Ida Dominijanni
Tanto per cominciare: la coppia Ratzinger-Wojtyla batte tutti i nostri leader nonché i nostri intellettuali di sinistra, moderata e radicale, dieci a zero. La Chiesa prende atto del «problema» del rapporto fra i sessi, lo colloca giustamente su un livello ontologico in quanto tale anche politico, si preoccupa del portato umano e sociale della rivoluzione femminista, si informa sulle sue diverse tendenze e se ne lascia interpellare; mentre a sinistra del problema tuttora non si prende atto, del femminismo si parla come dell’ultimo, fastidioso residuo ideologico novecentesco, delle sue tendenze interne si ignora tutto e tutto si confonde in un rituale ritornello su diritti e opportunità che annacqua nel nulla la politica, figurarsi l’ontologia. Non vedrei perciò nella «Lettera ai vescovi sulla collaborazione dell’uomo e della donna» una mera versione aggiornata dell’ossessione del pontificato di Wojtyla per la donna e per il controllo della sessualità femminile (che pure resta); c’è in essa, a me pare, un ascolto del divenire storico, del mutamento innescato dalla rivoluzione femminile, che va riconosciuto e incassato. Ferme restando le critiche all’esito – largamente prescrittivo – che le gerarchie vaticane imprimono al discorso. C’è, dicevo, la collocazione del problema al giusto livello dell’antropologia politica e non della contabilità dei diritti e dei poteri. C’è la declinazione della differenza sessuale come differenza relazionale, costitutiva dello statuto dell’umano. C’è l’indicazione di una soluzione appunto relazionale, non separatista e solipsista né rivendicativa e vendicativa, del conflitto uomo-donna. C’è l’individuazione della sessualità come dimensione «non solo fisica ma psicologica e spirituale», rilevante ai fini del pensiero e del linguaggio, dell’essere umano. E c’è la visione della differenza femminile come vocazione relazionale della donna (quella «capacità dell’altro» citata dal documento in cui mi sembrano riconoscibili echi dell’ultima riflessione di Luisa Muraro), non necessariamente incardinata sul destino biologico materno e matura per improntare di sé la vita sociale.
Ciò detto, non è tutto oro quello che luccica. Perché dall’insieme del testo (sui cui passaggi teologici, vetero e neotestamentari, spero che altre interverranno con maggior cognizione di causa) risulta altrettanto evidente la volontà di riportare ciascuna di queste acquisizioni nei binari della morale cattolica, e di imbrigliare la libertà femminile, che della scoperta femminista della differenza è figlia, nel destino sessuale e matrimoniale tradizionale, ancorché rivalorizzato sul piano sociale. La differenza relazionale fra uomo e donna, antidoto alla deriva del solipsismo maschile (deriva risalente a Adamo, se Dio non gli avesse messo a fianco Eva), ricade tutta sulle spalle di lei, mentre esenta lui da qualsivoglia responsabilità: il documento non fa parola della differenza maschile e non la convoca ad alcuna prova di quella «reciprocità» che pure predica. La relazionalità inscritta nella differenza femminile, d’altra parte, viene finalizzata al ruolo «sponsale», privato o sociale che sia, della donna, e una volta disarcionata dal destino biologico della Madre trova un altro esempio solo nella Vergine. E il giusto no al femminismo rivendicativo e belligerante della «guerra fra i sessi» (primo fronte avverso fra le tendenze interne al femminismo) finisce con l’eludere il nodo del potere sessuale fallocratico: fu il peccato, non il dominio della sessualità maschile, a rompere l’equilibrio fra Adamo ed Eva, ed è l’uscita dal peccato, non la lotta al fallocentrismo, a poterlo ristabilire.
Nel documento risulta rivelatore come una cartina al tornasole, infatti, l’individuazione della «gender theory» come secondo fronte avverso all’interno del femminismo. Qui il documento – per quanti motivi di diffidenza possa avere contro certe derive postmoderne di smaterializzazione della sessualità – cade, per almeno due ragioni. Una è teorica, perché non è con le teorie del gender (molte delle quali in verità coincidono con la «prima tendenza» del femminismo rivendicativo) che Ratzinger combatte, bensì con la teoria del gender trouble di Judith Butler (evocata ma non esplicitamente citata), ovvero con la teoria che contesta l’identità compatta del genere femminile per aprire – non diversamente da quanto fa il femminismo italiano della differenza sessuale – alla soggettività femminile tutto il campo possibile delle scelte sessuali, sociali, politiche, discorsive, di pensiero. Per aprire insomma alla differenza femminile la possibilità di dirsi in prima persona, senza che nessuno, né l’ordine fallocratico né la Chiesa, ne decidano una definizione oggettiva. Su questo Ratzinger e Wojtyla non ci stanno: ne vedono solo l’esito sessuale «perverso» – le famiglie «irregolari» gay e lesbiche – che la Chiesa non può tollerare, né in Nordamerica né qui. Per quanto sia accettata, è pur sempre oggettivata e imbrigliata nello «sposalizio» tradizionale che la differenza fra i sessi deve restare.