Gabriella Bracco
La scuola è una barca che fa ormai acqua da tutte le parti: la lasciamo affondare? Sono in crisi gli insegnanti ai quali vengono affidati incarichi di cui non hanno competenza, gli operatori scolastici sottopagati e spesso precari, sono in crisi i dirigenti nel loro ruolo di capi d’azienda, oberati di responsabilità e unico canale di sbocco di ogni lamentela, è in crisi il personale di segreteria, invaso dall’onda della burocrazia. In crisi anche i sindacati: alcuni accusati di non interventismo, altri di posizioni estremistiche e quella dei servizi sociali, ai quali sono stati tagliati i fondi e presso i quali si rivolgono sempre più casi disperati. Si aggiunga, per altro, che fra tutti gli enti sopracitati, non vi è comunicazione alcuna e tutti questi settori risentono, secondo me, di un unico comun denominatore: la paura.
Sono solita dare ai miei bambini questo tema da svolgere e mentre, fino a poco tempo fa, le paure principali dei piccoli alunni erano quella del buio e dei mostri delle fiabe, oggi sono quelle sentite dagli adulti: avere pochi soldi, prima di tutto, ammalarsi, essere licenziati, perdere i genitori, non raggiungere un ruolo sociale.
La mancanza diffusa di un contatto empatico madre-bambino, crea molti problemi sulla conoscenza del sé, del proprio corpo e quindi delle proprie capacità relazionali e di autostima. Non solo la tv e il computer, invece di avere ruoli didattici, sostituiscono i genitori, ma anche la scuola spesso diventa luogo di delega rispetto a funzioni familiari insostituibili. La maestra è costretta a assumere quel ruolo di maternage che oggi, però, non ha più senso d’essere e che, per altro, i genitori non accettano, perché anch’essi disorientati, oberati dal lavoro e dai sensi di colpa di non potersi occupare di più dei figli.
Tutti, insomma, abbiamo paura: paura di non piacere, del diverso, di non riscuotere consensi, di non reggere la competizione. Ci sentiamo in colpa quando ci ammaliamo o quando invecchiamo perché temiano di essere un peso per la famiglia o per lo stato. C’è una comune tendenza a separare e mai a unire, perché la paura porta verso l’individualismo esasperato.
La paura genera violenza e la violenza genera paura. Dove c’è paura non c’è responsabilità, dove non c’è responsabilità, non può esserci benessere e la scuola, per funzionare, deve creare benessere e accoglienza. Il sistema scolastico è in genere contesto ideale per la promozione della salute, dato che sul piano delle possibilità permette di raggiungere la totalità delle persone in un periodo della vita in cui si può prevenire lo sviluppo di abitudini dannose, ma se ciò non avviene può essere il luogo dove hanno inizio le paure. Si parla sempre di violenza e questa è diventata la protagonista delle scuole, dei parchi, dei cortili, dei giornali quotidiani: ci stiamo abituando alla violenza, è diventata un linguaggio a cui non riusciamo a sottrarci, come la vittima al suo carnefice. I bulli sono i veri protagonisti di tv e giornali e in questo modo vivono il loro momento di gloria perché in fondo apparire è ciò che conta, le piccole fatiche quotidiane, il volontariato di molti, non vengono sottolineati mai, i gesti generosi delle “piccole pedine” rimangono nell’ombra.
Si parla di violenza e di regole per sedare la violenza. Ma quali regole? Anche loro basate sulla paura? Dove c’è paura, c’è un ritorno alle regole repressive. La punizione o il rimprovero devono avere finalità di recupero per aiutare il ragazzo a cambiare comportamento. Una società che non ascolta i giovani e il disagio dell’infanzia è una società sorda e non può che soccombere.
Un tempo si diceva ai ragazzi “le persone sensibili devono fare gli insegnanti, i medici, gli psicologi…”. Oggi a queste categorie viene detto: “pensa alla tua salute, non puoi salvare il mondo!”. Agli intellettuali, agli artisti, ai giornalisti veniva chiesto di denunciare, oggi si impone loro addirittura di tacere. Dietro lo spauracchio della privacy si nasconde spesso l’omertà. Non diciamo che i giovani sono violenti quando proprio noi abbiamo trasmesso loro la paura di essere abbandonati, di innamorarsi, di sostenere i più deboli, di non essere belli, forti e ricchi.
La nostra identità viene costruita sul nemico che abbiamo davanti, ma c’è di più nella vita: la poesia, la musica, l’arte.
Anch’io ho molta paura, ma ho scritto questa lettera per i miei figli, per i bambini delle mie classi e per tutte quelle persone che, stando accanto a me, mi hanno aiutata a averne un po’ meno.