Cinzia Soldano
Tre anni dopo Tutto su mia madre, è tornato un diverso Almodòvar in Parla con lei: film imperfetto e doloroso (un fatto è intervenuto nel frattempo nella vita di Pedro, la morte della sua vera madre), ma secondo me più bello, aperto e interlocutorio, privo dell’ambizione cosmologica che vuol sistemare ogni cosa al suo posto, che parla meno delle capacità salvifiche delle donne, e quindi delle attese fantasmatiche degli uomini nei loro confronti, e più degli uomini in carne ed ossa. Un film che, per chi ha voglia di esporsi alla sofferenza di cui è intriso, si desidera rivedere a distanza di breve tempo. Ci riporta a Tacchi a spillo (1991), straordinario apologo sul rapporto madre-figlia dove il regista, pigliando in giro Bergman di Sinfonia d’autunno (1978), si misurava davvero con i meccanismi diabolicamente ripetitivi di Eva contro Eva (di Joseph L. Mankiewicz, 1950), grazie anche, oltre alle meravigliose protagoniste Victoria Abril e Marisa Paredès, al non secondario apporto di un sorprendente Miguel Bosé, personaggio maschile trasformista che accettava di rischiare mettendosi amorosamente in mezzo. Qui come là commuove il ricorso a grandi musicisti: allora Ryuichi Sakamoto, ora Caetano Veloso. E in più la danza e la forza della visione energetica di Pina Bausch a riaffermare, in splendore drammatico e leggerezza corporea, l’idea di un cinema affettuoso e generoso, capace di stare in contatto con il resto del mondo.
La storia prende le mosse dalla posizione espressa da Pina Bausch nella coreografia iniziale, dove un danzatore cerca di impedire che due danzatrici cieche urtino contro le sedie disseminate sulla scena: lo spavento maschile di fronte a un modo femminile di procedere nella vita visto come un andare a casaccio, sbattere e farsi male. Gli uomini (i figli?) che tentano di preservare le donne da questo hanno vita dura. Ma il “farsi male femminile”, che scaturisce da donne che agiscono fisicamente nello spazio in modo forte, una giovane ballerina e una coraggiosa torera, conduce alla situazione che fa sì che l’affanno e l’afasia maschile si sciolgano: il coma. Parole maschili in presenza di donne dormienti: una scena immaginata e socialmente costruita dalla cultura giapponese, come induce a pensare lo scrittore Kawabata nel romanzo La casa delle belle addormentate (case a pagamento dove uomini vecchi si recano per pensare e parlare in presenza di bellissime ragazze addormentate dai narcotici).
L’azione sessuale di un uomo sul corpo di una donna addormentata: Almodòvar ripropone l’enigma della sessualità maschile evocato da Kleist nel racconto La Marchesa di O. (1807), dove il nobile conte, che ha salvato la marchesa dallo stupro dei soldati, nella stessa notte penetra l’incanto del suo corpo privo di conoscenza (riposa sotto l’effetto del papavero, così immagina la scena Eric Rohmer, amplificando il significato rassicurante del corpo femminile dormiente, nello splendido, omonimo film del 1976, nel racconto invece la marchesa si limita a svenire). In Kleist prevale la fantasia di sporcare la bellezza, l’immagine della marchesa affiancata al cigno amato e ammirato ma insozzato col fango dal conte quando era bambino, con un gesto per lui stesso sconvolgente perché contiene la concezione di sé come veicolo di sporcizia; ma c’è di comune con la vicenda almodovariana l’espandersi di un gesto che non potrebbe compiersi in presenza di una donna sveglia, così come la parola: non riusciamo a parlare, né a fare l’amore con loro quando sono sveglie, facciamolo mentre dormono. Questa è l’istanza maschile di Benigno, infermiere innamorato della ballerina Alicia che si prende cura di lei durante il coma seguito a un incidente d’auto. Almodòvar, due secoli dopo, è più esplicito di Kleist: questi intuiva il declino dell’ordine simbolico-sessuale patriarcale, la fine del consenso femminile a quest’ordine nella presa di coscienza, da parte della marchesa, del proprio valore umano originale, indipendente e slegato dai comportamenti maschili, e nella sofferta scelta della di lei madre di mettere in secondo piano il proprio marito, il pater familias, a favore della figlia; Almodòvar guarda dritto in faccia la nostalgia maschile del ritorno nel corpo materno, cui Benigno si abbandona dopo aver visto un film muto dove un giovanotto, ridotto a minuscole dimensioni da una scoperta scientifica, decide di rifugiarsi per sempre nella vagina della fidanzata. Un momento di letterale nudità che sfida l’imbarazzo di spettatrici e spettatori (rifare il cinema muto è un espediente grottesco che rende la copertura appena accettabile) e mostra il potentissimo dispositivo simbolico della nostalgia come qualcosa che ha esaurito la sua onda creativa e rischia di portare gli uomini, semplicemente, alla sparizione.
Ma nel film c’è un altro uomo che sperimenta una diversa posizione maschile: Marco, impegnato a superare una donna del passato e amarne una del presente coltivando le emozioni che mantengono un ponte tra le esperienze; e che subito comprende e patisce la storia di Benigno. La bellezza maggiore sta secondo me nel modo in cui Almodòvar costruisce la relazione tra questi due personaggi, rimandandoci alla possibilità dei collegamenti interiori tra ciò che dentro di noi già esiste e ciò che potrebbe esistere, su uno sfondo che tollera il fallimento. Marco è colui che sa stare vicino ai sentimenti di tutti senza che nessuno partecipi davvero ai suoi; che tenta di proteggere le donne e gli altri uomini che incontra accettando di non riuscirci, cioè di non diventare lui stesso motivo di vita per loro. Marco deve continuamente andare via e tornare, stare lontano e vicino alle persone che lo emozionano cercando ogni volta la giusta distanza, in un movimento amoroso libero e chiaro, che ha rinunciato ai sotterfugi del feticismo, alle furberie narcisisticamente rassicuranti del ricatto affettivo, all’illusione dei miti che mascherano la realtà dei rapporti umani. Forse per questo è immune dalla nostalgia che, affliggendo Benigno, lo porta a morire e rende evidente che dove l’amata Alicia è viva e sveglia non può esserci lui, e viceversa: un dualismo che ha invaso la differenza con significati perversi, nel mondo che conosciamo. Marco ha misteriosamente trovato l’accesso a una corrente d’amore che lo fa capace di commuoversi accanto a donne e uomini precisi, ma che non s’interrompe e non cerca sostituzioni neanche quando gli amori e le amicizie finiscono: di lui si dice a un certo punto che è argentino, di un diverso paese, notazione che sembrerebbe superflua nella storia. E’ la sua qualità di straniero praticante un amore posto fuori dal territorio opprimente della seduzione che gli consente di avventurarsi su un cammino di vera solitudine, tenero e docile agli incontri che riaccendono l’eventualità di essere messo alla prova e trasformato? Pensando alla biografia dell’autore, può darsi che la morte della propria madre offra un dono estremo, possa aiutare un uomo a chiarire la necessità di questo passaggio.
In un delizioso film di qualche anno fa (Belle al bar di Alessandro Benvenuti, 1994) la mia geniale amica Eva Robin’s dice: “E’ giusto che muoia chi si sente di morire, e non chi si sente di vivere”. Parole che restituiscono l’esperienza di chi ha giocato a fondo su di sé la partita della differenza (Eva è nata maschio e ha desiderato intensamente e agito per stare al mondo come donna senza estirpare il suo legame col maschile). L’armonia tra uomini e donne del balletto finale di Pina Bausch, preceduta dai voli temerari di una ballerina che si lascia cadere nelle braccia maschili, non vagheggia la ricomposizione delle coppie (non sarà sfuggito che in questo film neppure l’omosessualità è un tema, compare solo come messa in scena scimmiottata da Benigno perché gli dà dei vantaggi sociali). Non il sesso in cui siamo nati, o in cui desideriamo collocarci, né le nostre pratiche sessuali – con tutto il corollario di diritti e non diritti escogitati dai moderni movimenti di liberazione – dicono davvero chi siamo, ma il modo in cui facciamo vivere, gioire e patire la tensione della differenza dentro di noi. Solo rilanciare la radicalità di questa tensione ci regala la novità e il cambiamento, prima di morire. Credo che capiti lo stesso alla vitalità delle nostre invenzioni politiche.
Così per Almodòvar il bel corpo di Lydia, fasciato dal rutilante costume della corrida, ha cessato di essere dettaglio cromatico fulminante, incandescente e insieme raggelata visione estetica di Eros e Morte (come succedeva nel suggestivo Matador del 1986): è diventato vera esperienza del corpo vivo sanguinante di vere ferite, un corpo che muore straziato dalle corna del toro ma che prima ha conosciuto la meraviglia lieve del respiro, del calore, del movimento veloce da una posizione a un’altra.