Concita de Gregorio
Sono più o meno l’ intera popolazione della Danimarca. Una moltitudine. A volte vivono sullo stesso pianerottolo, si incrociano per le scale: si sfiorano senza trovarsi mai. Sono quasi sei milioni di persone. «Famiglie unipersonali», s’ intitola il capitolo del rapporto Istat che ne certifica la maggioranza relativa: il gruppo omogeneo più numeroso del Paese. In italiano si dice: gente sola. Viene persino il dubbio che si possano chiamare famiglie, uno consulta lo Zingarelli e alla voce corrispondente trova: «nucleo fondamentale della società umana costituito da genitori e figli». E allora questa, dove non ci sono né genitori né figli, cos’ è? Olga Varetto, che fra due anni va in pensione dopo trentacinque passati a insegnare l’ italiano nelle scuole medie, ci pensa in silenzio poi dice: «No, non potrei dire “la mia famiglia sono io”: è un’ affermazione un po’ ideologica, non trova? Però non sono una persona senza famiglia: ci sono mia madre, mia sorella, i miei nipoti. Loro sono la mia famiglia. Non mi sono mai sposata, è vero. Ma se mi fossi sposata non avrei avuto duemila bambini in Africa, due a Torino, una in Ungheria». Non avrebbe avuto la vita che ha avuto fatta di viaggi e di libere scelte, di sconfitte e di sorprese, di generosa dedizione per gli altri. La solitudine è un concetto relativo. «Una scoperta terribile e stupenda imposta dal nostro tempo fatuo e feroce – scriveva Giorgio Manganelli nell’ agosto dell’ 1980 – non occorre essere eremiti: c’ è solitudine per tutti». Anche in famiglia, intendeva, dove tanto spesso «la solitudine è sostituita dall’ isolamento. Famiglie sull’ orlo della cronaca nera sono state redente da un gatto». Essere soli non è mai una circostanza biografica. Mai solo quella, almeno. Dei milioni di persone di cui parliamo la gran parte sono anziani: un quarto del gruppo vedovi e vedove. Il tema, qui, è quello del prolungamento della vita media – indice positivo, in Italia più alto che nel resto d’ Europa – incrociato alla necessità di assistere questa massa crescente di persone spesso non autosufficienti, o non del tutto: come si attrezza un governo ad affrontare i bisogni di una popolazione in cui i vecchi sono già adesso più dei ragazzi. In Liguria su cento persone ci sono 11 bambini e 26 anziani: uno scenario da quadro di Bruegel, un’ emergenza demografica con scenari apocalittici. Di seguito, nell’ insieme del Paese, ci sono i single per scelta: i giovani che non hanno casa né lavoro, che non hanno reddito sufficiente e anche quelli che magari potrebbero rischiare ma «non se la sentono», stanno meglio così. Tema: la precarietà giovanile – i fattori strutturali, economici – e quelli culturali. La carenza di senso di responsabilità, la disabitudine al sacrificio. L’ invecchiamento di una civiltà in cui «fare famiglia e avere figli non è più l’ obiettivo primario», scrivono anche i sociologi. Infine, e sono la parte più consistente, le persone rimaste sole non perché lo abbiano desiderato ma perché è andata così: uomini e donne tra 40 e 60 anni, non più ragazzi non ancora vecchi, milioni di persone con una storia da raccontare, a volte un lutto da dimenticare, molta energia da spendere, ancora. Olga, per esempio. Figlia di contadini, seconda di due sorelle. Pantaloni e scarpe basse, fisico da ragazzina, capelli corti e frangia sugli occhi. «Ho vissuto coi miei genitori fino a 33 anni. È molto dice? Ma guardi: mi sono laureata, a 26 anni ho conosciuto un ragazzo in biblioteca, siamo stati fidanzati quattro anni ci dovevamo sposare, poi lui ha sposato un’ altra. Io ero precaria, a scuola. Stavo coi miei. Soldi da buttare non ce n’ erano. Ho cominciato a pensare di comprar casa ma avevo poche lire ed ero così demoralizzata che mi sono detta: faccio un viaggio». È andata in Nepal, da sola. L’ anno dopo in Perù, quello dopo in Marocco. Intanto ha incontrato quelli che sarebbero diventati i suoi «primi due figli». «Ho risposto all’ annuncio di una famiglia di importanti imprenditori torinesi che cercavano un’ istitutrice per i loro due ragazzi in affido, 6 e 11 anni. Ragazzi impegnativi, si capisce. Sono rimasta con loro dieci anni: la mattina insegnavo, il pomeriggio andavo da loro. Li ho cresciuti, ancora adesso ci sentiamo sempre. Sono i miei ragazzi». Nel frattempo è arrivato il Kenya. «Avevo appena letto “La mia Africa”, sono partita con quattro amici, volevo arrivare sul lago Turcana». Il giorno che sono arrivati al lago, macchina a noleggio, è finita la benzina. Loyiangalani, il nome del villaggio di capanne. C’ era una missione italiana, hanno bussato per chiedere aiuto. «Erano preti della Consolata, un ordine religioso di Torino. Si rende conto? Una parte da Torino, arriva sul Turcana dopo un viaggio pazzesco e trova i preti di Torino». La vita, certe volte. Olga, che non aveva quarant’ anni, non sentiva affatto la vocazione da single. «Poi leggo le statistiche e vedo tutta questa gente sola, gli esperti nei dibattiti si chiedono perché: ma come perché? Perché certe volte, parecchie volte mi sembra, non va come vorresti e allora cosa devi fare? Niente, vai avanti». Avanti con la scuola tutte le mattine d’ inverno, poi nelle vacanze un altro viaggio. «Il Turcana è il posto più bello che abbia mai visto, due anni dopo ci sono tornata. C’ era un bambino che non aveva soldi per studiare, ho cominciato a mandarglieli, l’ ho mantenuto fino al liceo: si chiama Lowoi, ha 26 anni, è il mio primo figlio africano». Adesso i figli africani sono duemila. «Raccoglievo soldi fra le amiche, a un certo punto il movimento di denaro è diventato tale che la mia banca sospettava che facessi chissà quale attività illecita. Ho capito che dovevamo organizzarci. Abbiamo fatto una onluss, “Fata Turcana”. Oggi con trentamila euro all’ anno manteniamo duemila bambini in 25 asili costruiti da noi, ogni insegnante ci costa 25 euro al mese. 25 euro, sì». È un modo di essere soli, questo. Di non avere famiglia. Di non essere famiglia. Poi certo ci sono le vicende private: un’ altra storia d’ amore lunga e impossibile, gli anni di mezzo della vita che passano senza che succeda quel che si vorrebbe e nella sua attesa. «Quando i miei due bambini torinesi sono andati via da casa ho sentito il bisogno di andarmene anche io. Ho fatto un concorso al ministero, sono andata a insegnare l’ italiano in Ungheria. Dura, eh? Non parlavo la lingua non conoscevo nessuno, mi hanno dato un appartamento in un casermone grigio, non potevo nemmeno andare al cinema che tanto non capivo niente. C’ era solo la musica». Tre anni. In Ungheria ha “adottato” un’ altra ragazzina, Betty. «Aveva bisogno di una mano per studiare e trovare lavoro, l’ ho aiutata: ora è una donna, vive in Svezia, è felice». Certo che Olga avrebbe adottato un figlio suo se avesse potuto «ma in Italia non si può: una persona sola non può. Che peccato, no? Perché guardi, io un figlio biologico da sola non l’ avrei fatto e difatti non l’ ho fatto, credo che davvero un bambino per venire al mondo abbia bisogno di un padre e di una madre. Ma i bambini già nati, quelli da soli negli orfanotrofi, non starebbero meglio con una persona per esempio come me, in una casa con un letto e una cucina, con un affetto costante e la premura di qualcuno che gli rilegge i compiti di scuola?». Non si poteva, non si può. «Ho visto che anche nell’ ultima Finanziaria le uniche a non avere nessun aiuto sono le persone sole della mia fascia di reddito: guadagno 1600 euro al mese dopo 35 anni di servizio, non sono pochi ma ci viviamo io i miei ragazzi africani e mia madre che è rimasta sola. Al supermercato gli unici prodotti scontati sono quelli formato famiglia. Tre per due. È come se per noi ci fosse una disapprovazione sociale, mi pare proprio ingiusto. Non ho mica deciso io di restare da sola. Sarebbe stato meglio avere figli, bisogna farne se no ci estinguiamo ma io non ho avuto il dono di una famiglia: me la sono creata, capisco che non sia la stessa cosa ma non mi sento per questo menomata. Sto bene così, a questo punto della vita mi sarebbe anche difficile cambiare». Subito si interrompe, però, sorride con malizia: «No, meglio che questo non lo scriva. Magari capita di incontrare qualcuno, non si sa mai».