Stefano Rossi
Gilda Antonucci, 55 anni, è maestra elementare. Insegna alla scuola elementare Russo, che fa parte di un plesso, il Russo-Cesalpino, con 29 classi, 600 alunni e 240 bambini stranieri. La maestra Antonucci ha due quarte: la prima con 23 alunni tra cui 11 stranieri, la seconda con 24 alunni e 8 stranieri. Signora Antonucci, voi riuscite a mantenere la parità fra italiani e stranieri raccomandata dal ministero della Pubblica istruzione. è così importante? «La scuola è un diritto di tutti: fino a che si riescono ad integrare i bambini immigrati la convivenza dietro i banchi è necessaria. La separazione, con classi di soli studenti stranieri, significherebbe il ghetto». Come si sta in una classe multietnica? «Io ci sto benissimo. La diversità aiuta a crescere in uno spirito di solidarietà, collaborazione e pace». Ma sotto l’ aspetto pratico? «Dobbiamo rivolgere a ogni bambino un insegnamento personalizzato. Solo a settembre sono arrivati 40 piccoli extracomunitari nuovi e quasi nessuno sapeva l’ italiano. Abbiamo rumeni, ucraini, magrebini, ecuadoriani, peruviani, cileni, filippini, cinesi… Per qualche ora, ma non per tutta la giornata, che è a tempo pieno, i nuovi arrivati fanno un corso di full immersion di italiano, per una prima alfabetizzazione». Chi è più rapido nell’ apprendimento della lingua? «Ho avuto una bambina filippina straordinaria nello scritto. Chi è di madrelingua spagnola fa meno fatica a capire all’ inizio, ma è di solito più sgrammaticato nello scrivere. Quelli dell’ Europa dell’ est sono abbastanza bravi. I cinesi faticano molto, però si rifanno in matematica». Le famiglie italiane temono che in questo modo i loro figli restino indietro nell’ apprendimento. «I bambini italiani sono i primi a insegnare la lingua. E ci sono attività di educazione motoria e di educazione all’ immagine che consentono di esprimersi indipendentemente dal linguaggio. Inoltre, ci sono dei volontari che ci aiutano. Ad esempio la nonna di un mio alunno è scrittrice e si occupa di due bambine, una egiziana e una ecuadoriana, e di un disabile. Molto dipende dall’ atteggiamento degli insegnanti. Se si fa in modo che una classe mista sia occasione di arricchimento anche per gli alunni italiani, le famiglie collaborano. Noi lavoriamo da oltre 25 anni in questa direzione». I numeri di alunni stranieri nella sua scuola sono sostenibili? «Sì: teniamo conto che se è vero che chi arriva al primo anno non sa la lingua, quelli che seguo dalla prima, ora che si trovano in quarta elementare, sono a un livello molto alto. Sono motivati e imparano velocemente». Cambia qualcosa nella didattica? «Non abbiamo il libro di testo, ne usiamo diversi per adeguarci alle capacità di ciascuno. Raccontiamo un po’ tutti i Paesi che ci sono in classe, per dire storie cinesi con immagini, ideogrammi e traduzione a fronte. Abbiamo anche bambini rom, con loro è necessario ripetere spesso le cose. Non hanno una cultura scritta, dunque hanno maggiori difficoltà a memorizzare». E dopo le elementari? «Molti li perdiamo di vista, perché si trasferiscono oppure perché, conclusi gli studi obbligatori, vanno a lavorare. Altri proseguono. Il primo bambino cinese che ho avuto è ora un ragazzo appena laureato in Economia alla Bocconi, con un master in Inghilterra».