Mondiali ci scappa almeno un suicidio) o contro quell’io allargato e conflittuale che è la famiglia. Famiglia che, in questo caso, appare come la macabra caricatura di un’istituzione civile, come lo scenario anchilosato in cui uomini e donne possono recitare fino in fondo il ruolo che è loro assegnato da un gioco delle parti tenacemente sessista: lui guarda la partita, lei stira. C’è però anche un padre, che non si accomoda sul divano con la birra invitando la figlia a tacere, ma ne prende le difese, finendo col rimetterci addirittura la pelle.
È questa forse l’unica notizia consolante di una storia che purtroppo non racconta niente di nuovo sulla nostra specie e sul baratro umano, sociale e morale che circonda le vite di chi sta ai margini di tutto. Il padre che si ribella al figlio serve se non altro a spezzare quella complicità tipicamente maschile che si crea di fronte a una partita di calcio, estrema roccaforte, insieme con il rutto e i film hard-core, di un’identità di genere sempre più minacciata dall’allegra e vitale presenza delle donne in tutte quelle faccende che fino a poco tempo fa riguardavano solo gli uomini. Appurato che i maschi reagiscono in maniera non proprio composta a questa invasione di campo, può essere interessante osservare come reagisce il calcio. I segnali sono contraddittori. Proprio ieri l’attaccante argentino Carlos Tévez ha affermato che «le partite importanti non dovrebbero essere affidate a una donna», in evidente allusione all’incontro perso dal Corinthians (la sua squadra) contro il Sao Paulo, in cui la terna arbitrale era composta da un direttore di gara uomo e dalle «bandierine» – chissà che prima o poi non le chiamino proprio così – Ana Paula de Oliveira e María Elisa Barbosa. «Non è che le donne non debbano arbitrare – ha poi aggiunto Tévez – ma noi ci sentiamo più a nostro agio con gli uomini». Ma Tévez non è il solo a concepire il campo di calcio come uno spazio esclusivamente maschile. Ci sono addirittura delle donne che la pensano allo stesso modo. Come Daniela Fini, che qualche anno fa aveva sostenuto che gli omosessuali non possono diventare bravi calciatori.
Meglio chiudere con due soffi di speranza, che arrivano entrambi da una regione cui si tende ad associare un’immagine di arretratezza e bigottismo spesso immeritata: l’Andalusia. Il primo è la notizia, raccontata qui a fianco, che d’ora in avanti nelle categorie regionali le squadre potranno essere costituite fino a un 50% da donne. Il secondo è un appuntamento ormai tradizionale, il derby amichevole tra Torredonjimeno e Martos, disputato da calciatori in gonnellino e destinato a un pubblico esclusivamente femminile. A parti invertite non sarebbe davvero la stessa cosa.